Dico graffiante scrittura, perché, come sovente accade negli Autori che da poco iniziano il loro impegnativo percorso letterario, Giuditta Giuliano non si sottrae a un’esposizione netta e diretta, spigolosa a volte ma giustamente e necessariamente, efficacemente, coinvolgente e propositiva, senza molti preamboli e inutili svolazzi, ma andando direttamente al centro del suo “dolore”, se così vogliamo dire, per riedificarlo liricamente, una volta interpretato e tradotto il grande marasma interiore che cerca di far emergere con parole poetiche di grande impatto.
C’è dunque un grande lavorìo interiore, schietto e a volte amaro, ma tant’è! La poesia è fatta per espressioni forti e persino drammatiche e non per le melensaggini e le edulcorazioni facili, oppure ci deve essere comunque una vibrazione che scuota l’anima, anche nelle cose belle che si vanno a cantare. Giuditta Giuliano scopre un mondo in cui non si ritrova, ci sta a disagio, notandovi e annotandovi falsità, spigoli aguzzi, pregiudizi e ipocrisie: in tutto questo bailamme, lei giura di restare fedele al tumulto che la scuote, ma è un giuramento ironico, perché sa che la verità del sangue illuminato verrà fuori prima o poi, e magari giusto alle tre di notte… Si tratta quindi di un compromesso tra la propria verità e quella formale esteriore, della realtà circostante spesso egoista e ipocrita? La nostra Giuditta cerca di equilibrarsi tra questi due aspetti rischiosi dell’esistenza? Direi fino a un certo punto: fino a quando la consapevolezza dell’esistenza di questi due mondi (da una parte la verità del sangue illuminato che si porta dentro, da cui non si può derogare perché è la vita stessa che, in barba alle regole e agli schemi, fluisce incontrovertibilmente: “Perché le regole furono caos di incontrovertibile logica”, e dall’altra l’universo omologato) si concilia con una stipula, un patto, un accordo semi-infernale, nel rispetto del quale la mantide assassina e l’allodola ingenua e innocente potranno sedersi allo stesso tavolo.
Seguiamo dunque questa nuova Autrice, con i suoi versi ribollenti e fluidi, a dire una poetica accattivante e singolare, fatta di proposizioni decise, a volte epigrammatiche, a volte anche dolci e sempre, comunque, sorprendenti.
***
Mi affilerò su di te come la lama di un coltello.
Giuro di restare fedele,
intimamente fedele al tumulto che
mi scuote,
che mi attorce in un cappio
le vene e le viscere.
Giuro che non sarò mai
divisa
disfatta
smembrata negli anni.
La mantide e l’allodola siederanno
allo stesso tavolo
per mettere a punto questioni,
spartirsi zone d’influenza.
La stipula sarà firmata col sangue di
una dozzina di uomini,
quando nell’aria viola
uno sparo affonderà
il suo artiglio,
quando il nastro d’arrivo sarà
spezzato come
pane offerto in pasto agli
affamati.
Quando la sentenza verrà pronunciata,
e parole di grazia, ingiurie, dolcezze
picchieranno nella terra fino
all’ultima voragine,
dove un feroce silenzio ci sarà
ad attendere
gli ultimi sopravvissuti
stretti in un avvinghio di
braccia pallide,
alle tre della notte.
***
Non esistono limiti.
Nessuno ha detto che sono leciti,
qui, dove l’ora si piega sotto il peso delle
argomentazioni,
e il corpo è un rigurgito d’odio
sfrenato sulle note del tuo valzer.
Qui dove la terra finisce,
e la valle si spezza in due appena scocca la mezzanotte,
e svela l’interno di ogni bugia,
strato dopo strato,
muscoli tendini e cartilagine ritorti sul nocciolo:
l’origine del male.
E nulla è valso a nulla,
e non varrà a nulla.
Perché le regole furono caos di incontrovertibile logica,
nebbia e marasma,
atti senza pudore,
singulti puniti per la loro imprevedibilità.
Perché lo spazio è sempre uno, uno il tempo,
e chi lì si incontra è uno con loro,
e solo per una volta.
Ma i nervi miagolano come corde d’arpa,
e le carezze, i graffi ,
avanzano lì dove la memoria cede il
passo ai giorni futuri,
e le accorte pianificazioni si stringono tra
gli svolazzi dei loro mantelli,
perché solo il calcolo salva,
con la sua presa, lascia eretti nel
mezzo della tormenta.
E forse è l’unico modo,
affrontare questo gioco al massacro tenendosi
un passo oltre la linea.
Manovrare con violento distacco la
successione delle sue mosse, per
distogliere lo sguardo dall’affronto di
sapersi insidiati.
Abbagliati come insetti.
*
Lei si spazzolava i capelli sul bordo del letto.
Ai suoi piedi cadevano,
una ad una,
le gocce violacee del suo veleno.
Lui la vedeva:
era lì, lontanissima.
Pallida e assorta.
E nella camera oscura degli anni era
lacerazione su un corpo disteso.
Sibilla che appare in sogno e
annuncia la sua profezia.
Si perdeva in lontananze.
Non c’era.
La città si accartoccia.
È un pezzo di latta
che calpesto mentre
cerco di tornare a
casa sotto
questo diluvio
di cocci
di giorni
d’aprile,
passati
mano nella mano
con la mia
Nemesi,
al chiuso di una
stanza viziata
di odori,
aperta a
galassie
di cosmi
esistiti per
pochi istanti poi
murati
in eterno
nell’ippocampo che
ho in dote
fin dalla nascita.
Così, per
qualche strano
errore di calcolo,
resto immune
alla norma che
mi vorrebbe
protetta dal
rischio della
ferita che lacera,
dalla furia
della coazione,
dalla spirale
purpurea di
due corpi che
si fanno
a pezzetti,
si mischiano
il sangue,
le malattie.
C’era voluto meno di un attimo perché capissi.
Il resto fu nostalgia di un inferno che si
arrotondò per difetto.
Mi ripudiò.
Desideravo vederti
e farti cadere in trappola,
chiuderti in una gabbia
dove non ti sarebbe
mancato nulla.
Ti avrei portato cibo e
acqua e il mio corpo
a tutte le ore del giorno,
ma al primo cenno
di resa ti avrei
mangiato il
cuore, strappandolo
dal tuo petto come
una cosa che mi fosse
stata rubata.
Questa la mia
vendetta per avermi
scoperta senza
difese, per
essere rimasta
inascoltata
mentre tu ti donavi
alla sola fanfara della
tua grandezza,
piccolo uomo di carne
e di cenere,
io t’insegnerò l’amore
annientandoti.
***
Si può essere divisi a metà.
Immersi nel grigio gorgogliante
strappati
fatti a pezzi
ricuciti con
fili di luce.
Si può restare chiusi
in una stanza a guardare
un volto,
un antico volto di dolore
dissolversi.
Si può essere
l’ombra di chi se ne va,
un attimo prima
di sparire,
quando tutto si
fissa nel punto dove
la memoria
è tentata di
prendere il bottino e
darsela a gambe.
Ma ora so che
ti sei allontanato come
un sogno che
muore al
primo schiudersi
di palpebre.
Il mio dolore si è
sciolto,
l’ho mandato giù
con un sorso di luce,
era inverno.
E non ho più nulla da dirti, adesso.
Penso a te come a un uccello che
vola alto in un cielo
di pece.
Conosco parte del tuo segreto.
Sei notturno,
sei libero,
sei un vetro infranto
in cerca di carne da lacerare.
E non ho più nulla per cui incolparti, adesso.
Di nuovo respiro.
***
Ogni cosa splende di
luce propria.
Allora il buio
ha la sua luce nera,
canto notturno sul
deflagrare del mondo,
fiore desertico:
accoglie, non-visto.
Come gli uomini e le
donne di tutti i secoli che
scorsero smisurate iridescenze
oltre il mistero esatto
della materia,
e morirono,
soli.
***
Vorrei un silenzio da
aprire come una tenda
rannicchiarmi lì dentro
ascoltare il suono della
pioggia contro la sua
stoffa l’odore di terra e
di resina
soffiare appena tra
le mani,
sonnecchiare.
Sparire è un privilegio.
***
Qui
dilaga
il secondo
non c’è assenza
né limite,
il bianco è eroso
fino al suo
Nulla.
L’infinito lavora
per sottrazione.
Giuditta Giuliano (Cerignola, 1995), dopo aver conseguito la laurea cum laude in Filologia Moderna, vince un dottorato di ricerca in Pedagogia e attualmente vive a Bari. Alcune sue poesie tratte da questa sua raccolta d’esordio sono risultate finaliste in vari concorsi come il Bukowski, il Martelive e il Premio Inedito – Colline di Torino.
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