Nel vasto mare della produzione poetica attuale, e mi riferisco ovviamente agli autori nazionali, è possibile, e certamente gratificante, incontrare un’opera davvero consistente e rilevante, direi anche completa e talmente ricca di suggerimenti, di riflessioni e di rimandi, da ritenerla senz’altro una sorta di vero e proprio “manuale” della poesia italiana contemporanea.
Parliamo dunque di Fabio Barissano, e in particolare la sua opera poetica, intensa e propositiva, rappresentata in un volume apparentemente sobrio, modesto, ma che è un autentico gioiello della poesia attuale: I confini umani, libro pubblicato recentemente da Homo Scrivens di Aldo Putignano, rinomato editore napoletano che pone molta cura e attenzione nei confronti dei suoi autori, sia di poesia che di narrativa e di altri generi letterari.
Libro importante e completo, questa raccolta di Fabio Barissano, dunque, per vari motivi, fra i quali sicuramente, in primis, le tematiche e le modalità espressive, e poi l’evidenza di un lavoro di architettura particolarmente complesso ma necessario per la trasmissione dei messaggi insiti nel testo.
Sinteticamente, il progetto poetico di Fabio Barissano evidente in questo lavoro, è il progressivo avvicinamento, attraverso soglie sempre più specifiche e profonde, a vari e articolati aspetti della realtà circostante e ai vari modi di rapportarsi con questa. Si tratta dunque di un lungo e difficoltoso viaggio introspettivo ma anche descrittivo della realtà, dove la poesia è lo strumento necessario e più idoneo a ricercare, indagare, comprendere, far riemergere, quei temi primari dell’esistenza che possono qui essere riassunti in: desiderio di rinnovamento, di rinascita, di apertura verso l’infinito; la consapevolezza e l’accettazione della realtà; il viaggio, e non solo virtuale, verso altre conoscenze, allontanandosi sempre di più dalla propria origine. Ciò è quanto Fabio Barissano sottintende nelle tre sezioni del libro, rispettivamente “Secondogenitura”, “I confini umani” e “Periferie”. E ognuna di queste sezioni è affrontata con una doppia soglia di introspezione e di indagine, quale, appunto, metodo di approccio progressivo ai tre filoni esistenziali, per poi tradurli in un linguaggio poetico davvero ricco, colto e appropriato, pregno di simbolismi e di rimandi metaforici. Si veda ad esempio l’uso di termini quali paraklausithyron, titolo dei testi con i quali Barissano introduce le prime soglie delle tre sezioni, ad indicare, suggerire, una sorta di preghiera lamentosa atta a perorare l’ingresso nella conoscenza della realtà di quella particolare condizione, cui si accennava più su.
E a questo proposito, interessante è anche il cantami o musa iniziale, una sorta di proemio a tutto il lavoro, certamente molto impegnativo e complesso, del nostro Fabio Barissano.
Un libro impegnativo e complesso, dunque, anche perché Fabio non si è limitato a realizzare una mera raccolta poetica, per quanto ben ordinata e basata su un progetto costruttivo e propositivo ben delineato nelle tre sezioni, ed inoltre arricchito da un’illuminata prefazione di Francesco Terracciano; ma anche perché il libro riporta alla fine una sorta di manuale della poesia, certamente del tutto personale ma sicuramente condivisibile: in appendice troviamo infatti uno “zibaldone”, dove il nostro autore annota sapientemente riflessioni, commenti, interviste e altri pensieri sulla poesia attuale e in particolare sulla sua idea di poesia, con interessanti riferimenti e accostamenti ai suoi principali poeti che in qualche modo hanno interessato e stuzzicato la sua inclinazione poetica: da Montale a Raboni, a Quasimodo, Ungaretti, ma anche Gatto e Garcia Lorca. Una poesia, anzi una poetica, quella di Fabio Barissano, veramente degna di attenzione, che pur rimanendo fedele alle modalità odierne del fare poesia, anzi essendone uno dei principali e più originali protagonisti, non disdegna tuttavia il recupero e l’ampliamento di un lessico colto quale quello classico.
Paraklausithyron I
Guardo con la coda dell’occhio
un braccio arrugginito allo specchio
del lago irto come un cavaliere.
Ma volto le spalle alle case
a un’algebra azzurra di comignoli
e guardo me stesso, bifronte:
la bocca deserta di un dio,
il buio a una nuca di fiato.
S’è fatta sera, più vera la luce
quando a sua curva discende
il cielo prostrato da trireme.
E le veloci ombre dei gabbiani
compongono un volo da requie,
gli allori portando nel becco
a un riflesso di ponti, i suoi due occhi,
ed altre sostanze marginali.
***
Secondogenitura,
resta la fame degli occhi ma lucida
indovina a che quote di fiato.
Sento la lingua, tempesta che oscilla
alle orecchie buie dei gabbiani
e quale vita rema sull’orlo delle foglie, respiri
che oggi si rifiutano di stare,
quale voce di madre
mi ricuce al verbo della grazia
la stella che batte a tutti gli usci del sangue.
In dono ne ho avuto le voci degli uomini
i simboli che raccolsi sulla costa dei mesi
per farsi quiete, sistema di pietre e tramortito
tramonto.
Fino a sera, quando cerco le figure
che fremono a indizio della stirpe
la perentoria opera del mondo.
***
Eliografia
a mio padre
Come in foto, la tua giacca di spalle
nello spigato grigio, impiegatizio,
sfoca soli, pietre, negativi di paese.
Seguo la tua ombra, lungo muri, a fare guida
ad aquiloni sbandati, quando approdi
alla riva degli occhi la tua umanità
consegni il pegno amaro
se il mondo è pieno e non s’incarna.
Mi distraggo in questa mia
eliografia e quasi rischio il patto con l’asfalto
ai polsi un grigio di tempesta
mi lasci e un traffico di api per le vene,
se penso al tuo sguardo dov’è un lampo
di mio, uguale cielo
dei voli in fame obliqua.
La tua immagine condanna
tutti e ci fa vili di splendidi rimorsi.
Almeno finiamo di morire,
padre, come Dio comanda.
***
Un dettaglio la mano sul volante
e i picchi del tuo volto. La vena
centrale s’ingrossava in fronte,
mi lasci in petto la tua ira.
Fuori, sulla spiaggia, il basso
volo degli uccelli era un presagio,
dicevano la morte a venire
liberatoria quanto può far male.
Era tagliato in due stagioni il mare
dal finestrino in velocità e nube
cicatrice del paesaggio.
Ma tutti i segni mutarono verso,
tutti gli strumenti indicarono
che il sole era spento e freddo.
Ci troveremo ancora
sulla scacchiera dove
il re manda i pedoni nella nebbia.
Paraklausithyron II
Il cielo che abbracci
coi tuoi maglioni d’aria almeno un nome
dai alla fame, mi vieni a medicare
da una nazione straniera non vuoi nemmeno bussare.
S’inarca un temporale nei boccioli
un’acqua scalza di luna
sul cortile quadrato delle sei.
Al tuo dire non cambiano le ore
chi schioda l’alfabeto dei santi
va arreso in questa selva d’uomini,
essi immemori, essi infelici,
ascolta, la terra non dimentica.
***
Chiusa la finestra lasci alle spalle
un caldo di bimbi e levatrici. Guardi
scheggiata brina da uno stipite
la folla e tutti i divertimenti della sete,
finché a un angolo vedi – metallico
e incerto – un lume di Madonna.
Te ne vai, nelle dita il tuo fiato
fa opaco lo specchio. Sai le spine
dure al ricordo non daranno fiore
se ti scalda la visione, l’incendio
nella mano del giorno è perché Sali
il lato sbagliato degli anni.
Così ti inoltri nel ventre, tra gli altri
tuo padre girato di luna:
è il purgatorio che ciascuno
porta in petto, il mai più visto
tabaccaio tra portici di nebbia.
***
Senti il mare, risale
con un tuono di grilli, spruzzi dalla spiaggia,
è il vento che rapina
una moschea diffusa di gabbiani
nell’occhio di madre nevoso, un maltempo
di grammofoni spenti
e ristoranti chiusi.
Oggi piove sugli indirizzi degli amici
una tristezza invade il quartiere
lascia un velo sulla curva dei portoni,
dico i pesci che stanno tutta una vita
muti in cattedrali di piombo
o gli uccelli che sanno
dare una gioia in volo e poi morire.
Sono uomini, sulle barche, al basso
profilo di Madonna portuale
coi marinai affrontano l’ignoto:
la farfalla-promessa-di-luce
naviga sperduta contro
il buio aperto a forbice.
***
Stazione VII
Le palpebre dell’alba
assonnate minavano il sonetto
alle radici,
sestine si afflosciavano schiantate,
la cancrena si mangiava i madrigali.
Ci vuole altro canto. Il treno s’inoltra
nel tunnel in un traballare di lampi, lo
scanto negli occhi di paura, non so
che mi fate pensare, allo sterrato
dove pupille recuperano dolcezze, scamiciati
per sere rosse di Castellammare.
Diretti a Sorrento, lo scarico, l’invaso
internazionale, non perderli ora
li guidi li guardi commossa dal cielo
nella norma ventoso di nostra ecumene.
Tu stella del mare
di ruggine precipite a inchiodarsi
qui nella mente, ho ancora in bocca
un palazzo di febbre: voce
che a cantare i relitti del giorno
mi hai pure chiamato.
Brani tratti da:
Fabio Barissano, I confini umani, Homo Scrivens, 2023;
prefazione di Francesco Terracciano.
Fabio Barissano nasce a Napoli, dove vive e lavora. Ha
conseguito la laurea in Filologia moderna presso l’università Federico II e
l’abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie nel 2015. Dal 2013 ha
insegnato in diversi istituti scolastici e nel 2016 vince il concorso per
l’insegnamento delle materie letterarie. Dal settembre 2017 è docente a tempo
indeterminato presso la scuola media statale I.C. “Nicolini-Di Giacomo” in
Napoli. Attualmente redige un blog sulla storia di Napoli: www.fabiobari.wordpress.com.
Nessun commento:
Posta un commento