“Gli occhi non sanno vedere”, recita
Sandro Pecchiari nell’ultima poesia di questa breve ma significativa e
originale raccolta alla quale la Giuria del Premio Silloge Transiti Poetici ha
all’unanimità deciso di assegnare il primo premio. È vero: sovente gli occhi
non sanno vedere quello che c’è veramente “alle spalle delle cose”, ma si
limitano a osservare le apparenze, le grandi e anche piccole caratteristiche
che denotano un paesaggio, un panorama, una città e persino un individuo;
questo avviene nella cosiddetta normalità della vita di tutti i giorni, laddove
non è possibile soffermarsi ad indagare, a “vedere” più in profondità e con
maggiore senso critico, quello che passa sotto gli occhi, impegnati come si è,
di solito, a concludere quanto prima la giornata, ad affrettarsi nelle mille
incombenze da svolgere. Una vita condotta tutta di fretta e in modo
superficiale, così come la società odierna, ormai globalizzata e omologata, ci
impone.
Ma per
fortuna l’uomo non è un manichino né un robot aduso soltanto a conseguire
meccanicamente meri obiettivi materiali. Per fortuna esiste un aspetto critico
e indagatore nell’uomo, e in particolare nel creativo, in colui che fa
dell’arte la riproduzione, sotto certi aspetti, della realtà esterna e anche
interiore, modellando le forme, i gesti, le parole, le note, le vibrazioni, il
proprio sentire, fino a creare l’oggetto artistico, il prodotto del proprio
ingegno creativo.
Nella
fattispecie il poeta sa vedere oltre le cose e la fisicità del mondo, ne trae
spunto per indagare ulteriormente e per ricavarne una possibile risposta,
risposta che però non arriva mai definitiva ma sempre con un rimando ad altri
interrogativi. Gli occhi del poeta sanno, dunque, vedere, sanno invece “allargare”
l’orizzonte delle cose, percepire il non percepibile celato dietro i muri e
dietro i movimenti, sanno ascoltare l’eco e le vibrazioni emotive che la
filigrana delle pareti sembra ostacolare. È un occhio metafisico, un occhio
ossimorico se vogliamo, quello dei poeti, perché vede il non visibile, il non
rilevabile al sole della normale quotidianità.
Questa
silloge di Sandro Pecchiari è l’esempio più vivido di come effettivamente il
poeta possa “vedere” e raccontare il mondo. Si tratta di una raccolta omogenea
composta da dieci raffigurazioni o quadri, in cui l’autore si sofferma a
considerare l’”oltre” visibile al di là delle apparenze, delle situazioni, dei
luoghi, dei paesaggi. È un viaggio poetico con dieci “stazioni”, ognuna diversa
per aspetti e situazioni, ma appunto collegate intimamente e internamente dal
filo conduttore delle riflessioni profonde che scaturiscono dalle visioni e
considerazioni dell’autore. Qui la poesia non è dunque un mero riporto delle
cose, degli stati d’animo, della natura circostante, dei luoghi visitati e dei
panorami, sebbene ciò non pregiudicherebbe il buon esito lirico, come in tanti
componimenti di illustri poeti in cui l’aspetto descrittivo è predominante. La
peculiarità dei testi di Pecchiari in questa silloge non è dunque solo nell’aspetto
descrittivo e superficiale delle cose, bensì nel trarre spunto da esse per
proporre quadri e lacerti di riflessioni e di emozioni, in un contesto
parallelo se non addirittura proiettato oltre l’oggettività del momento: soffèrmati dove la realtà è sostegno / ma non si fa vedere, / dove le guide non danno spiegazioni / e tu la affronti solo (“Cattedrale”), oppure anche: il tempo resta fermo sulla casa /consuma e erode con costanza - / le stanze sparite hanno sprofondato / le urla le bave il decadimento / a volte solo prigionie da incomprensione (“Padiglione”). Sono versi che denotano la grande capacità di Pecchiari del suo profondo scrutare attraverso i muri e le stanze del
mondo, la vera essenza emotiva e filosofica ìnsite in quelle, riproponendo memorie, ricordi, visioni, viaggi, luoghi,
panorami, su piani emotivi che acquistano nuova luce e nuovo vigore grazie
proprio alla sua poesia.
Alle spalle delle cose c’è dunque veramente il senso del progredire
della vita, o perlomeno la ricerca di un senso, guardando bene ciò che la vita
frenetica di tutti i giorni, l’indifferenza e la
superficialità, ci nascondono dietro il volto di una normalità omologata e
tacitamente accettata. La poesia, e sicuramente la poesia di Sandro Pecchiari, assolve così il
compito di ricercare l’autenticità delle
cose e dei sentimenti, di individuarle tra una miriade di situazioni
contingenti e di estrapolarne l’essenza fondamentale.
Cattedrale
soffèrmati dove la realtà è sostegno
ma non si fa vedere,
dove le guide non danno spiegazioni
e tu la affronti solo
appena dietro il fianco di una statua
lo sbaffo di vernice
d’oro che manca di una pennellata
e snuda il legno grezzo
è il mondo delle giunture mal celate
passate nel silenzio
le espressioni eloquenti sul davanti
qui sono solo quiete
la luce che proviene dai rosoni
stringe gli occhi e taglia
la scoperta di un mondo altro
scolpito dalle ombre
qui i mantelli sono abbozzati e grigi
di polvere degli anni
i candelabri sfoggiano un lusso
che è solo tinto
qui conviene sostare con la poca gente
che gira per dovere
per un’icona preziosa trafugata
d’un santo sconosciuto
qui si manifesta questo stare al mondo
sentendo le giunture
guardandosi alle spalle per capire
dove saremmo veri
cattedrale di San Marco, Venezia
***
Canale
il cielo di voli di meduse
il cielo ha un bordo
il pelo d’acqua -
non si vive oltre nell’aria
non si respira la rarefazione
qui possiamo osservare
le ondate di marea
e di storie
ne immaginiamo in abbondanza
*
non si comprendono le barche
lassù in alto
immerse con la faccia dentro l’aria
ci chiediamo
come sanno vivere due vite
ma loro stanno sospese
nel silenzio
Canal Grande, Trieste
***
I dormienti
l’aria stretta nonostante cambi
tutto fuori o non cambi
la temperatura pulsa in mesi lunghi
di soffocamento o in freddi estremi
i movimenti sono così lenti qui
a volte variano le sfumature di colore
immobili nel tempo con nessun odore
- dei fiori veri a volte -
un ricordo spicciativo forse punge ancora
questa moltitudine è ordinata
in numeri crescenti
cambi di arrivi scarsi diluiti
le foglie restano a lungo nella polvere
*
nessuno ci guarda fisso mai
nessuno sfiora queste lastre con le mani
eppure lo so, lo sappiamo
siamo tutti lucidati fuori sigillati
i nomi al contrario incisi in bronzo
i nostri sorrisi scollegati
ma fa buio dentro
da decenni
i loculi al cimitero di Sant’Anna, Trieste
***
Padiglione
la calma trattenuta alle finestre
come biancheria stesa senza vento
ora lo sguardo entra all’incontrario
e snida il cambio delle nuvole e del cielo
l’edificio si è svuotato con gli anni
i pazienti la mobilia i pavimenti
sprofondati in un ricordo solo scritto
cartelle e documenti vergati a mano
lobotomie punture elettroshock
il tempo resta fermo sulla casa
consuma e erode con costanza -
le stanze sparite hanno sprofondato
le urla le bave il decadimento
a volte solo prigionie da incomprensione
*
ora il pavimento è erba e fango duro
si muta in melma quando piove, qualche piastrella logorata
la pittura resiste in qualche angolo protetto
ma vince il vuoto
la facciata è ancora salda e forte
confine sbrecciato tra due esterni
un gioco come un roller-coaster per i refoli
qualche grido resta, qualche mano a pugno
lo ricordo
OPP, ex ospedale psichiatrico, Trieste
***
Larice spogliante
sono un uomo per la sera
forse anche per una vita intera
forse, dipende
se mi estirpi l’ombra
se mi svelli da questo posto fermo
e mi trascini
ti strapperò le tende
e sporcherò il tappeto
e il letto, sappilo,
mi avvolgerò rugoso su di te
ti graffierò le parole con le mie
antiche che potresti non capire
ma vere sempre
tu sei così veloce
parli, ti arrampichi veloce
hai pochi decenni
un bambino come gli uomini che passano
e li vedo sparire con dolore
ti ricordo con i giochi alla mia ombra
ora sei qui che mi inviti a casa
e la tua voce suona sempre amata
se accetto porto con me il golfo
tutte le barche e i temporali
i nidi che proteggo
terrò anche te dentro i miei rami
non ne sarai scontento
lungo il Timavo, Trieste
***
ΘΑΛΑΣΣΑ-ΘΑΛΑΣΣΑ
raccolgo il respiro aspro delle albe
il raspare ostile dei gabbiani
l’imprendibile punirsi delle sabbie
scabre tra le dita
e storie antiche da attraversare ancora
ricordarsi di cullare tutti i morti
cantargli ninnananne di catrame
il russare di barche contro i moli
il ruvido dormire tra gli scogli
ci vuole lo schiaffo delle acque
il largo dei tramonti sul torace
e la stoppia resistente dei cordami
l’incoerenza dei guizzi il patire
immenso del calore
mostro sempre l’orizzonte dentellato
che rimbocca il tuo rumore
rotolando sassi nelle mareggiate
un cuore che fugge assieme alle meduse
Trabzon, Trapezounta, Mar Nero
***
Compagno di viaggio
strada al crepuscolo percorsa così poco
che non sai dove porto e dove termina il salire
arginata dal bosco ormai nel buio
ritrovo la tua compagnia discreta
quel tuo sorriso sulla mia lentezza
io che parlo al buio e a te di fianco
nella polvere d’una sera fuori di città
è qui che il raro traffico si cambia in aria tersa
e nelle strida e il raspare tra le erbe
d’un tardo maggio ancora un poco inverno
e ti chiedo quale sia la natura del salire
e se i pensieri siano simili per quelli che lo fanno
o se parlino con te come me in quest’ora
per compagnia forse o per errore
per consolare un dolore che timido sussurra
vergognandosi di disturbare ancora
e ti chiedo se alla fine con sorpresa e delusione
si dicano sempre delle cose simili
e se tutto si appiattisca nel sostare
non rispondo e non rispondi
sperduti assieme nella reciproca mancanza
ma, lo vedi, m’inclino verso il golfo
a scialare le sue luci come dentro un cielo
Vicolo Delle Rose, Trieste
***
Caesarea Maritima, Qaysariyah, Qisrin
la terra tra le dita
è terra di caldo e di scorpioni
d'ombra scabra nei palmeti
e di vento steso sulla pelle
scoprirla e farla nuda
e scarna è stato lento
sminuire la città altera
in piatte simmetrie
il patto feroce
d'una smorfia contro il sole
uomini, cavalli e religioni
bassa forza ondeggiante
sul filo della costa
maniscalchi di vite e di rovine
ora esibisce i gangli
scoperti della storia
le scarse tracce d'esistenza
che ci spinge a brancolare
nella luce come ciechi
a godere degli avanzi masticati -
mendicanti di palazzo
Cesarea Marittima, Giudea
***
L’acqua che divide
non torneremo mai
nelle pelli strofinate fino a farne scaglie
quando troppo ignoravamo
lo scatenarsi nella lontananza
le nostre sepolture separate
da migliaia di miglia
rinascere ci sarà impedito
siamo vivi con un altro sangue
un rinnovo di capelli
i miei più bianchi i tuoi più diradati
non viviamo sotto lo stesso cibo
nell’espellerci reciproco in silenzio
fuori le pianure e i fiumi naufragati
la baia di Hudson verso nord
fuori il Mediterraneo inospitale dell’inverno
fuori le parole che eliminano
quello che non affrontano
io non capivo, andando, le righe dritte irrigidite
tracciate sopra i laghi dell’Ontario
tanti da non contarli mai -
l’assistente di volo rivelava
che erano le spaccature del disgelo
accecante come carta vetro
ecco l’inizio pensavo
ma l’acqua si rompeva in gorghi
volo Toronto-Winnipeg
***
Lo specchio
ma un piccolo peso di silenzio
cambia il contare delle cose
ne ridisegna il percorso
nessuno ne parla volentieri
gli occhi non sanno vedere
questa smorfia di saluto
eppure duplica l’immagine
la ricomincia ma al contrario
come se sapessimo tornare
senti una punta dentro il sangue
un ramo di traverso sul sentiero
che si flette e torna indietro:
questo specchio da entrambi i lati
l’entusiasmo non basterà più
per incanutire nell’infanzia
la manutenzione d’ogni giorno
in un corpo che non obbedisce
l’insicuro, i garbugli delle cose
che dimentichi e più non ami
accudito o orgoglioso e solo
appari esposto alla carne
che non tiene più
affronterai i due estremi -
sfila il ragazzino dallo specchio
ricomincia dal germoglio
Sandro
Pecchiari
ha pubblicato: Verdi Anni, 2012, Le Svelte Radici, 2013, L’Imperfezione
del Diluvio - An Unrehearsed Flood, 2015, e il lavoro
antologico Scripta Non Manent, 2018, per la casa Editrice Samuele
Editore, Fanna, Italia.
Pubblica in spagnolo Le Svelte Radici, con il
titolo Despojando Raíces e la silloge in inglese Kidhood
nello Special Issue, Writing in a Different Language, NeMLA, Italian Studies,
The College of New Jersey, USA.
Presente nel Quarto Repertorio della poesia
italiana contemporanea, Arcipelago Itaca, 2020 con cui pubblica anche la nuova
raccolta Desunt Nonnulla (piccole omissioni). Presente anche in altre
antologie e riviste in diverse lingue straniere.
Collabora con diversi artisti italiani e
stranieri. Si interessa ai video poetry tra Stati Uniti e Canada, con Erica
Goss, videomaker statunitense e Al Rempel, poeta canadese, nel video I’ve in
the Rain, finalista al Zebra Poetry Film, Berlino e al Ó Bhéal
International Film Competition, Cork, Irlanda.
Attualmente collabora
alla sezione Traduzione del sito QB - Quanto Basta dell’Independent Poetry di
Faenza, con la rivista Graphie di Cesena e il blog Versante Ripido di Bologna.
Scrive saltuariamente anche per Il Ponterosso di Trieste e per Fare Voci di
Gorizia.
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