Poesia del sentimento, poesia della realtà tragica dell’universo in cui siamo destinati ad abitare e vivere, poesia della natura e delle sue mille epifanie. Poesia varia e molteplice, dunque, quella della Di Donato, come è varia e molteplice la natura dell’uomo: c’est la vie, sì, è la vita che spinge il poeta a leggere nelle cose, in tutte le cose, e a costruire il proprio scrigno di pensieri ed emozioni, di sofferenze ed illusioni, ma anche uno scrigno di parole, che non sono le parole comuni, consumate dall’uso e sostanzialmente inservibili, ma le parole della poesia, le parole che servono per dire il senso della vita e delle cose, la ricchezza del nostro animo e la fragilità del nostro essere.
Proprio
di qui vogliamo partire per questo breve viaggio in compagnia della poesia di
Rosaria Di Donato, poetessa nella mente e nell’animo: non riposa
l’estro / del poeta e dall’antro / gelido della parola / evoca il nuovo /
l’inconsutile suono / che il tempo rischiara (pag. 39): parole che
danno chiaro e pieno il senso del lavoro poetico, che è un lavoro a tempo
pieno, perché il poeta è sempre proteso a far parlare le parole anche al di là
del loro significato apparente, quello cosiddetto convenzionale, quindi anche
al di là del suono dei loro significanti, sicché le tira fuori dal loro antro
gelido, dove le parole sono destinate a marcire e morire nella loro
“insignificanza” se non vengono salvate e rifatte, quasi riverniciate e portate
a nuova vita, e le dispone in fila per farle parlare e dire tutta la loro
verità, che è poi la verità del poeta. E quest’ordine è la misura del dettato
poetico. A questo punto, se les mots font l’amour, come dice André
Breton, il prodotto artistico sarà di alto valore poetico, perché esse debbono
essere accostate tra loro in un sistema di empatica corrispondenza, o di
chimica associazione. Ma se non “fanno l’amore”, se vengono inserite in una
struttura caotica perché male ordinate, esse non sanno parlare, e se parlano, non
hanno che dire.
Rosaria
è poetessa consapevole del lavoro che richiede il fare poetico: vagando
in questo mare di parole / sovente indugio sui significati / paga non mai del
senso letterale / smonto compongo lemmi iopoeta (pag. 40): lavoro che
richiede acutezza d’ingegno per portare le parole dal loro uso normale ad una
sorta di verginità semantica, perché solo così invento uno spazio
parallelo / ove s’incontrano futuro novità / non mai termini logori
scontati (pag. 40). Il titolo dato al testo da cui sono tratti questi
versi, scintilla celeste, ci riporta al Leopardi, che proprio con
quella espressione ha definito la natura del fare poetico, volendo metterne in
rilievo la genesi particolare come una luce che abbaglia e accende nel poeta il
suo spirito creativo, conducendolo alla costruzione di un mondo alternativo a
quello reale. Perché?
Perché
è pur vero che Rosaria sente l’urgenza costrittiva della memoria che la porta a
rivivere gli anni dell’innocenza, quelli della fanciullezza e dell’adolescenza,
nell’Abruzzo, sua terra di origine, anni caratterizzati da una sorta
di vita campagnola a diretto contatto con la natura, con il fiorito
ramo di melo (pag. 19); con l’armonia che torna con il fiorire
della camelia (pag. 23); con l’anafrodisiaco fiore di loto (pag.
24); con le storie raccontate dal secolare ulivo (pag. 26);
con il ricordo commosso della figura paterna; con la riscoperta del vero
significato dell’essere nata e vissuta in quella terra, in un angolo di
cielo / dove il vento rincorre nuvole / e spazza via la tristezza (pag.
33), dove il silenzio tra cielo e mare è luogo
dell’ascolto senza fine (pag. 34): un mondo descritto con una evidente
corrispondenza tra le parole e la tipologia della realtà, corrispondenza che si
coglie nel linguaggio che corre direttamente verso la cosa che deve
significare. Ciò la porta a dire che non lascerò / morire un sogno (pag.
36) perché continuerà a coltivarne la memoria, perché la memoria riscalda
l’anima e aiuta nel cammino della vita e spesso contribuisce financo a superare
la solitudine che affligge o annienta.
Ma
tutto questo si svolge in un universo dominato da stelle, pianeti
e, soprattutto, dall’orizzonte degli eventi (pag. 41), cioè in un
universo bello e terribile nel quale è confinata la nostra vita, in una distesa
di buio e di luce / in cui perdersi ritrovarsi / senza schemi (pag.
41), al confine tra la nostra esperienza terrena e l’oltranza sconosciuta,
quando, come afferma Leopardi, questo arcano mirabile e
spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso,
si dileguerà e perderassi (Cantico del gallo silvestre).
Rosaria, però, non si ferma davanti a un orizzonte così drammatico e,
ricorrendo all’incipit giovanneo (In principio era il Verbo),
giunge fino a quella “genesi” del mondo derivato anch’esso dalla “parola” (Dio
disse e luce fu), quel mondo che è stato fatto per noi, proprio come
fa il poeta che con le parole crea il suo universo. E qui è la luce, che forse
mancava al Leopardi, come manca anche a chi scrive queste note, perché Rosaria
presenta il mondo nel quale viviamo come la derivazione e l’effetto del mondo
della “genesi”: è in noi quel giardino / siamo uomini e donne /
dell’eden non dell’inferno // ci sono strade per andare lontano (pag.
50), forse prefigurando in questi versi, positivamente, la sua strada, la
strada della poesia, lungo la quale è facile incontrare lo stesso poeta di
Recanati, anche se costui si pone in una posizione ideologica espressamente
contraria alla sua.
Ma
la nostra poetessa va oltre la configurazione della vita dell’universo e della
vita dell’uomo, oltre i problemi del fare poetico e quelli dei massimi sistemi,
perché il suo sguardo si posa, malinconico e rattristato, dapprima
sul fenomeno del covid: segna un solco / il dolore al pensiero / di
tanti che ci hanno lasciati / dei molti che ancora muoiono / nei paesi dove non
c’è argine / alla miseria di vivere (pag. 51), fenomeno di cui riesce
a cogliere la dolorosa connotazione e le tristi conseguenze, e poi il suo
sguardo, inorridito e spaventato, si posa sulla violenza subita dalle donne e
sul sangue da esse versato come una sorta di terribile sacrificio al dio della
brutalità, dell’insipienza, della mostruosità insostenibile. E allora compaiono
i fantasmi di donne trucidate per inconcepibili principi di sopraffazione:
l’uomo si erge a padrone della vita e della morte. E ciò o per bieca volontà di
prepotenza, come nel caso di Samia, uccisa per non aver voluto accettare un
matrimonio imposto dal genitore con spregio violento del sentimento vero
dell’amore della ragazza innamorata di un altro (sono io samia / nube
dissolta nel vento / onda mai giunta alla riva; pag. 45), che Rosaria
descrive con una incredibile leggerezza e levità espressiva, cogliendola
nell’attimo in cui si verifica l’inganno e il disprezzo di ogni sogno e di ogni
speranza, sicché l’onda non arriverà mai alla riva della celebrazione della vita
vera e libera e dei sogni normali in una ragazza della sua età. O per la bieca
violenza del potere politico, nella persona del Trujillo, che non consente alle
sorelle Mirabal di vivere la propria vita in libertà: volevano essere
farfalle / le sorelle mirabal / ma incontrarono la morte / sulla via per porto
plata // e fu proprio quel giorno / che iniziarono a volare perché le
ali delle mariposas / ridestarono coscienze (pag. 46): così la nostra
poetessa celebra il sacrificio delle ragazze che credevano nel sogno della
libertà e della vita vera. E la poesia di Rosaria si fa carico di queste
tragedie della vita e le propone alla coscienza degli uomini come tragedie del
potere che non si sa contenere nei limiti ad esso prescritti.
Ma
che mondo è mai questo che soffoca sogni e libertà? Non resta che chiedere
al vento / dov’ è la soglia / che conduce altrove / e disegnare / con lo
sguardo al cielo / la rotta per i sogni / irrealizzati (pag. 57), e
nel frattempo “fuggo dalla città e me ne vado errante / in cerca d’un
tratturo antico / ove condurre il gregge dei miei sogni // stanca di rumori
cittadini (pag. 62): tratturo che porta ai santi Michele e Giuseppe
dai quali Rosaria si aspetta i veri insegnamenti sulla vita, mettendo a nudo la
sua anima e la sua fragilità, che solo attraverso la poesia si denudano e si
rendono manifeste. Lo dice chiaramente uno dei testi della sezione Chiaroscuri,
testi composti in lingua spagnola seguiti dalla traduzione in italiano: scrivo
perché non respiro / perché non trovo spazio / intorno a me / per i miei sogni
/ invece nella pagina / si aprono visioni / e la mia anima / vive (pag.
79), versi dai quali appare chiara la considerazione della poesia come spazio
libero e autonomo, spazio di libertà nel quale si può parlare senza remora
alcuna anche dei propri sogni d’amore, e dove si realizza quanto viene impedito
dalla realtà, e anche dalla storia..
L’altra
sezione, Miniature, fatta di testi brevi, veri e propri haiku, nei
quali non mutano le tematiche; muta soltanto la struttura dei testi rispetto a
quelli delle precedenti sezioni. E infatti bastano pochi versi (5 + 7 + 5) per
dire, in una sintesi efficacissima, un’idea, un concetto, il senso di una
riflessione, il tutto condito da una voce che sussurra lievemente le parole,
una sorta di flash che colpisce l’occhio del lettore e lo spinge alla
meditazione, che è poi lo scopo fondamentale di ogni poesia. Due esempi: il
tempo che si dissolve nella sua inutilità (fiori nel vento / si dissolvono
giorni / senza un perché), e la dissolvenza dei sogni che perdono il loro
senso trasformandosi in schiuma che si disperde e in conchiglie gettate sulla
spiaggia ed abbandonate (onde del mare / si rincorrono i sogni / schiuma
conchiglie).
A
conclusione della raccolta, ecco apparire, come dal mare un gioiello che non ti
aspettavi, la sezione Tracce, poesie scritte in vernacolo, che
presentano una particolare vivacità espressiva, una chiara freschezza
linguistica, sia quando Rosaria parla di poesia (le notti che nun dormo /
apro ‘no stuccio / de lucciche e parole // è la poesia / che sortita da lo
stuccio / fa l’amore co l’inzogni // cunnola l’anime sconfuse), poesia che
rappresenta il mondo alternativo dei sogni, sia quando parla dello scambio di
ruoli tra la luna e il sole (se pò fa disse la luna / ar sole che
sbrillucicava / io sorto de giorno / e tu spunti de notte // po’ èsse che
scambianno / li fattori er risultato / sia tanto sorprennente / da mutà er còre
de la gente), versi nei quali s’intravede la speranza di un mondo
migliore.
Ho
detto agli inizi che quella di Rosaria Di Donato è una poesia del sentimento, e
lo è perché è viva la sua sensibilità verso i problemi della vita e dell’uomo,
ma è anche una poesia nella quale rivivono persone ed eventi connotati dal
senso del tragico intensamente vissuto e descritto, e inoltre è anche la poesia
della natura, come si è visto in quella sorta di colloquio con le piante che ne
sono una particolarissima espressione. Ma più di ogni altra cosa la poesia
della Di Donato è una poesia aperta, che rifugge da ogni astruseria
linguistica, da ogni gratuito gioco di parole, e si propone al lettore come un
libro da sfogliare, scavare in profondità per poterne portare in superficie
tutti i significati, anche quelli che a prima vista potrebbero apparire come
nascosti nel gioco inventivo delle parole.
Raffaele Urraro
Ringrazio Giuseppe Vetromile per la pubblicazione dell'accurata e puntuale recensione di Raffaele Urraro❤️💕
RispondiEliminaUn cordiale saluto,
Rosaria Di Donato