sabato 23 dicembre 2023

I confini umani, di Fabio Barissano

Nel vasto mare della produzione poetica attuale, e mi riferisco ovviamente agli autori nazionali, è possibile, e certamente gratificante, incontrare un’opera davvero consistente e rilevante, direi anche completa e talmente ricca di suggerimenti, di riflessioni e di rimandi, da ritenerla senz’altro una sorta di vero e proprio “manuale” della poesia italiana contemporanea.
Parliamo dunque di Fabio Barissano, e in particolare la sua opera poetica, intensa e propositiva, rappresentata in un volume apparentemente sobrio, modesto, ma che è un autentico gioiello della poesia attuale: I confini umani, libro pubblicato recentemente da Homo Scrivens di Aldo Putignano, rinomato editore napoletano che pone molta cura e  attenzione nei confronti dei suoi autori, sia di poesia che di narrativa e di altri generi letterari.
Libro importante e completo, questa raccolta di Fabio Barissano, dunque, per vari motivi, fra i quali sicuramente, in primis, le tematiche e le modalità espressive, e poi l’evidenza di un lavoro di architettura particolarmente complesso ma necessario per la trasmissione dei messaggi insiti nel testo.
Sinteticamente, il progetto poetico di Fabio Barissano evidente in questo lavoro, è il progressivo avvicinamento, attraverso soglie sempre più specifiche e profonde, a vari e articolati aspetti della realtà circostante e ai vari modi di rapportarsi con questa. Si tratta dunque di un lungo e difficoltoso viaggio introspettivo ma anche descrittivo della realtà, dove la poesia è lo strumento necessario e più idoneo a ricercare, indagare, comprendere, far riemergere, quei temi primari dell’esistenza che possono qui essere riassunti in: desiderio di rinnovamento, di rinascita, di apertura verso l’infinito; la consapevolezza e l’accettazione della realtà; il viaggio, e non solo virtuale, verso altre conoscenze, allontanandosi sempre di più dalla propria origine. Ciò è quanto Fabio Barissano sottintende nelle tre sezioni del libro, rispettivamente “Secondogenitura”, “I confini umani” e “Periferie”. E ognuna di queste sezioni è affrontata con una doppia soglia di introspezione e di indagine, quale, appunto, metodo di approccio progressivo ai tre filoni esistenziali, per poi tradurli in un linguaggio poetico davvero ricco, colto e appropriato, pregno di simbolismi e di rimandi metaforici. Si veda ad esempio l’uso di termini quali paraklausithyron, titolo dei testi con i quali Barissano introduce le prime soglie delle tre sezioni, ad indicare, suggerire, una sorta di preghiera lamentosa atta a perorare l’ingresso nella conoscenza della realtà di quella particolare condizione, cui si accennava più su.
E a questo proposito, interessante è anche il cantami o musa iniziale, una sorta di proemio a tutto il lavoro, certamente molto impegnativo e complesso, del nostro Fabio Barissano.
Un libro impegnativo e complesso, dunque, anche perché Fabio non si è limitato a realizzare una mera raccolta poetica, per quanto ben ordinata e basata su un progetto costruttivo e propositivo ben delineato nelle tre sezioni, ed inoltre arricchito da un’illuminata prefazione di Francesco Terracciano; ma anche perché il libro riporta alla fine una sorta di manuale della poesia, certamente del tutto personale ma sicuramente condivisibile: in appendice troviamo infatti uno “zibaldone”, dove il nostro autore annota sapientemente riflessioni, commenti, interviste e altri pensieri sulla poesia attuale e in particolare sulla sua idea di poesia, con interessanti riferimenti e accostamenti ai suoi principali poeti che in qualche modo hanno interessato e stuzzicato la sua inclinazione poetica: da Montale a Raboni, a Quasimodo, Ungaretti, ma anche Gatto e Garcia Lorca. 
Una poesia, anzi una poetica, quella di Fabio Barissano, veramente degna di attenzione, che pur rimanendo fedele alle modalità odierne del fare poesia, anzi essendone uno dei principali e più originali protagonisti, non disdegna tuttavia il recupero e l’ampliamento di un lessico colto quale quello classico.


Paraklausithyron I

 

Guardo con la coda dell’occhio

un braccio arrugginito allo specchio

del lago irto come un cavaliere.

Ma volto le spalle alle case

a un’algebra azzurra di comignoli

e guardo me stesso, bifronte:

la bocca deserta di un dio,

il buio a una nuca di fiato.

 

S’è fatta sera, più vera la luce

quando a sua curva discende

il cielo prostrato da trireme.

E le veloci ombre dei gabbiani

compongono un volo da requie,

gli allori portando nel becco

a un riflesso di ponti, i suoi due occhi,

ed altre sostanze marginali.

 

 

***

 

Secondogenitura,

resta la fame degli occhi ma lucida

indovina a che quote di fiato.

 

Sento la lingua, tempesta che oscilla

alle orecchie buie dei gabbiani

e quale vita rema sull’orlo delle foglie, respiri

che oggi si rifiutano di stare,

quale voce di madre

mi ricuce al verbo della grazia

la stella che batte a tutti gli usci del sangue.

 

In dono ne ho avuto le voci degli uomini

i simboli che raccolsi sulla costa dei mesi

per farsi quiete, sistema di pietre e tramortito

tramonto.

 

Fino a sera, quando cerco le figure

che fremono a indizio della stirpe

la perentoria opera del mondo.

 

 

***

 

Eliografia

a mio padre

 

Come in foto, la tua giacca di spalle

nello spigato grigio, impiegatizio,

sfoca soli, pietre, negativi di paese.

 

Seguo la tua ombra, lungo muri, a fare guida

ad aquiloni sbandati, quando approdi

alla riva degli occhi la tua umanità

consegni il pegno amaro

se il mondo è pieno e non s’incarna.

 

Mi distraggo in questa mia

eliografia e quasi rischio il patto con l’asfalto

ai polsi un grigio di tempesta

mi lasci e un traffico di api per le vene,

se penso al tuo sguardo dov’è un lampo

di mio, uguale cielo

dei voli in fame obliqua.

 

La tua immagine condanna

tutti e ci fa vili di splendidi rimorsi.

Almeno finiamo di morire,

padre, come Dio comanda.

 

 

***

 

 

Un dettaglio la mano sul volante

e i picchi del tuo volto. La vena

centrale s’ingrossava in fronte,

mi lasci in petto la tua ira.

 

Fuori, sulla spiaggia, il basso

volo degli uccelli era un presagio,

dicevano la morte a venire

liberatoria quanto può far male.

 

Era tagliato in due stagioni il mare

dal finestrino in velocità e nube

cicatrice del paesaggio.

 

Ma tutti i segni mutarono verso,

tutti gli strumenti indicarono

che il sole era spento e freddo.

 

Ci troveremo ancora

sulla scacchiera dove

il re manda i pedoni nella nebbia.

 

 

***

 

Paraklausithyron II

 

Il cielo che abbracci

coi tuoi maglioni d’aria almeno un nome

dai alla fame, mi vieni a medicare

da una nazione straniera non vuoi nemmeno bussare.

 

S’inarca un temporale nei boccioli

un’acqua scalza di luna

sul cortile quadrato delle sei.

 

Al tuo dire non cambiano le ore

chi schioda l’alfabeto dei santi

va arreso in questa selva d’uomini,

essi immemori, essi infelici,

ascolta, la terra non dimentica.

 

 

***

 

Chiusa la finestra lasci alle spalle

un caldo di bimbi e levatrici. Guardi

scheggiata brina da uno stipite

la folla e tutti i divertimenti della sete,

finché a un angolo vedi – metallico

e incerto – un lume di Madonna.

 

Te ne vai, nelle dita il tuo fiato

fa opaco lo specchio. Sai le spine

dure al ricordo non daranno fiore

se ti scalda la visione, l’incendio

nella mano del giorno è perché Sali

il lato sbagliato degli anni.

 

Così ti inoltri nel ventre, tra gli altri

tuo padre girato di luna:

è il purgatorio che ciascuno

porta in petto, il mai più visto

tabaccaio tra portici di nebbia.

 

 

***

 


Senti il mare, risale

con un tuono di grilli, spruzzi dalla spiaggia,

è il vento che rapina

una moschea diffusa di gabbiani

nell’occhio di madre nevoso, un maltempo

di grammofoni spenti

e ristoranti chiusi.

 

Oggi piove sugli indirizzi degli amici

una tristezza invade il quartiere

lascia un velo sulla curva dei portoni,

dico i pesci che stanno tutta una vita

muti in cattedrali di piombo

o gli uccelli che sanno

dare una gioia in volo e poi morire.

 

Sono uomini, sulle barche, al basso

profilo di Madonna portuale

coi marinai affrontano l’ignoto:

la farfalla-promessa-di-luce

naviga sperduta contro

il buio aperto a forbice.

 

 

***

 

Stazione VII

 

Le palpebre dell’alba

assonnate minavano il sonetto

alle radici,

sestine si afflosciavano schiantate,

la cancrena si mangiava i madrigali.

Ci vuole altro canto. Il treno s’inoltra

nel tunnel in un traballare di lampi, lo

scanto negli occhi di paura, non so

che mi fate pensare, allo sterrato

dove pupille recuperano dolcezze, scamiciati

per sere rosse di Castellammare.

Diretti a Sorrento, lo scarico, l’invaso

internazionale, non perderli ora

li guidi li guardi commossa dal cielo

nella norma ventoso di nostra ecumene.

Tu stella del mare

di ruggine precipite a inchiodarsi

qui nella mente, ho ancora in bocca

un palazzo di febbre: voce

che a cantare i relitti del giorno

mi hai pure chiamato.


Brani tratti da:

Fabio Barissano, I confini umani, Homo Scrivens, 2023; prefazione di Francesco Terracciano.

Fabio Barissano nasce a Napoli, dove vive e lavora. Ha conseguito la laurea in Filologia moderna presso l’università Federico II e l’abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie nel 2015. Dal 2013 ha insegnato in diversi istituti scolastici e nel 2016 vince il concorso per l’insegnamento delle materie letterarie. Dal settembre 2017 è docente a tempo indeterminato presso la scuola media statale I.C. “Nicolini-Di Giacomo” in Napoli. Attualmente redige un blog sulla storia di Napoli: www.fabiobari.wordpress.com.



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