sabato 12 novembre 2022

"La vita in dissolvenza", di Lucianna Argentino

Tutti conoscono la celebre frase Panta rei, con la quale Eraclito con grande soavità e saggeza, suggeriva a tutti la rassegnata ineluttabilità del fluire di ogni cosa e quindi l’inanità di qualsiasi provvedimento umano e materiale capace di modificare o persino di arrestare questo scorrere continuo e irrefrenabile del tempo e della natura, direi del cosmo intero.
Le cose, il mondo, la vita stessa dell’uomo, dunque, lo sappiamo tutti, hanno un inizio, si evolvono, si sviluppano, per poi frantumarsi, smaterializzarsi, terminando la loro esistenza. Si tratta di una consapevolezza generale e generalizzata, che ognuno porta dentro di sé anche non pensandoci, non preoccupandosene, lasciando teorizzare il tutto agli scienziati ma principalmente ai filosofi ed eventualmente ai teologi. Ma qui rischiamo di addentrarci in un campo molto delicato e suscettibile di infinite discussioni, da affrontare in altre sedi. Quello che voglio dire è che il poeta ha sempre cercato, in genere, con la sua sensibilità ed esperienza, di trattare in tanti modi questo argomento per certi veri scabroso e impervio. Mi vengono in mente, ad esempio, alcuni versi di Giovanni Raboni, che dicono “Dammi tempo, non svanire, il tempo di chiudere i tanti conti vergognosi in sospeso con loro prima di stendermi al tuo fianco”… C’è urgenza quindi di recuperare ogni cosa, ogni bene, ricordi e valori, prima della “dissolvenza”, prima del finire perduti e dimenticati nel gran polverone della storia.
È così pure, per certi aspetti, l’aspettativa di Lucianna Argentino in questa sua ultima opera letteraria, La vita in dissolvenza. Ma c’è una peculiarità, in questo denso poema sulla vita e sulla morte, che lo contraddistingue in modo deciso, secondo me, e si tratta del fatto che l’autrice racconta, dice, il confine, il punto di congiunzione tra la vita che va dissolvendosi e l’inizio di un’altra realtà, da qualche altra parte, in qualche altra situazione: “La sento, sai la sento la forza che ci plasma / plasmare te nel mio utero / fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua / e tu, grappolo di vita, mora succosa, / aggrappato alla mia carne…” È il canto di una madre che non rinuncia al parto pur essendo consapevole della propria fine imminente causata dal cancro. Sono versi pregni di pathos, quelli del poema iniziale, Madre, dedicato alla storia di Rita Fedrizzi, una storia vera che Lucianna Argentino ha stigmatizzato con grande immedesimazione e trasporto poetico.
In effetti il libro si compone di 4 poemetti, strutturati come monologhi, (Madre, Gestazione dell’addio, 1941 e Aurora/Sara), tutti e quattro riferentesi a storie vere, che l’autrice traduce in versi ponendosi a fulcro, al cosiddetto punto di non ritorno, per accogliere da un lato la vicenda umana e psicologica, l’esistenza dei protagonisti di ciascuna delle quattro vicende che va ineluttabilmente verso la dissipazione, la morte, la “dissolvenza” appunto, ma che nello stesso tempo comincia a riscattarsi, a recuperare libertà e dignità risalendo l’impervia erta della riconoscenza e della giustizia. Abbiamo già accennato alla vicenda di Rita Fedrizzi, in Madre; analogamente, in Gestazione dell’addio la vicenda amara di Valentina Cavalli, seviziata e violentata, trova paradossale rifugio nel suicidio ma è messaggio forte all’umanità perché rifletta sulla gravità dell’abbandono: “Al mondo non c’è più una parola per me / una parola il cui peso di consonanti e vocali / sia remo e timone per me e-stremata, gettata lontano / senza più storie attraverso cui raggiungermi.” E in 1941 troviamo la congiunzione della fine suicida di due illustri poetesse, Virginia Woolf e Marina Cvetaeva, ambedue suicidatesi in quella fatidica data del '41, come se avvertissero già il tetro presagio della guerra. Anche loro, con la loro morte, simbolo di riscatto e di libertà da ogni tipo di oppressione.
Infine, in Aurora/Sara, l’ultimo poemetto, Lucianna Argentino si ispira alla vicenda umana di una compagna di scuola di sua figlia; una bambina nata prematura, che vive un’infanzia difficile e scabrosa, aggrappata comunque alla vita tramite la sua bambola orba, Aurora.
Un libro intenso, che parla di soprusi, di violenze, di ingiustizie, un libro che però mostra a tutti noi l’umanità e la tenacia, l’attaccamento alla vita ma soprattutto ai suoi valori anche con l’estremo sacrificio della morte, del suicidio, della dissolvenza di sé, per offrire a tutti un fiore e un’alba di speranza per un mondo migliore!

 

La sento, sai la sento la forza che ci plasma
plasmare te nel mio utero
fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua
e tu, grappolo di vita, mora succosa,
aggrappato alla mia carne
fatta falda di sangue per le tue radici. Radice io pure
eppure io albero da frutto, ponte da te edificato
dalla tua voce chimica inturgidita.
In me ti seppellisci, in me sprofondi
e mi faccio pasto, focaccia
per il tuo crescermi negli abiti, nei cromosomi,
per il tuo somigliare a tutti quelli della tua misura.
E tu fai me fuori misura, me donna sempre in fuoriuscita,
in spargimento di qua da te,
a prepararti un nome, a scavarti un luogo.

(Da "Madre")


***

Trovarla nella caduta perpendicolare
del sangue la parola giusta
che mi raschi dalla pelle tutto il male,
che mi scavi le ossa e mi faccia cava
per galleggiare almeno in quest’aria
che non riesco più a respirare.
trovarla negli otto minuti di travaglio
della luce ora che sto come il cielo
dismesso dalle rondini,
la verità dimenticata dall’ombra,
le lenzuola sui davanzali, al mattino,
prostrate in un rigurgito di buio.
trovarla la parola giusta e difficile
ora che il mondo è tutto e solo visibile,
la parola che è segreto e mistero
e luce all’esistenza, quella che dice l’amore
quella che m’è rimasta dentro muta
perché non ho più un te
e nemmeno un io e sono metallo gelido
bronzo che risuona
cembalo che tintinna*.


(*) da L’inno alla carità. 1 Corinzi 13,1-13

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, / ma non avessi
la carità, / sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.


(Da "Gestazione dell'addio")


***


Ecco settembre scalpitare irrequieto alla porta
ne sento l’odore, ne vedo il volto sfocato
laggiù lungo i confini dei campi che ardono aridi,
vedo i miei demoni galleggiare
sopra un mare calmo di luce e di afa
in agguato come una fiera
che mi fa preda e si nutre della mia anima.
Come una bambina serro le labbra, affamata rifiuto
questo tempo che mi consuma, fa di me pasto.
Un tempo estraneo ed estranea io dentro me stessa,
perso lo sguardo capace di penetrare le cose,
di scucire le apparenze, cogliere l’essenza.
Attonita mi brancola in braccio la luce,
il suo seme spento soffoca le promesse
per questo da mesi cerco un gancio,
un corrispondente esterno al gancio
che dentro batte sbatte al posto del mio cuore,
– zattera alla deriva approdata a questa trave di legno bruno
come le mie mani scurite dal continuo sbucciare patate
che non me le bacino più! ormai sono sconsacrate.
E con queste mani scrivo il mio ultimo canto
la mia morte verticale – volo d’allodola –
offro il collo all’addiaccio della corda,
l’avvolgo attorno al gancio, mi assicuro sia ben salda,
non ceda, non si sciolga, ma mi lanci di là come freccia
attraverso i sette cieli, senza bersaglio
lungo la linea dell’eternità.

(Da "1941")


***



Mia madre è una stronza
beve e grida alla nonna, a volte la picchia
a me no, a me non mi tocca
ma certe volte maledice il giorno in cui sono nata
e la sua voce mi imprigiona il cuore
che batte come un ramo contro una finestra
e intanto lotta con la tempesta.
Poi quando c’è lui mi manda via,
mi manda a dormire dalla nonna.
Mia nonna poveretta lei mi vuole bene
ma da sola con questa figlia e quell’altra morta
non ce la fa. Mio padre non so dove sia
e ogni giorno un poco me ne va via il ricordo,
l’odore che a volte mi sembra di sentire
non so cos’è che gli impedisce di tornare,
quale incantesimo lo tiene lontano
o se è perché non so essere figlia.
Come non sapevo che gli alberi
e i fiori e l’erba avessero radici sotto
a tenerli attaccati alla terra
e mi chiedevo com’è che non cadessero
che non se li portasse via il vento
come mi chiedo ora com’è che non volo via
se non sento radici sotto i miei piedi.

(Da "Aurora/Sara")

Lucianna Argentino, La vita in dissolvenza, Samuele Editore, 2022, prefazione di Sonia Caporossi.

Il libro è stato presentato nella Biblioteca di Bacoli (Na) il 11 novembre 2022, nell'ambito del secondo incontro della Rassegna "La Musa Flegrea", organizzata e condotta da Annamaria Varriale e Giuseppe Vetromile.

Lucianna Argentino è nata e vive a Roma. Dai primi anni novanta il suo amore per la poesia l’ha portata a occuparsene attivamente come organizzatrice di rassegne, di presentazioni di libri e con collaborazioni a diverse riviste del settore. Intensa è sta ed è la sua attività letteraria e poetica, con partecipazione a diverse importanti antologie, festival e rassegne poetiche. Numerosissimi i premi ricevuti e le pubblicazioni di raccolte poetiche con vari importanti editori nazionali. Ricordiamo le più recenti: Le stanze inquiete (Edizioni La vita Felice, 2016), L’ombra dell’attesa (Macabor Editore, 2018), Il volo dell’allodola (Edizioni Segno, 2019), In canto a te (Samuele Editore, 2019). Il suo ultimo lavoro poetico La vita in dissolvenza, Samuele Editore, (quattro monologhi al femminile) è stato musicato dal chitarrista Stefano Oliva e presentato in vari teatri, associazioni culturali e Festival.

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