Mara Venuto è senz’altro poetessa autentica e sensibile, attenta osservatrice dell’animo umano ma soprattutto del rapporto tra umanità e ambiente sociale: lo abbiamo già ampiamente notato e confermato in una breve nota di lettura circa La lingua della città, la precedente interessante raccolta poetica della nostra autrice. Qui, in Vora, Mara Venuto affonda la sua “lingua” nel baratro delle inconcludenze, delle sospensioni, dei mancamenti e quindi delle precarietà e dei bui di un’esistenza fortemente segnata da disvalori e da peculiarità negative che investono non solo il tessuto sociale e territoriale, ma anche, appunto, il comportamento e le relazioni umane: “Alla terra perpendicolare la caduta, / la vergogna dei cani deposti a marcire…”. Mara Venuto, con la sua sensibilità poetica, acutizza giustamente il degrado e la caduta sempre più in basso nel baratro che, come una vera e propria vora-gine, tutto inghiotte e distrugge, ma lo fa per evidenziare e per allarmare prima di tutto sé stessa e poi l’intera società, su tali problematiche negative dell’esistenza; e la poesia non è pure denuncia civile, etica e morale?
Ma non è rassegnazione, quella di Mara Venuto. La sua poetica canta, con versi perentori e asciutti, ricchi di rimandi allusivi, una realtà che si precipita nell’oscurità, ma nonostante ciò appare sempre un orizzonte, un confine di luce dolce e pacato, uno scenario che sottintende un recupero, una redenzione, una speranza… “Patria di case e tumuli / che sostano in piedi / e non muoiono con noi, / la nostra terra…” Come pure i ricordi, la memoria, forse unici viatici in grado di frenare la caduta verso il basso, la perdita definitiva della nostra umanità! (“Un sacramento è rimasto in quel muro. / Lungo stanze di pari colore, fra odori estranei / la misura del tempo è ferma alla calza del padre / piena di carta come un pallone…”).
Proponiamo per i nostri lettori qui di seguito alcuni testi tratti da "Vora", di Mara Venuto, peQuod Edizioni, 2023; prefazione di Giovanni Laera
Alla terra perpendicolare la caduta,
la vergogna dei cani deposti a marcire.
Vagare innocenti a due a due,
sui talloni il peso del domani e il suo travaglio,
la lucida sapienza delle viole.
In eredità lasciarsi calici dove nessuno beve
e restano come un danno nelle mani.
La notte di San Lorenzo cadevano i pudori
e il mare era rosso di fuochi artificiali.
Le mani aggrappate ai fianchi e agli occhi,
le bocche adolescenti aperte
fino a strappare gli angoli
un film muto per corpi inadatti a esibire le voci.
Ancora intatti sapere l’orrore di invecchiare.
Rigurgitare vissuti acidi su madri deboli
e ossa lancinanti di fronte alla vita.
Dentro le nostre spoglie e i letti sfatti
si apre il buco in cui sparire.
La senti questa vora che tradisce,
sulla bocca dove cade il conto delle ore
è orma impressa e distrutta,
l’amore dei nostri deboli intenti.
Lasciarci scomparire.
All’occhio velato e a quello rapace
emergere come larva,
bozzolo che nutre la volontà.
Con i denti aggrapparci al fiore
e strappare i petali come bocconi.
Non esiste più il luogo
e non esistiamo noi nel luogo.
Avevamo risposte a domande pesanti
e le abbiamo fatte morire
dentro a nessuna espressione.
Il luogo eravamo noi e
poi l’abbandono.
Rifiutare una terra e averla fra i denti
come fibre indigerite
mentre si cerca un posto.
Dalla tua finestra il mare non esiste,
affoga nell’inverno meridiano
rivelato dalla trasparenza.
Sopra i giardini della serra comune,
atterra in un verde aspro la strada provinciale.
Tutto è provinciale,
l’ambizione e il rancore,
nella pace del pomeriggio,
nel silenzio colante.
A fatica si naturalizza una memoria familiare,
si fanno talee dalle radici sepolte,
mai rassegnate all’esilio.
Viviamo altrove, era scritto.
Scorrere con acqua e reliquati,
trovare purezza nel filtro,
la misura del tempo
è nei muri rabboccati.
Invecchia il coraggio
fioriscono lampioni in città
non si vede la bestia nel buio,
una ragione per odiare.
Patria di case e tumuli
che sostano in piedi
e non muoiono con noi,
la nostra terra
terra del sangue e del tradimento
aspetta
le dominazioni, la tregua
nulla.
Il mio paesaggio sprofonda
e non si disfa intero.
Mara Venuto è nata a Taranto, vive a Ostuni. Tra le sue
pubblicazioni premiate: i monologhi teatrali Leggimi nei pensieri (2008), The
Monster (2015, testo finalista al Mario Fratti Award 2014 di New York per
la drammaturgia italiana); le raccolte
poetiche Gli impermeabili (2016), Questa polvere la sparge il vento
(2019), La lingua della città (2021).
Ha curato e pubblicato numerose antologie, tra cui un ciclo di volumi al
femminile; è inclusa in molte opere collettive di poesia, prosa e teatro. È presente
in volumi critici dedicati alla poesia italiana femminile. Suoi testi originali
e corti teatrali sono stati rappresentati con buon riscontro di pubblico e
critica; sue poesie sono state tradotte e pubblicate in otto lingue. È stata
ospite di Festival internazionali di Poesia, tra cui: IX Festival di Poesia
Slava a Varsavia nel 2016; XV Festival Trirema e poezisë Joniane a Saranda
(Albania) nel 2021; XXVI Festival Ditët e Naimit a Tetova (Macedonia) nel 2022.
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