sabato 22 giugno 2024

Le "DiStanze" di Marco Petruzzella

Inizia bene la sua proposta poetica in questa raccolta, il milanese Marco Petruzzella, affidandosi in esergo alla famosa poesia ungarettiana “Commiato” indirizzata all’amico poeta Ettore Serra. È proprio su questa definizione, infatti, che il nostro autore fonda il suo progetto poetico di “DiStanze”, ponendo l’accento sull’importanza della poesia e in particolare sullo spessore poetico che la stessa parola assume nel contesto.
Ne consegue un progetto robusto, realizzato utilizzando il gioco di parole sottinteso nel titolo: DiStanze, che offre subito una doppia interpretazione a seconda che si legga tutta la parola insieme, o che si voglia specificare un contenuto poetico allocato in sedi (stanze) opportune, che siano materiali o scomparti di tipo affettivo o psicologico.
È vera pertanto la prima interpretazione, “distanze”, se consideriamo il punto di osservazione dell’autore, che cerca di prendere le distanze, diciamo così, da una realtà circostante che non risponde a quelle prerogative di umanità e di socialità che avrebbe desiderato, peraltro condivisibili da tutti. È una società infuocata, eccessivamente materializzata, calcificata, compartimentata, quella descritta nei versi di Marco Petruzzella, che non concede spazio a sentimentalismi e ad armonie naturali: “Sono infuoco oggi. / Quanti e quanti attorno. / Milano è / la luce, infuoco;”… Sembra non ci sia scampo, in questo groviglio di mattoni e cemento, di cantieri edilizi con gru che invadono il cielo, di folle senza meta, e non c’è possibilità di rivedere il passato, più a misura d’uomo, più dolce e ricco di emozioni: “Dov’è il vicolo sterrato / che ha visto passi bambini… / Le sedie fuori dai negozi, / i rapidi ghiaccioli verdi, / il ciabattino curvo, / i sassolini; dov’è / ieri”…
Ma è plausibile anche, contemporaneamente, la seconda ipotesi interpretativa, e cioè “di stanze”: qui la stanza è metaforicamente il luogo in cui racchiudere i tesori e le valenze disperse o addirittura denigrate dalla infuocata società attuale di cui sopra; un punto d’osservazione consapevole e responsabile, al limite della denuncia, perché il poeta ha pure questo compito, in quanto la poesia è verità e limpidezza, è parola che scuote, che scava e che sveglia, indica la giusta strada, il percorso giusto da seguire per migliorare e migliorarsi (e qui torniamo all’esergo ungarettiano!...). Ritornare dunque non a Itaca, come declama il nostro autore, cioè non vivere la realtà stereotipata e guasta come quella attuale, bensì cercare di ricostruire un mondo migliore “stolti dai segni / di una vita trascorsa.
Una raccolta intelligente e propositiva, con brani poetici che incidono e coinvolgono, anche grazie al frequente uso di neologismi.

Riportiamo qui di seguito alcuni brani tratti dal libro. Sono graditi commenti da parte dei nostri lettori.


Milano

(06/09/96) 

 

Sono infuoco oggi.

Quanti e quanti attorno.

Milano è

la luce, infuoco;

mai il mio io

così poco londrico.

Srotolo pensieri.

Vorrei essere

più alto per guadare lì,

più in basso

le loro menti.

La gente piroetta

nel mio stomaco felice;

ha scavalcato fanghi biblici,

sembra plasmata nel neon.

Infuoco e amo

questa città.

Luminescente stella viva!

[a Milano]

 

*** 

 

Ieri

(La nostalgia)

 

Dov’è il vicolo sterrato

che ha visto passi bambini.

Il cielo della fantasia,

distratto dai tuoi occhi avidi.

Le sedie fuori dai negozi,

i rapidi ghiaccioli verdi,

il ciabattino curvo,

i sassolini; dov’è

ieri

 

 ***

 

La luce accesa

(La morte)

 

È marmo e d’alberi

prossimi al cielo

figli della terra

è terra;

Talvolta sangue, baci e carezze.

È la mano tremante,

è nenia è ninnananna;

Quando non c’è

più nessuno

che lascia

la luce

accesa.

 

 ***

 

Itaca

 

Rinunciare all'idea pavoneggiata

rinunciare all'onda

dedicare inciampi

valutare appetiti ancestrali

sminuire dolori solari.

A tutto questo

possiamo tragicamente approdare

stolti dai segni

di una vita trascorsa.

Non voglio

affatto

sbarcare

ad ITACA

 

 ***

 

Reminder

 

Ricordi il terrazzo

prima del sogno

del sole di marzo?

Ricordi mia forza, mio sempre

mia sola amica,

lo sciocco insolente cavaliere?

E ti davo da mangiare le ciliege

e sorridevi

e salvavamo assieme

le allodole smarrite

dagli specchi assassini del futuro!

 

 ***

 

La gru

 

E perché mai

Una gru dell’edilizia

Col cielo vicino

appare epoca, evocazione,

tempo dolce?

Totalmente estraneo l’auspicato futurismo

moderno materialissimo

Credo sia il cielo

Sono quasi certamente dubbioso

Anche il fracasso di una betoniera

se mischiato alla nebbia e

al capriccio di un bambino

col loden verde degli anni di piombo

avrebbe restituito

lo stesso significato

Avrebbe strappato il momento

Fagocitato dall’innaturale e sconosciuto

slime

I bambini non giocano più in cortile

E finalmente chissenefrega.


Marco Petruzzella, DiStanze, Edizioni Progetto Cultura, 2020, Prefazione di Oreste Castagna.

Marco Petruzzella nasce a Milano nel 1972. Consulente aziendale per professione, artigiano della poesia per vocazione. Attivista per i diritti umani per anni in Italia e all’estero. Ha pubblicato in antologia con Robin Edizioni nell’ottobre 2023; di prossima pubblicazione un suo racconto per ragazzi.
DiStanze è la sua opera prima.


martedì 11 giugno 2024

Gli "Agri Fogli" di Rita Nappi

 

Tipica pianta augurale, sovente utilizzata nelle festività natalizie, l’agrifoglio è qui suggerito da Rita Nappi con e per l’auspicio di un mondo migliore, più sincero e diretto. Ma è soprattutto l’emblema di un diario di vita in cui amore e sofferenza, luci ed ombre, asperità e gioie, si susseguono, a modellare una sorta di mosaico emotivo forte, ben delineato, fatto di agri fogli, come pure il titolo della raccolta sembra indicare. La poesia di Rita Nappi è dunque qui concentrata ed espressa in questi fogli agri, giocando con le due parole del titolo, volendo mostrarci il suo mondo emotivo e riflessivo di fronte alle asprezze che la vita le ha riservato, ma anche quei lacerti di tempo vissuti con una grande passionalità e gioia. Si tratta dunque di una sorta di bilancio sentimentale ed emotivo, di esperienze vissute sulla propria pelle, narrato su fogli acuminati, pungenti, come afferma anche Alessandro Izzi nella sua dettagliata prefazione, proprio perché la poesia, come l’arte in genere, è l’unico tramite per affermare la propria realtà, la propria verità, senza mezzi termini o giri di parole, ma direttamente, sinceramente. Per l’autore è una sorta di liberazione, anzi di confutazione dell’ipocrisia predominante in una società ancora legata a stereotipi e a formalismi di facciata, in una società che non vede, o non vuole vedere, l’autenticità dell’uomo, o della donna, nella sua naturalità, che non è sottomessa, non lo deve, a qualsiasi imposizione di comportamento esterno.
Il progetto poetico di Rita Nappi è notevole, e viene maturando attraverso le sue esperienze di vita, le vicissitudini amare di lotta continua per il suo stato di salute, attraverso i difficili rapporti in campo affettivo, ma anche attraverso la visione obiettiva di un mondo ingiusto e ipocrita sotto molti aspetti. La poesia autentica sgorga sincera dal cuore e dall’anima, affermando una verità interiore che non teme di essere né sminuita, né contrastata; e la poesia di Rita Nappi ha in sé il coraggio e la limpidezza della propria vera natura, va delineandosi e strutturandosi in un susseguirsi di versi pregni di languore e, nello stesso tempo, di veemente slancio di disapprovazione nei confronti di una società, come dicevamo, ipocrita e superficiale; ma sono anche versi appassionati, in cui non manca la nota lirica e il buon ritmo, a testimoniare uno spessore poetico non comune, una notevole padronanza della parola poetica nella struttura complessiva dei testi.
Agri Fogli, una raccolta ben suddivisa in tre sezioni ("Dell’amore", "Lacci dal passato", "Rimanenze"), che sapientemente tracciano un’esperienza di vita, espressa in poesia, in cui i versi dedicati all’amore si legano poi ai ricordi nostalgici e a riflessioni su momenti che hanno particolarmente caratterizzato la sua vita, mentre in Rimanenze, la sezione conclusiva, l’autrice raccoglie il residuo di verità che alimenta la sua anima e che gli altri ancora non vedono: "Voialtri non v’accostate, non v’affacciate negli occhi, pensate di sapere.../ E invece quel po’ di me che resta lo lascio lì a me stessa".



Musa

Celo parole già dette per scoprirne altre,

scavo nel profondo perché meriti il mio nuovo cuore.

Doni e dai, anche nei plumbei cieli grigi

di giorni nati storti.

E vorrei poterti regalare il tic tac del tempo,

il batter ciglio,

l’istante dopo aver goduto,

la tremante voluttà dell’attimo prima del bacio,

il sole allo zenit...

Se mi fermo è solo per raccoglierti

e ripartire.

Siamo oltre.

E mi accorgo che il rigo della pagina è troppo breve,

perché tu sei poesia.

Inenarrabile.

 

 ***


8 settembre 2018

Non premo tasti e corde senza suono,

mi basta aver udito per un attimo la tua voce.

Il sonoro della gola s’increspa di saliva,

mentre m’accovaccio negli angoli dell’inguine.

Tu premi a fondo,

io annaspo, incalzo e mi fermo.

Tu freni, io ripeto gli accordi che m’hai insegnato:

aspetta, dai tempo.

Son tue le parole,

le menzioni di lode che scrivi sul corpo.

E giaccio su queste onde del cuore,

in testa all’equilibrio di un sussulto già finito,

aprendo l’anima allo spazio,

mi piaci così.

Eterna notte di promesse

e silenzi digiuni di parole,

perché nel calore e del fiato

non va mai sprecato.

Quel che ho lasciato libero è alla porta:

trovami altrove.

Trovami anche quando mi sono persa.

 

(Dalla sezione “Dell’amore”)

 

 ***

 

Libertà

Bisognerebbe vivere di nuovi inizi.

Avere l’ingenuità delle prime volte,

la curiosità dei primi passi,

il coraggio di perder l’equilibrio.

 

L’incoscienza di liberare il palloncino

e non abbandonare la mano della madre.

 

Bisognerebbe ridere a ogni caduta,

sorprendersi di non poter guardare il sole.

Si vive di ragioni e arrendevolezze.

Basterebbe tornare a sognare,

tornare a viaggiare

e chiedersi perché...

 

 ***

 

Sensibilità alterata

La sensibilità alterata,

così la chiamo,

è quella in cui un soggetto

riesce a percepire un dettaglio,

una virgola, una doppia punta,

il riflesso sulla pozzanghera,

il mignolo, un ricordo accantonato,

lo stelo caduto, il soffio del vento,

le lacrime nascoste dalla madre.

La sensibilità alterata

non è per tutti, è unica.

Si cela perché spaventa.

E ciò che si teme, si emargina.

Ma solo l’incontro

con un altro soggetto sensibile,

può permettere al primo

di aprirsi e amare

a cuore aperto.

 

(Dalla sezione “Lacci dal passato”)

 

 ***


Presente

Non ho perso,

ho solamente azzardato sogni

e vite diverse;

ogni volta

un cuore nuovo

e braccia aperte.

Non ho tralasciato nulla

se non il mio dito puntato alla luna,

un po’ come i bimbi che seguono le nuvole.

Non temete,

non ho ancora ceduto

se non i pensieri passati

e la volontà di spingerli oltre.

Non ho più gli occhi miei

li vedo ombrati

straniti

impauriti,

ma non abbiate paura

io resto.

Questo è il mio posto,

la mia terra

con fango e acqua

luce e riflessi

traslo istanti

li rivivo.

Io sono qua

presente.

 

 ***

 

Alla mia LMC

Questa dissolvenza

impaurisce

e sbiadisce,

aumenta e sfoca la mia immagine,

ogni parte del mio corpo,

ogni cellula del mio sangue.

Questo freddo che percuote

e fa sudare dolore,

invoco pietà

per aver un minuto di quiete.

E ho timore di non vivere,

di non avere più un’ombra...

 

 ***

 

Rimanenze

Quel po’ di me che resta

emerge e sfavilla

d’improvviso s’abbassa,

s’increspa e inciampa.

Mi tengo a freno:

vorrei, ma non posso.

E tutta la vita che scorre davanti

non si ferma un secondo.

Non riesco ad allungare il dito

neanche a quel Dio che mi ha tanto proibito.

Resto o vado via?

Alibi e scommesse, per chi come me

gioca a carte con la morte.

Voialtri non v’accostate, non v’affacciate

negli occhi, pensate di sapere...

E invece quel po’ di me che resta lo lascio lì

a me stessa.

 

(Dalla sezione “Rimanenze”)

Rita Nappi, Agri Fogli, deComporre Edizioni, 2021; prefazione di Alessandro Izzi, postfazione di Sandra Cervone. Copertina di Suma Mellano

Rita Nappi è nata e vive a Napoli. Appassionata di scrittura fin dall’adolescenza, ha partecipato a premi nazionali e internazionali, conquistando nel 2004, a soli 16 anni, il primo posto al Premio Nazionale di Poesia Trecase. Finalista nel 2016 al Concorso Letterario Nazionale Gioacchino Belli, tenutosi in Campidoglio. Inserita in diverse antologie poetiche, nel 2015 ha pubblicato la silloge I miei orizzonti di… versi con deComporre Edizioni, approdata a Cheverny (Francia) nel 2019 in uno spettacolo di musica lirica e versi con la mezzo soprano Suma Mellano. Attualmente è impegnata nella stesura del suo primo romanzo.

Il libro è stato presentato presso la Libreria Mancini di Napoli, nell'ambito della Rassegna "Un caffè da Mancini" ideata e condotta da Gennaro Guaccio e Giuseppe Vetromile, il 10 giugno 2024. Durante l'incontro sono state esposte le opere pittoriche dell'artista e poetessa Susy Oliva, autrice di alcune illustrazioni del libro.



giovedì 30 maggio 2024

La "piccola mappa dei giorni comuni" di Alessandro Barbato

Abbiamo già avuto il piacere di segnalare la poetica di Alessandro Barbato, ottimo poeta romano, in varie note di lettura su “Transiti Poetici”, ed ora volentieri lo riproponiamo con questa sua recente uscita editoriale di “Versiedizioni”, dal titolo veramente singolare: Piccola mappa per giorni comuni. Esordisce così l’autore nelle sue “Avvertenze”: Piccola mappa per giorni comuni vorrebbe proporsi come discreto, per certi versi anche incerto percorso in versi, compiuto osservando sottovoce l’enigmatica quotidianità dell’esistere umano. Un’avvertenza, non una prefazione, o premessa o introduzione, quasi a volersi scusare con il lettore per l’improvvisa e forse inopportuna – secondo l’autore – intromissione nei fatti quotidiani delle persone, di tutti. Ma la poesia è già di per sé discrezione e nello stesso tempo invasione, nel senso che inesorabilmente e indiscutibilmente va ad occuparsi del campo umano, sentimentale e materiale, riuscendo ad entrare fin nelle minime cellule e nelle ferite e negli anfratti e negli spacchi della vita vissuta di ognuno, per evidenziare cosa, alla fine?... Ma per mettere in luce, far emergere i palpiti e i rovelli che ognuno si porta dentro e che nella vita “normale” e ufficiale, diciamo così, non hanno modo né tempo di essere considerati, impegnati come si è nelle svariate faccende lavorative, familiari, sociali, eccetera.
Dunque, una poesia che scava, mette il classico dito nella piaga, ne evidenzia le profonde emozioni, positive e negative che siano, al fine di offrire uno spunto di riflessione, finalmente, sul classico detto ma chi siamo, dove vogliamo andare?...
E la poesia di Alessandro Barbato, un po’ come nei suoi precedenti lavori, ma particolarmente in questa sua recente opera, è proprio indicatrice, cartina al tornasole di un vago disagio interiore, di una consapevolezza di grigiore che patina le cose e i luoghi, in una quotidianità sovente monotona, ripetitiva, svalutata.
Alessandro Barbato indaga dunque nel tessuto più intimo dell’animo umano, quando questo si trova ad affrontare, a vivere, le cose di tutti i giorni, cercandovi un motivo, un senso che possa contribuire alla spiegazione della vita, offrendo quindi spunti di riflessione personali e certamente condivisibili sull’esistenza. Con la sua poesia, compatta e propositiva, non priva di un certo ritmo, egli mette in relazione cose, fatti, situazioni della quotidianità, con la realtà naturale circostante, delineando così una mappa che possa in qualche modo fare da guida, offrire uno sbocco, una meta per il lungo cammino esistenziale, al fine di ritrovare quel “firmamento sotterrato in ogni angolo per noi”.
Una poesia asciutta, riflessiva, che scuote il lettore dal torpore di una routine quotidiana scialba e ripetitiva, proponendogli motivi di speranza e nuovi orizzonti.


Esiste un firmamento sotterrato

in ogni angolo per noi.

Insieme a un cielo grigio che a fatica

solamente qualche volta,

con qualcuno, proviamo a superare.

E colpa appare a volte il non volere

rivelare mai a nessuno

la paura che ci batte sulle tempie

quando l'ombra pesa addosso

e ci accorgiamo di esser vivi, forse,

in quel che non diciamo, oppure in quello

che vorremmo e non sappiamo

 

 ***

 

 Bisogna d'acqua questa terra antica

di vigne, ulivi e muriccioli a secco,

di odor di nafta dai trattori accesi

tra mani grandi e volti abbrustoliti.

Bisogna d'acqua e un giorno pioverà,

ma noi saremo persi per i vicoli,

lontano, o in autostrade che ci scavano

la mente, tra le smanie del tuo inverno.

Dovrà servire in fondo il solleone

che manda in fumo le sterpaglie e i rovi,

se il mondo intero intorno non si muove.

Sì, servirà a qualcosa anche aspettare:

la tua cicala canta ed ha ragione,

tra quel che a maggio fu lavanda al Sole.

 

Provenzale

 

*** 

 

Verremo via e con noi scivoleranno

nella notte delle palpebre

le cose e anche le case, tutte quante

le canzoni che ascoltavi

per dormire, le perline, i prati

e i fiori che teniamo nei cortili.

Verranno via con noi le nostre rose,

con le spine, i pennivendoli,

le giostre e poi il profumo che indossavi

quando aspettavamo Aprile.

Non mancheremo certo a questo mare

o alle sue onde che ci nutrono

la voce, né alla danza di cicale

che nemmeno a sera tace

e ci ricorda amori e fiabe.

 

La casa delle cose

 

 ***

 

Si sfoglia la parola come i platani

a novembre, s'accorcia anche il perimetro

dei sogni che tu salvi, qualche volta,

dagli strilli di straniero

di quest'alba irrevocabile, caduta

in mezzo ai campi lentamente,

sui cantieri, la mia strada,

i tuoi sbadigli e poi su carni

che rivestono i pensieri

taciturni. Ma restano le notti

nella gola e nelle vene ancora

voglia di trovarci più lontano,

dove a volte posso fingermi

ormai sordo a ogni scoppio di mortaio,

attento solo al tuo richiamo.

 

Via dell'alba

 

 ***

 

Mi hai rivelato le isole

e i deserti, le ansie liquide

di notti attese e vane in cui si cercano

i motivi per partire,

per tornare. Mi hai detto cose buone

che addolciscono il palato,

se muovevi tra i tizzoni

i miei pensieri inceneriti,

e altre inutili per vivere

ma vere come i venti che ci seccano

la gola. Adesso siamo incerti

se tacere oppure urlare,

procediamo titubanti

come tutti, un po' alla meglio,

senza troppa convinzione,

né tesori da scovare.

 

La mappa dei giorni comuni

 

 ***

 

Faremo come le anime che restano

nei sogni, nascoste

in coni d'ombra, avremo

sprazzi, lampi che somiglieranno

forse a vite intere di riserva.

Poi ne cercheremo in questa

come antichi, pazienti sacerdoti

i segni, qualche orma,

nel rapido mutare dell'eterna

rotazione di altre voglie

e imprecazioni. Vedremo ancora

un ritmo nel sospiro che ora pare

più lontano, mentre vela opaco

il mondo la cruda brevità

di questi nostri giorni;

e torneranno voci, le parole

scivolate via dagli occhi,

le morbide carezze che ora tacciono.

 

Sprazzo

 

 ***

 

Verranno a breve piogge e temporali

da ponente, dove fuggono

le anime cacciate via dal mondo.

Si modelleranno nubi

all'orizzonte e nell'incavo

dei tuoi occhi ricadranno goccia a goccia

le domande e gli sbadigli.

Sembreranno più affannati

anche i respiri con il vento

sempre alto e a un roveto

trascurato sarà simile il giardino,

quando pur concederemo

ancora al cielo una parola.

Nel frattempo puoi accudire

i tuoi propositi di luce:

sono fermi, qui accucciati

sulla coda dell'estate

che si sbuccia le ginocchia e corre

a casa senza piangere, né chiedere

più tempo a vecchi sogni sparpagliati.

 

Cambiostagione


Brani tratti da:

Alessandro Barbato, Piccola mappa per giorni comuni, Versiedizioni, 2024

Alessandro Barbato è nato a Roma nel 1975. Specializzatosi in Antropologia sociale presso l’EHESS di Parigi, si è dedicato allo studio dei rapporti tra nuove scienze umane e letteratura, pubblicando diversi saggi. Collabora con il blog dedicato a Pierpaolo Pasolini, «Le pagine corsare». È stato membro del comitato di redazione della rivista di settore «Civiltà e religioni». Appassionato di poesia contemporanea, ha pubblicato liriche su rivista, blog letterari e nel 2019 la silloge Il fiore dell’attesa, confluita nel 2020 nella raccolta Solamente quando è inverno. Nel 2022 ha visto la luce la raccolta poetica, La mimica dei mondi (qualche poesia fuoritempo), edita da Controluna. Attualmente insegna materie letterarie presso le Scuole Ebraiche di Roma

mercoledì 22 maggio 2024

I "Madrigali" di Giovanni Bracco

Madrigali è il titolo di questa recente e intensa raccolta poetica dell’ottimo Giovanni Bracco, un poeta che ama lavorare nella dignità della riservatezza, lontano dai clamori che sovente si riscontrano anche nel mondo poetico. Perché la poesia, la poesia autentica, va “lavorata” nel silenzio e nell’intimità, per farsi poi voce potente e propositiva che possa sovrastare il vento delle banalità, delle ipocrisie, delle superficialità che invischiano l’attuale società cosiddetta dei consumi, divenuta impermeabile, quasi, ad ogni emozione e sentimento positivo.
Tornare alla donna e all’ammirazione nei suoi confronti, in una sorte di dolce stil novo che però amplia gli orizzonti femminili in un contesto di attualità e di rapporti più equilibrati all’interno della coppia e della società?... Direi che siamo di fronte ad un’idea originale, ad un progetto nuovo in ambito poetico, da apprezzare sicuramente per le modalità di composizione e per le diverse angolazioni e punti di vista con cui l’autore affronta l’argomento.
Certo, parlare della donna in poesia, scrivere versi ispirandosi alla sua figura, potrebbe sembrare facile e, a dirla tutta, potrebbe facilmente dare adito ad ovvietà e banalità, considerato l’argomento che, proprio in poesia, fin dalle origini, è stato quello che maggiormente ha interessato i poeti.
Ma il talento di Giovanni Bracco, l’esperienza e la padronanza della materia poetica che lo contraddistinguono, sono tali da permettergli di creare versi ispirati al tema della donna che hanno in sé una forza, una vitalità e una luce del tutto inaspettata. Madrigali è il titolo e, di fatto, veri e propri madrigali sono i brani di questa raccolta. Un rispetto della forma eccezionale, elegante e puntuale: otto versi suddivisi in tre strofette di endecasillabi, con rima nei due versi finali.
Sorprende la molteplicità di questi madrigali, ognuno con una significanza e una vitalità propria, introdotti direttamente, senza un titolo che possa in qualche modo “distrarre” il lettore con delle pause inutili o fuorvianti.
Ma non è tanto la centralità della donna che viene messa in risalto in questi bellissimi versi, quanto soprattutto il mondo intimo dell’Autore e il suo rapportarsi con il femminile, e anzi qui il protagonista è lui che, da svariate angolazioni, narra, e si narra, le implicazioni, i raffronti, le supposizioni e persino i ricordi di un possibile rapporto amoroso con l’altra. Vi appare tutto un mondo di contorno, pregno di sospiri, desideri non realizzati, sogni, aspirazioni, ricordi, possibilità perdute, rimpianti…
Un libro d’amore, dunque, ma di un amore completo e complesso, che travalica certamente l’aspetto fisico ed erotico, nei confronti della figura femminile, che qui diventa simbolo, oltre che persona fisica, cui riferirsi, rivedersi, rinarrarsi, riproporsi: il tutto in un ambiente familiare e sociale emotivamente ricco e variegato.

Riportiamo qui di seguito alcuni brani tratti dal libro.


Ho provato a negare che tu esista,

il disordine non mi fa migliore:

sei giorno mentre è notte, sei l’errore,

 

la crisi del teorema. Che io resista

è l’azzardo del capriccio d’amore

sempre in bilico tra slanci e pudore.

 

Tu cura solo che io non resti senza

pena dell’eccitante sofferenza.

 

 ***

 

Si avvicina un’altra veglia amara.

Nel cortile insiste ancora il vento,

marca gli spazi in fuga, ci separa

 

sempre di più. È un pomeriggio lento

e, mentre annotta, mi diventa chiara

la ragione di questo incantamento,

 

all’improvviso come in un bagliore:

è che avevo bisogno di un dolore.

 

 ***

 

Fuori dalla mia vita sei tu vera.

L’ha sfiorata il tuo soffio e ora l’idea,

nel magma di confusi sentimenti,

 

spesso contraddittori, vive intera

dentro di me, reclusa. È una marea

che rimonta e ignora pentimenti.

 

Il prima, il dopo, dunque? L’incoerenza

sconquassa il desiderio nell’assenza.

 

 ***

 

Potrei dirti che sei una fra tante.

Sarebbe una patetica bugia.

Voglio te sola fino ad abitare

 

il tuo corpo, non di altre, il tuo che sia

dedicato a nascondermi o a frugare

(niente che ti abbia dato alcun amante)

 

parole nuove, l’inverno lontano.

Come una figlia ti terrei per mano.

 

 ***

 

Blasfemo, sono entrato in una chiesa,

senza coppola ho osato inginocchiarmi.

Sono certo che non si sia offesa

 

quella dolce figura che ad amarmi

sarebbe deputata, con l’intesa

che al pianto avrei dovuto abbandonarmi.

 

L’ho fatto e le ho rivolto la preghiera

di riaverti e lei trovi la maniera.

 

 ***

 

Sul crinale del Montecalvario e della Costa

Cucchiara ancora un filo di luce celestina.

Senza Luna è la sera, non oscura.

Al crepuscolo il drappo nero altrove s’accosta,

libera incauti sogni, repressi sulla china

del tuo fluire, esclude la mia cura,

come fosse per destini spaiati

dormire soli, non rasserenati.


Giovanni Bracco, Madrigali, La Vita Felice Edizioni, 2023


Giovanni Bracco è nato a Polla nel 1961. Premio Caudium Ars 2023 per la poesia, è giornalista professionista, laureato in Lettere all’Università di Napoli e diplomato in pianoforte al Conservatorio di Potenza. Con La Vita Felice ha pubblicato cinque libri di poesia: Le grandi mani calme, Il nostro tempo, Il mare mi ha deposto dalla croce – Mediterraneo, Sull’orizzonte dei binari in fuga – Carme famigliare, Urne. Per Cyberwit (India) sono usciti, in edizione bilingue italiano-inglese, Nocturnes e Waiting room. Con Il Bulino ha pubblicato la plaquette Suite Cilentana, con opere di Michele Marinaccio. Sue poesie sono state accolte da Nuovi Argomenti e Poeti e Poesia e, tradotte in inglese e spagnolo, da diverse riviste internazionali. Con Route 96 bis (Porto Seguro editore, 2023) ha esordito nela narrativa. Vive a Roma. Ha quattro figlie, una vigna e un piccolo uliveto. Coltiva le lettere e la musica, su uno Steinway & Sons del 1938 e su un clavicembalo costruito per lui da Urbano Petroselli.



lunedì 13 maggio 2024

Una recensione di Roberto Nespola per "Mappe senza una terra", di Antonio Bux

Ben volentieri riportiamo qui una interessante recensione di Roberto Nespola per il recente libro di poesie "Mappe senza una terra", di Antonio Bux, RPlibri Edizioni, candidato al Premio Strega Poesia 2024.


Uno sguardo che brucia di radici, le “Mappe senza una terra” (RPlibri, 2023) di Antonio Bux

Attraverso un articolarsi di risonanze (in un presunto vuoto) Bux, in questa sua nuova opera (che è nella dozzina dei candidati al premio Strega poesia 2024) trasforma lo spazio in tempo e dunque il luogo in confronto. Tempo non tanto inteso come ricordo (o premonizione o contemplazione) quanto come esperire: una Erlebnis, un’esperienza vivente, intesa -con Dilthey- come “un rapporto di ‘empatia’ fra l’esperienza vissuta dal singolo individuo e quella vissuta dai suoi simili in altre epoche, anche remote”*, come un condensarsi caleidoscopico di vissuti che il poeta capta ed intuisce con il suo sguardo polimorfo e visionario, paranoico (nel senso di Dalì) e allucinato. Così come lo spazio, e dunque il luogo, viene auscultato e indagato più dalla soglia del cuore che da quella dello sguardo. Potrebbe sembrare l’inverso di ciò che accade nel Parsifal di Wagner, cioè nella musica, in cui il tempo si fa  spazio (“Du siehst, mein Sohn, zum Raum wird hier die Zeit”), forse perché in Bux vi è piuttosto un altro tipo di musica,  che è quella dell’inacustico, quella sottesa alla vibrazione del divenire che innerva tutte le cose e che ce le rende -al contempo- familiari e aliene: la musica dell’infrasuono e dell’ultrasuono, un qualcosa che si pone fuori della nostra piena coscienza, eppure il nodo è proprio la fusione dello spazio e del tempo, quell’incanto (o fattura?) che la poesia riesce a mettere allo scoperto – non importa cosa viene prima e cosa dopo, se il tempo o lo spazio o se i luoghi o lo spirito. Ed è così che il luogo diventa il concerto di un’esperienza interiore, l’esperienza di uno spirito in perenne lotta tra il risorgere e il dissipare. Giacché detta esperienza, difatti, in questo libro è carne che si fa paesaggio, verba caro, orizzonte esistenziale; un bruciare di radici (intendendo il genitivo come oggettivo). I luoghi oggetto di questi versi sono, allora, infinita cassa di risonanza; una modalità per cui il reale e l’immaginario si compenetrano; sono modi diversi di introiettare la realtà proteiforme e di pensarla come frattura, non solo geografica (le radici pugliesi e quelle catalane si mescolano, così come le lingue, in una danza di litanie e rimandi), ma soprattutto preternaturale. Qui incontriamo difatti poesie pregne di parole e di immagini che dimorano ai confini di se stesse, a circoscrivere -senza recinti- un’esperienza tanto liminare e asintotica quanto profondamente articolata: spazio e tempo sono soltanto due dimensioni di un amplissimo multiverso esistenziale che le racchiude entrambe, che le rende un’unica ferita. In questo caso il pretesto viene dato dai luoghi dell’origine e da quelli di (apparente) destinazione, in un compendio deflagrante che brucia le immagini per rischiarare, ancora una volta, le radici di sé. E tutto questo, leggendo le mappe di Bux (qui ne riportiamo un lampante esempio), lo si percepisce chiaramente.

 *dall’Enciclopedia Treccani online

Roberto Nespola


Tre momenti dal libro

 

 

Echi dal Celone

(Torrente foggiano)

 

Celone, ti ascolto. Sai, noi umani

abbiamo bisogno di teorie.

I nostri muscoli sono muffe,

cadono a pezzi se reagiscono,

poi cedono, di fronte all’universo.

È una creatività del male, fissa

sempre un dominio più alto.

Le pose del mondo invece a caso

si rimpiazzano fresche, con gioia.

Non come noi, che in cerca

del diverso non mutiamo.

Sapessi spiegarti per cosa davvero

si ricresce, ti direi che è per sparire,

e forse è così. Staccata, la realtà

mette in ordine senza il sublime.

Cambia percezione, non si raggiunge

di sua volontà, fa maschera del naturale.

L’essere umano camuffato in questa

disciplina, compra e spende senza

mitezza. Diventa finta attività. Invece

Tu, che scorri, grande invisibilmente,

sai che la forza non è nel raggiungersi.

E domini la terra, poiché fatto di quella.

Il tuo controllo è nel divino sottrarsi,

Celone, questa è l’azione. Chi custodisce

pietre per secoli, lo rimuove. Ma l’uomo

freddo calcolo vive, poi muore contrario.

 

 

Dialoghi con Riu

(Dal delta dell’Ebro)

 

 I

 

Ascolta, Riu, è come senti. Al mondo

fischia tutto. Questo dice chi è sotto.

E le chiazze della mente come spirali

si concentrano in più punti, confondendo.

Ma al di sopra un pensiero ricresce

tra le fiamme: è l’unità. Ecco allora

i cannolicchi avvolti nelle sabbie

insistono, investiti dal colore

del fondale. Vivono la polpa,

la indugiano perfettamente

come ostriche, ferendosi

per dare perle, a schiudere il foro

marino. Da un altro buco rientra

invece il calamaro, con la seppia

al buio, imitando l’aragosta, vibra

della migrazione salina. Così ascolta

il mare, pieno di solchi. Di onde interne

che si fondono in trasporti. Creano nuove

luci. Per questo si concentra tutto in basso.

Dove esseri più veri popolano, splendono

sbiaditi, vedono oltre il dono. Sono occhi

rapiti alla corrente. Sono falde onnipresenti.

Pensa, Riu, tutto questo da solo porta

al principio. E per i fiumi è lo stesso.

Solo l’uomo vi annega, in cerca del sibilo.

 

 

II

 

Vedi, Riu, il peschereccio

è sdraiato sul mare. In bilico,

con la fune a torcicollo. Siamo

chiusi come quello. Dalla luce

dell’acqua filtra una murena,

muovendosi fa venire fitte

alla visione. C’è odore

di cancrena, arriva dal rivolo

di un rovo spento. Passiamo

ore al mattino, negli occhi,

diradando sulla battigia

come vuoti, alghe fetali.

Tu non sai di essere finito

e io non so la fine come arrivi,

se da un profondo mal di schiena

o da un sorriso avvolto nel piombo.

So che farà male, che sarà come

fumarsi una stagnola, tradendo gli altri

cresciuti a pasticche. Dentro il mare

barcheggia il rifiuto, la storia svanita

e altri stupidi esseri facendosi a gara,

ma non si salverà il porto, solo una riva.

Riu, tutta questa fatica, lo sguardo

incagliato alle navi, è per una sponda.

Per una sponda morta, che si erode.

 

 

 


Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà