Parliamo di Nella cenere dei giochi di Irene Sabetta, una raccolta complessa, molto articolata, che prende subito e trascina il lettore in un’atmosfera di forte impatto emotivo, per gli aspetti personali e sociali, per le memorie e soprattutto per le notevoli riflessioni di carattere umano e persino filosofiche ivi descritte, naturalmente con una poesia alta e densa di significati. D’altro canto, non basta soffermarsi ad una prima lettura, non sufficiente ad entrare nella profondità del pensiero dell’autrice, sebbene l’armonia e la fluidità schietta dei versi costituiscano già una valida e gradevole opera letteraria da leggere e da condividere.
Bisogna dunque penetrare nel cuore delle storie, tentare di percepirne quel grumo di essenzialità che ha generato tutto il progetto poetico di Irene Sabetta, cose che, e capita spesso nei buoni poeti, neanche l’autore ha chiare dentro di sé, ma che riesce ad esternare soltanto con la sua magistrale arte poetica, laddove il celato, l’appena accennato, il non detto, l’allusione, la metafora, urge a fior di verso, pronto ad essere colto dal lettore più attento.
E cosa ci vuol dire veramente Irene Sabetta con questa sua nuova prova letteraria?
Rispetto al lavoro precedente, Il mondo visto da vicino, Irene Sabetta ha aperto con questo suo ultimo libro, un orizzonte più drammatico e complesso, transitando da riflessioni ispirate da luoghi, paesaggi e nature, a quadri molto più profondi del proprio vissuto e della sua esperienza di vita in rapporto con il suo mondo e i suoi cari. Si tratta di un’evoluzione che racchiude comunque in sé la continuità di certe riflessioni che l’autrice propone, soprattutto a sé stessa, laddove si pone al centro di una storia che ha molto influenzato, e influenza, il suo pensiero e il suo comportamento. Storia di vita che, bene o male, tutti hanno avuto ed hanno, ma che solo la poesia può in qualche modo renderla interessante e condivisibile, e non parlo solo dal punto di vista emotivo, vibrante e coinvolgente come se fosse davvero la nostra storia, il nostro patire, il nostro gioire, le nostre scelte di vita!
Irene Sabetta è dimidiata tra la cenere della fatuità della vita e i giochi rosei di un’infanzia ingenua e innocente ma libera e autentica. Alla fine cenere e giochi si integrano, si confondono, diventano un unico pathos, un ribollire di memorie e di scelte dolorose ma necessarie. Come pure si confonde la figura dell’autrice con la figura di sua madre, in una narrazione poetica che attualizza la memoria, fa rivivere la madre in sé: “Non guardarmi / che rimesto nella cenere dei giochi /per trovare un po’ d’ombretto”.
È dunque un dettagliato percorso commemorativo ma anche di rinascita, di ripresa della propria dignità e della propria libertà, dopo le amarezze e le angherie subite dai genitori e rivissute in prima persona dall’autrice, fatte proprie, come pietra miliare per una nuova costruzione di sé, più forte e più schietta, più determinata, ma anche più sacra, tanto da rimanere ancora “scalza” in quella stanza della morte e dell’abbandono, fulcro paradossalmente vitale della sua nuova vita, del suo nuovo risorgere come araba fenice dalla cenere dei giochi, come giustamente afferma anche Maria Benedetta Cerro nella prefazione, e che si manifesta in modo particolare in quel capolavoro di brano in prosa che è Iris, al centro, nel cuore del progetto poetico del libro.
Proponiamo qui di seguito alcuni brani tratti dal libro.
Riscatteremo i nostri anni dell’università
per non cedere il passo agli acciacchi.
Imporrò al mio corpo
una dieta ferrea.
Benderò gli animali che ho in casa
e coprirò gli specchi e le pareti riflettenti.
Non conterò più i mesi
che mi separano dalle mie figlie.
Sento qualcosa che si assottiglia
come l’elastico di una fionda tesa,
un frutto dopo che hai tolto la buccia,
le caviglie di mia madre,
un limone spremuto.
***
Ordalia
T’accendi d’ormoni a centinaia
la fiamma t’attraversa
di rabbia e d’abbandono.
Eravamo la regina eravamo
la mamma e la figlia
io ero il ferito tu il cane l’ambulanza
io ero il prato tu la mucca la fontana.
Facciamo che eravamo facciamo
la merenda il compleanno il girotondo…
cascò il mondo.
Senza mano, non mi dare più la mano,
non toccarmi mentre supero il recinto,
non guardarmi
che rimesto nella cenere dei giochi
per trovare un po’ d’ombretto.
Alla larga, l’onda lunga dell’istante
estendibile all’eterno
si rapprende in un ruvido bozzolo intricato
un gomitolo di fil di ferro
un grumo di sangue cruento
successione di scossoni
non più fiume
ciclo
non più flusso.
***
Brucia tutto
all’altra Irene
Ti ho vista
ergerti sulla croce
con i chiodi di traverso.
Dormire a testa in giù
nell’assemblea degli esperti
ammutoliti tra le tele
che tu avevi dipinto con gli sputi.
Maestra dell’annullamento.
Regina di tutte le fate
morte di fame nella distilleria.
La casa in piena curva
metteva a repentaglio la vita e la salute
dei tuoi sogni futuri,
troppi da mettere in riga.
E ogni mattina
reinventavi il padre
e la madre
e camminavi accorta
lungo la striscia d’asfalto
con i piedi nell’acqua
del fossato erboso.
Benedivi e bruciavi,
a giorni alterni,
numeri, teoremi e costellazioni
e con i resti
giocavi a costruire
torri celesti
dai ripiani
di piombo e fiori finti
per non riflettere il passato e l’orrore del passato.
Fatica straziante
delle ore nelle braccia conserte,
mitigata dal canto intermittente
delle rane
tra le canne intorno al lago,
tentazione permanente
di frescura e calma piatta.
La zattera al posto del ponte,
l’amore al posto dell’inutile,
l’arte al posto del cibo
erano traccia della tua
malinconica rivoluzione.
Ora che sei solco e sei aratro,
fiamma e plastica arsa,
tendimi una mano
e tirami gù con te
nel nero fluido e brillante
di feccia e diamanti
e insegnami l’onestà
del sonno e della cenere.
***
Me
Astraggo dall’io
per essere me stessa.
Myself. Sono mia
ma non mi voglio.
Identità di carta velina.
Non fate caso alla foto.
È uscita male.
Tutti noi siamo usciti male,
perfetti come pensiamo di essere,
imperfetti come siamo.
Colpa di Amleto!
Colpa del fotografo,
dell’anima perplessa,
della smorfia di dolore
sul lettino in sala parto.
Colpa della formula dimenticata,
di questa cosa che deve essere
continuata…
***
Mattina di novembre
La promessa autunnale
di frutti fuori stagione
al posto della pioggia.
Il fiore nel vaso sul balcone
disegna angoli inespressi
del suo apparire.
Le conversazioni al telefono
della sera prima
a fermentare sulla tavola con il vino.
Ho visto una poesia
alzarsi e camminare
libera e scalza attraverso i muti.
Tra poco rinascerò anche io.
***
All’immaginazione
preventiva
Se camminassi sulle parole
la tua poesia reggerebbe il peso.
Potrei usarla
per raschiare il fondo d’acciaio
o per piantare
chiodi alle pareti.
Potrei costruire città
o giardini accoglienti
impastando i tuoi versi
a calce viva.
Finalmente parole utili.
Se costruissi una scala d’avverbi
potrei salire fino all’ultimo gradino
e seguire la curva di luce.
Vedrei lontano
gli alberi cadere nella foresta
e saprei cosa fare.
Domani sarebbe adesso.
Irene Sabetta, Nella cenere dei giochi, La Vita Felice, 2022; prefazione di Maria Benedetta Cerro
Collabora con la rivista periodica “Formafluens – International Literary Magazine”, diretta da Tiziana Colusso, e con Poetanza Web Radio.
Partecipa a reading e maratone poetiche.
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