"Per dare un
posto alla memoria / si mettono via le ossa / fattesi bianche / dell'unico
bianco / che la morte sa". Con questa sorta di sillogismo tragico
eppure tanto delicato, mi piace iniziare il viaggio nel mistero profondo della
vita e della morte vissuto e descritto poeticamente nei versi di questo
struggente e profondo libro di Marco Bellini. Un viaggio che cerco di compiere
anch'io, accanto a lui, ma con estrema discrezione e con una partecipazione
affettuosa e rispettosa. Come quando ci si reca presso l'amico per confortarlo
in seguito ad una grave perdita. E di grande perdita si tratta, della perdita
del padre, la cui figura, in La
complicità del plurale, viene evocata attraverso una trama fitta di memorie
e di ricordi, non solo, ma di constatazioni dolci-amare sulla vita, riflessioni
su quello che è stato fatto, insieme, e quello che si sarebbe potuto fare.
La perdita di un proprio caro, di un genitore, si sa, può
dare adito, a posteriori, a tutta una congerie di ripensamenti e di
considerazioni sul senso della vita, della sua evoluzione e della sua
dipendenza dalle leggi fisiche che, ineluttabilmente, determina la sua fine
materiale; tutto ciò può essere rielaborato in forma artistica e letteraria, se
a parlarne è una persona esperta in questi campi, frequentandoli in modo assiduo,
impegnativo e qualificato. Marco Bellini ha indagato profondamente, con la sua
poesia intensa e commemorativa, non solo nel ricordo del padre, nella sua
fisionomia e nella sua storia, ma anche in relazione al senso generale
dell'esistenza, della propria e di quella altrui, generando nel lettore la
possibilità di una rivisitazione della quotidianità e di una rivalutazione di
valori sempre eterni, di sentimenti prima sopiti ed ora lancinanti, di affetti
e di memorie ora da custodire come antichi Lari.
È
senza dubbio un'operazione ardua, quella di Marco Bellini, come di qualsiasi
altro poeta che abbia voluto dedicare versi ai propri cari (come riporta giustamente
anche Augusto Pivanti nella sua interessante e precisa prefazione al libro): la
possibilità di decadere in un mero sentimentalismo, giustificato sì, ma quasi
sempre lontano dall'arte letteraria di qualità, è un pericolo costante da tener
presente, come anche la prolissità e le inconsapevoli ripetizioni di concetti e
ricordi, che possono a volte diluire tutta l'architettura poetica del libro in
una sorta di racconti e di immagini dal sentore eccessivamente familiare e
cantilenante.
Marco Bellini, ben consapevole di tutto ciò, affronta il
viaggio nei ricordi e nel mondo di suo padre con una originalità del dire
poetico del tutto sconcertante, nel senso migliore del termine, e come in
effetti deve essere la modalità poetica di pregio: nessun tema, nessun
argomento, si sa, non può essere considerato e trattato in poesia, fermo
restando che questa debba suscitare, in una sorta di "corto
circuito", interessi, sorprese e induzioni di "alterità" nel
lettore; e ferma restando la buona architettura generale dell'intero progetto
poetico. Marco Bellini, in La complicità
del plurale, ma non solo in questo suo libro, mantiene alta la bontà e la
qualità del suo dire poetico.
Ma veniamo ora al titolo che, come ho sempre affermato, e
credo che ciò sia condivisibile da tutti, rimane sempre l'estrema sintesi di un
progetto poetico che va poi sviluppandosi in tutto il libro.
Quasi tutto il discorso s'incentra dunque in quei due versi
finali di pagina 67, dove Marco Bellini chiude (per il momento) una riflessione
importante: "… Lasciamo a domani /
il silenzio che hai per me / lasciamo agli altri / ciò che è sempre accaduto. /
Del verbo lasciare mi sorprende / la complicità del plurale". Qui
dunque il poeta puntualizza con controllata amarezza che il dolore è rimasto
chiuso dentro di sé, mentre ogni altro contorno, storia, memoria, gesto, è come
infiltrato nella quotidianità "esterna", dei più, del mondo di fuori:
ed è questo mondo esterno "complice" silenzioso degli accadimenti,
nel bene e nel male, nell'ineluttabilità della morte come nella gioia
momentanea di un ricordo, di un quadro, di un momento, di un daffare necessario
nonostante tutto, come "… pensare
alla SIM da chiudere / portare il silenzio; la voce di lei: / preavvertirla /
che lo sappia".
Il controllo del verso, la misura, l'attenzione e la cura
particolare riposta in ogni parola, i rimandi, le allusioni, fanno sì che i
componimenti poetici di Marco Bellini, in questo libro ma anche in tutti gli
altri, risultino significativi e propositivi sia per il lettore attento ed
esigente, quanto per un pubblico meno incline al mondo della poesia. Inoltre
pur rimanendo unico il tema, quello della morte e del ricordo del padre, i vari
brani rifulgono di luce e di vita propria, singolarmente: il discorso non è mai
chiuso, potrebbe continuare all'infinito senza stancare e magari con "stacchi"
sempre nuovi e rivelatori di una profondità di concetti (esistenziali,
filosofici, sociali, familiari, affettivi) straordinaria. La morte non è
banalizzata, nonostante la purezza e la semplicità (intesa come immediatezza)
del dire poetico, ma è resa sacra anche attraverso i ricordi, vividi e
nostalgici, di momenti anche i più semplici, puri ed immediati, per l'appunto.
Un libro che fa meditare, dunque, sugli aspetti della
"mancanza affettiva" in seguito alla perdita di un genitore, non
solo, ma che invita anche a soffermarsi un attimo a considerare e ad
approfondire i veri valori della vita, in un contesto, come quello attuale, di
eccessiva freneticità e superficialità di comportamento sociale. La poesia, in
fondo, indica anche questo: "Insistere
nella nascita / chi è capace: il fiume / la fatica della sorgente ancora / come
una resurrezione il fiume / che affiora tutti i giorni distante da te / che
insisti nella morte". Senza timore, senza drammi, ma con la dignitosa
consapevolezza di una ineluttabilità che davvero ci arricchisce spiritualmente.
Proponiamo ora ai nostri lettori alcuni testi poetici di
Marco Bellini tratti dal libro, invitandoli ad esprimere ulteriori graditi
commenti.
***
Una alla volta le vorrei richiamare
da dove non so. Prenderle dal vento
o dall'ultimo raggio chino dentro una serratura.
Solo un'impressione
di quelle vite passate. Richiamarle
dall'odore della polvere o dal riflesso
di una galassia nella pozzanghera
per una giusta attenzione
un disturbo consentito.
Di là, forse, il dispetto
come per un numero sgradito sul cellulare.
***
Spostando dall'angolo
un mobile mai rimosso
sollevando d'aria residui lievi
impigliata in una piuma
per caso una mosca vuota:
involucro d'ali e corpo senza peso.
Viscere perse, riverberi fiacchi
luce che passa e scompone.
La casualità di un angolo e l'ingombro
di un mobile: nessuna tomba o lapide
solo una silenziosa noncuranza
della morte per la vita.
Non ti abbiamo lasciato l'orologio
dove riposi al polso solo il polsino
nudo della camicia. Il ticchettio
lento si sarebbe fermato presto.
Pensata inutile se messa lì
la compagnia distratta, tenue
rimbalzo, vibrazione di poco conto.
Il tempo ha preso altre strade
non è per te quella voce
non è per te il primo canto sommesso
di fine inverno, il merlo
sulla cima del cipresso.
Ci pensavi alla morte
mentre guardavi il giardino rimasto
al di là dal vetro? Aveva conosciuto
le tue mani, i nodi del lavoro.
Da settimane metteva arbusti irregolari
una spinta incontrollata; osa di più
prendeva l'aiuola che sembrava cercare
come un figlio distante
le cure di una zappa o una parola
per un pensiero da dissodare.
Tracciavi il tempo stando dentro
il bosco; educato dagli alberi
leggevi le venature delle foglie
per sopravvivere alle distanze
tra un atto e il suo ricordo. Così
per questo tempo, in questo giorno
voglio spegnere ogni gesto
stare al centro del campo lontano
dove hai lasciato gli attrezzi
dove la pioggia e le foglie
si sono sempre parlate
e lì aspettare
che a dirmi l'ora
sia la fatica del campanile
che ti portava a casa.
Spegnere
è la voce del verbo
che ti porta.
D'improvviso, mentre cammino
mi accorgo di non avere la tua firma.
E' un passaggio della mente
senza preavviso
perché tu capiti e abiti.
Inconsapevole il passo rallenta
cercando nella memoria un foglietto
un appunto conservato che porti
quel tratto elegante delle linee
l'alternanza di curve e spigoli
a definire un profilo che non trovo.
D'improvviso, mentre cammino
mi accorgo di non avere
il tuo nome
scritto da te. Scrivere
è il verbo che ti perde.
Ora ti metto un po' da parte
i verbi un po' da parte. Ora
sembra che certi posti parlino meno
come una distrazione della mente
odori andati e suoni
una trasparenza nei colori.
Sei stanco ora, siamo stanchi
lasciamo stare ogni cosa.
(Testi tratti da "La complicità del plurale", di Marco Bellini, LietoColle, 2020; prefazione di Augusto Pivanti)
Marco Bellini, nato nel 1964, vive in Brianza. Sue
pubblicazioni sono: Semi di terra (LietoColle, 2007); per le Edizioni
Pulcinoelefante la poesia Le parole (2008); la plaquette E in mezzo un buio
veloce (Edizioni Seregn de la memoria, 2010); Attraverso la tela (La Vita
Felice, 2010); Sotto l’ultima pietra (La Vita Felice, 2013), La distanza delle
orme @ – Poesie con CD Inserti (La Vita Felice, 2015); il libro d’artista Tra
le spine (Edizioni Il ragazzo innocuo, 2018). Nel 2013 è risultato vincitore
con inedito nelle selezioni italiane per l’European Poetry Tournament. Sue
poesie hanno ottenuto riconoscimenti in diversi concorsi e sono presenti in
numerose antologie, su blog e riviste di settore. È stato tradotto in diverse
lingue europee. Fa parte delle giurie del Premio Letterario Nazionale Galbiate
e del Premio Nazionale di Poesia Umbertide 25 Aprile. Collabora con il
semestrale di letteratura Incroci e con la rivista Qui Libri. Ha curato
l’antologia poetica Muri a secco (RPlibri, 2019). Cura la rassegna di eventi
sulla poesia in collaborazione con l'Associazione artistico culturale Artee20
di Merate (Lc).
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