Silenzio
Albeggi, tendaggi e sàgole,
pianto di rosmarino in bilico,
mentre sulla torre smemora
ogni sapienza esatta.
Dietro lo specchio opaco
ride la sfinge isterica
e con le mani stringe la cornice.
E poi silenzio, silenzio senza enigmi.
Ben vestito
A volte vado a letto vestito,
di tutto punto, giacca compresa,
ci fosse un terremoto fuggirei dignitosamente,
ci fosse un trapasso sarei già pronto,
ci fosse, come poi è, per lo più,
che semplicemente dormo,
me ne vado in giro ben vestito
nei miei sogni e al mattino
mi alzo ed esco così come sono,
con gli abiti stropicciati dal sonno,
e gli occhi furbi di chi va
continuamente tra due mondi,
senza andate e ritorni,
sempre in giro, altro dove,
altro quando, ben vestito,
spiegazzato di vita e di sogno.
Ai primi di novembre
Non mi piace venirvi a trovare, laggiù,
messi in fila, inscatolati nel cemento,
piantati nell’asfalto, freddati dal marmo,
con le date d’inizio e fine, perentorie.
Preferisco incontrarvi, come siete per me,
straordinariamente vivi e guariti dal male,
dagli errori e i rimpianti, bellissimi per sempre,
come forse non speravate o non avete saputo,
ma adesso e per sempre lo siete, in questo
enorme palazzo della memoria, il mio,
il nostro, che abitate con me, dentro stanze perfette.
Non ci sono rintocchi, né grida, né lacrime,
nessuno può disturbarci, persino ridere possiamo,
dimenticarci di tutto, rivivere solo il bene, sempre.
A qualcuno dovrò lasciare le chiavi,
ma questo palazzo non sparirà.
Chi resta
Chi resta, su strade di fumo,
tra pietre accatastate con cura,
alle finestre infrante e soleggiate.
Chi resta e fluttua, mosca bianca
sbattuta dal vento assurdo di Patmos
che soffia sulle tangenziali crivellate.
Chi resta e canta, come se volesse
andarsene ma resta ancora adesso
e nell’ora dell’assenza, carbonio,
sale, orchidea, cemento e pomice.
Chi resta e nessuno se n’accorge,
finché manca, rimpianto rasposo,
dentro qualcun altro che resta
e tutto si trascina senza coscienza,
come un sasso che rotola pigro
dalla roccia al mare, senza scampo.
Misura della fine
Racchiusi nel mobile antico, dolori di conforto,
raffinate porcellane, pianti dorati di Sèvres,
mascherine imprigionate nel Capodimonte,
argenti e cristalli di rimpianti e promesse,
traspaiono speranze, trasudano santità sprecate,
tutte le bambole dormono sognando risvegli,
cadono gocce di silenzio, un elegante vaso
racchiude tutto il vuoto e la perdita, azzurro
vibra su un diapason flebile, che subito smorza.
Non c’è nessuno, solo la polvere ha memoria
ormai inconsistente, spietatamente uguale
su tutto, su questo niente, su ogni piccola cosa
che ostinatamente permane senza più senso,
né dolci baci, né languide carezze, né sguardi,
né respiri, né pianti, né allegrie, resta soltanto,
questo svanire d’ambra liquida, misura della fine.
Saliremo quelle scale senza fatica,
vorrei dirti, ma non so mentirti,
non sarà facile, questa è la verità.
Vorrei dirti che possiamo fermarci,
tutto sommato potrebbe andar bene,
ma sarebbe un errore sai, bisogna andare.
Perché questo è il bello di noi due,
quest’ostinato salire, inciampare,
rialzarsi, continuare, senza quasi
rendersi conto. Tranne poi, quando,
per un attimo sospeso, ci guardiamo
intorno, sorpresi e sgomenti, sempre
in bilico, tutto il mondo intorno a noi,
sollevati, con le mani strette insieme
e un capogiro che ci spinge ancora più su.
Non lo so dove arriveremo, che importa?
L’importante è questo andare, io e te.
Sabbia aspra
Ansimano a volte le case,
come gole strette, rauche,
irritate da vite costrette
e le mura si stringono
in lenti singulti rasposi,
persino l’aria s’indura,
e noi come sabbia aspra
bloccata dentro un orologio.
Vibrano a volte le finestre,
con un tremito strano, occhi
che sussultano paure e ansie,
e il vetro s’addensa opaco,
niente traspare, accecato,
silice ferita, stasi turbata,
e noi come sabbia aspra
mista a un pane raffermo.
Abbaiano a volte le porte,
ringhiano, ululano rabbia,
i chiavistelli sghignazzano,
le maniglie si nascondono,
gli stipiti reggono ottusi,
si sente un sordo masticare
che divora ecosistemi morti,
e noi come sabbia aspra
dentro un frullatore rotto.
Crollano a volte i tetti
stanchi di rinchiudere,
s’aprono al cielo spietato,
accolgono sarabande d’aria,
e noi come sabbia aspra
in una clessidra infranta.
Perché gli specchi sono indifferenti?
Perché gli ascensori non dicono la verità?
Perché gli armadi ci detestano?
Sabbia aspra, vetrosa, che bisbiglia
Francesco Randazzo, siciliano, ha pubblicato, con
vari editori, testi teatrali, poesie, racconti e due romanzi; ha ottenuto
numerosi riconoscimenti in premi di drammaturgia e festival nazionali e
internazionali. Le sue opere teatrali sono tradotte e rappresentate all’estero
(Francia, Belgio, Spagna, Croazia, Slovenia, Usa, Canada, Cile).
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