“Oggi stiamo tutti bene? / Ma no, siamo tutti cadaveri che corrono. /Alla fine di noi il tempo ha perso solo quattro chili. / Io lo sapevo, ma non lo volevo sapere…” Così conclude Carlo di Francescantonio nella sua penultima poesia della raccolta, Stiamo tutti bene?, mettendo il classico dito nella classica piaga, e cioè stimolando ironicamente in noi lettori un certo senso di autocritica, dal momento che, presi come siamo quotidianamente dagli affanni e dagli impegni della vita, non ci accorgiamo del profondo senso dell’essere, della parte emotiva e sentimentale e della nostra scaturigine spirituale, mentre il tempo trascorre ineluttabile, e tutto lo sappiamo ma in realtà non vogliamo prenderne atto: per migliore se stessi, per ribadire un futuro, un orizzonte di speranza. E la poesia, come sicuramente questa di Carlo di Francescantonio, è ancora una volta denuncia e indicazione di una possibile rivalutazione e redenzione dell’uomo.
Polaroid I
tutti distanti in questi scatti. Padre, madre, una nonna
e altri bambini dei quali ricordo solo pezzi di nome.
Ognuno presente, come gli anni fissi nello sguardo.
E ci sono anche io. Sembro contento ma distaccato,
quasi un errore della Polaroid.
Compleanni in campagna, la frase per l’etichetta
La campagna
il pediatra consiglia il cambiamento d’aria.
È la prima volta che sono lontano da casa
in una campagna mai vista. Ho sei anni
è il 1982 e davanti ai miei occhi
c’è la casa del nonno.
Questo pomeriggio lui compie diciotto anni
di morte. Nella nuova esistenza da trapassato
è maggiorenne, eppure il regalo lo fa lui a me.
La casa è grande. Tre piani, stanze chiuse
con all’interno i troppi rumori del tempo.
Qui la vita comincia a parlare
I fantasmi
escono dal camino
i fantasmi. Li osservo
da una distanza di sicurezza
che per questo mondo
è solida radice.
Ma è storto il presente.
Essere qui
non permette pace o consolazione.
Attendo il privilegio
di svegliarmi fantasma.
E se Dio non esiste
sarà una fregatura
La mia generazione
ho visto il fallimento della mia generazione negli occhi
dei coetanei che ce l’hanno fatta. Gioie di famiglia
destinate alla gabbia l’uno per l’altra.
Generazione in anestesia con anima e corpo
in apnea nel web. Tecnologia veloce impone code
e attese per vedere risolte le patologie che crea.
Stress e strategie della tensione. Si deraglia dallo
psicologo. Ho visto figure professionali
generate negli ultimi anni dal complesso
dei nostri tempi e persone che appassiscono tra lavoro
e palestra. Sempre più spesso mi chiedo se questi mostri
amino davvero il lavoro i vestiti l’auto che guidano
le case che abitano chi si fottono chi hanno sposato
i figli il mutuo rinegoziato i troppi cani comprati.
Tutto obbligatorio o siamo in mezzo a questo per caso
e restiamo fermi, persone immobili a subire
l’angolo di vita che interpretiamo? E divento triste
perduto in mezzo a tanto disastro, anch’io bestia
nel circo a fare cose per le quali non mi sento nato
Andare per stanze
io non sono qui. Non un altro, come ha scritto
in una lettera Arturo. È solo un momento il fatto
che io sia corpo, che abbia queste sembianze. L’anima
non ha tracce di naftalina. Nemmeno voglia
di stare chiusa troppo a lungo. Ho sempre in sospeso
gli armadi marini e non è ancora arrivata l’estate.
Ma sai che il metro del tempo è il nostro vestito
più stretto. L’andare per stanze che
non ci rappresentano. L’eterna condizione dell’ospite
che va a marcire come i pesci sul banco. Sembra
che niente abbia un cielo ed è così che perdiamo
l’occasione del volo. Innalzarsi dovrebbe tuonare
come un comandamento. Invece scegliamo l’àncora,
le zavorre, il porto sicuro. E gli anni passano spietati.
Ci esauriscono, gli anni. È una tragedia che porta
alla pensione, dove più niente è reale. Ma a qualcuno
sembra che proprio da lì comincino i sogni
VI
la casa è del 1907. E sembra dirmi di andare
oltre qualcosa di definito dalle regole. Arrivano
nei campi ben al di là del confine del cimitero
i fuochi fatui. Così inizia il tentativo di dialogo
tra il vivo e i morti. Si attende un contatto e la sera
scende. Non sono qui per edificare qualcosa,
ogni impero tornerà a essere nano di polvere.
Sono qui per vedere un fantasma.
E che mi porti via, perché mi sento inadatto.
È così che vivo. Troppo asfalto e aiuole ben curate.
L’ipocrisia ha la forma dell’ordine.
La cultura è prodotta in modalità industriale.
A nessuno interessa più il tema
del vivo che parla col morto
Carlo di Francescantonio, Oro, argento e ferro. Marco Saya
Edizioni, 2024. Postfazione di Elio Pecora
Carlo di Francescantonio (Santa Margherita Ligure, 1976) è autore, musicista e redattore. Ha collaborato con festival letterari e pubblicato romanzi e raccolte di poesia. Le sue ultime opere sono Memorabilia. Poesie 2000-2015 (ZONA contemporanea, 2016), Uomini in fiamme (Ensemble, 2018), scritto con Mirko Servetti, Anche l’ultimo argonauta se n’è andato (RPLibri, 2021) e Il carico umano (Terra d’ulivi, 2022), ancora con Servetti. È inoltre presente in antologie e riviste letterarie. Alle lettere affianca una produzione musicale di ricerca con il collettivo “Magazzino CdF” e il progetto solista “LulùDogFromSpain”. Per le Edizioni dello Straniero collabora con “L’Altro”, settimanale di approfondimento culturale, e co-dirige una collana di poesia.
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