Nella complessità di un mondo globalizzato, all'interno del
quale cerchiamo di districarci tra le infinite maglie di una rete
intricatissima di comunicazioni, ormai capita sovente di smarrirci e di perdere
i necessari riferimenti valoriali per selezionare, vagliare, valutare,
giudicare tutto ciò che ci viene proposto (o imposto), sia in immagini, sia in
comunicati, sia anche più o meno indirettamente in procedure, usi, abitudini
influenzanti e omologanti. In poche parole abbiamo forse perso il limite delle
cose, la loro veridicità, la loro consistenza, il loro spessore. E non solo il
limite delle cose, ma anche, purtroppo, la consistenza e l'importanza
dell'altro, del nostro prossimo, del nostro coinquilino ma anche del nostro
amico, amico che nella maggior parte dei casi è soltanto virtuale, come ormai
suol dirsi, avendo perso molto di quella caratteristica emozionale e sensoriale
che, nell'antichità ma anche fino a pochi decenni fa, rendeva l'amicizia vera,
solida, sacra e profonda.
Francesco Terracciano, in arte François Nédel Atèrre,
affronta questa caratteristica dell'uomo globalizzato e disperso, smarrito,
nella sua recente raccolta poetica "Limite del vero", La Vita Felice
Edizioni. Addentriamoci nel suo progetto poetico con alcune riflessioni.
La modalità poetica riesce sempre a precorrere i tempi e le
epoche, quasi fosse cartina al tornasole adatta ad indicare lo stato delle cose
contingenti, il pensiero e gli indirizzi socio-politici di una società in
transito, quasi fosse una sorta di sentinella posta in avanguardia e capace di
interpretare i segni di un futuro anteriore o di intuire come e dove si stia
dirigendo l'uomo, la società.
La
poesia di François ha proprio questa caratteristica: individua e circoscrive la
storia esistenziale di ciascun uomo, e quindi di una società intera, la nostra
attuale, entro il limite del vero, laddove per limite del vero possiamo
intendere lo spazio psicologico ma anche materiale, entro il quale la
confusione dei valori, il disordine morale e civile, l'opacità esistenziale, la
sovrabbondanza di messaggi, possono apparire verosimili e importanti. "Ma
i libri vanno nel posto sbagliato / delle scansìe – gli amici malaccorti /
mettono sempre il titolo a rovescio. / Così i rilievi all’arco del trionfo / i
volti silenziosi tra le scritte / svelano a tutti l’onesta menzogna, /il
sottinteso limite del vero."
Una
verità non oggettiva, dunque, ma prevalentemente soggettiva. Punti di vista
personali, ombrati e deviati forse da una ridondanza di comunicati e da mai
verificati "sentito dire",
ma presi per buoni così come l'infinita rete globalizzata ci vuole far
intendere, intaccando e capovolgendo valori etici, emozioni, sentimenti, la
stessa umanità.
Limite
del vero è una raccolta complessa di versi in cui predomina un'anima di
precarietà, una fuggevole apparenza, quasi una fretta dell'essere. L'uomo
arriva in quella zona delimitata dalla propria verità, vi osserva la propria
storia, la propria geografia, la propria morale, ma non vi rimane per molto: è
costretto ad andare via, ad esiliarsi oltre il limite del vero, per cercare
altrove spiragli di luce autentica, assoluti, che lo redimano o perlomeno che
lo rassicurino.
Questo,
in sintesi, il progetto poetico del nostro autore che appare evidente nella raccolta;
si tratta di brani poetici compatti, bene organizzati e nei quali la misura del
verso soddisfa il ritmo e la musicalità, pur mantenendo intatto il dettato
essenziale dell'io narrante, preponderante quasi sempre ma necessario punto di
vista da cui il lettore riceve il messaggio poetico di François, e cioè uno
stare repentino all'interno delle cose, della quotidianità, un indicare di
sfuggita le emozioni contingenti ma senza rimanerne compromesso, e poi un ritrarsi
oltre, al di là del limite del vero.
Perché
i nostri amici che ci seguono su questo spazio letterario, possano
eventualmente continuare il discorso sul "limite del vero" di François
Nédel Atèrre, con ulteriori graditi commenti o riflessioni in merito,
riportiamo qui di seguito, come è ormai consuetudine, alcuni brani tratti dal
libro.
***
Io ti ho onorato ogni giorno, il
capo
chino, le spalle basse del guardiano
alla vestale, ciascun grappolo di
bacche
ho cantato, vivifico e viola,
nascosto
in un terreno incolto,
le foglie delle piante sconosciute,
il sole, l’ocra dei muri tra i rami,
la pioggia sull’intonaco scrostato
di vecchie case, le lance appuntite
chiuse intorno a giardini
abbandonati.
Io ti ho seguito come nessun altro,
chioma ondulata delle siepi, amica
modesta, furia e vento in mezzo ai
boschi,
argento e calcedonio, polsi d’oro,
àlbatra rossa buona da mangiare
lasciata ai merli ubriachi.
Io ti ho ascoltato, Musa dalle
labbra
dolci e ricurve, sottili e serrate,
per ore intere al gelo dell’inverno,
occhi di brace, fianchi di
conchiglia,
dita affilate tese e aperte al dono
di melograni lucidi di sangue
e datteri di miele e vino bruno.
Invocazione
alla Musa
***
Che c’ero, era già noto. In calce ai
righi
profondi, in mezzo all’indice dei
nomi.
Nell’ora dell’eccidio, il sangue
sparso
per terra, urlavo gli ordini ai
soldati
o procuravo il pasto agli animali
in campi estremi, coperto di fango.
È capitato che avessi il mio ruolo,
i torti, le ragioni da imparare:
è scritto sulle pagine dei libri.
Ma i libri vanno nel posto sbagliato
delle scansìe – gli amici malaccorti
mettono sempre il titolo a rovescio.
Così i rilievi all’arco del trionfo
i volti silenziosi tra le scritte
svelano a tutti l’onesta menzogna,
il sottinteso limite del vero.
Anche la penna mi è sfuggita a volte
mentre tendevo la mano a qualcuno
come pugnale roncola o frustata
dal dorso, in senso opposto alla
ferita.
Limite
del vero
(dalla sezione "La strada, in
quel momento")
***
Cortili è la parola, e tu sai dirla,
che rende il luogo com’era, com’è.
Manca, ma è irrilevante, una
conferma.
Il marmo che non si può riparare
cede, mi appoggio ai muri con la
mano.
Restare qui è fidarsi delle dita.
Porte serrate, quelle che sapevo
sopra le scale, e l’ombra ti
allontana.
Grani dall’alto, è la pioggia che
arriva
o è solo l’acqua caduta alle piante.
Mi accorgo, intanto, che guardare a
lungo
è garantire l’esistenza in vita.
***
Mi dissero che c’eri. Oltre le tende
sottili, acquamarina, alzai lo
sguardo.
Era già piena la strada di gente
disordinata. Un ragazzo cantava.
Niente a che fare con la neve e il
vento,
il gelo sulle cime: eri in un luogo
che non ti apparteneva. Sole e segni
sui muri, anime buone di altre case.
Qualcuno volle chiederti qualcosa
che non sentivo, gli parlasti a
lungo
senza interesse: era appena il
valore
dato a un estraneo in mancanza di
meglio.
Per pochi istanti, ti vidi arrivare.
Non ho saputo di quale animale
tu avessi il passo o trattenessi il
volo.
Mi sei venuta incontro, non mi hai
visto.
(dalla sezione "Il nome che ti
ho dato")
***
L’ora è terribile, raggela il cuore.
C’è ancora il sole, sul vostro
balcone.
Nel bosco sacro come nei giardini
pubblici, stanno riscrivendo il
rito.
Soffia di più il vento, sembra che
parli
(è solo una canzone, su, sta’
calmo.)
Il giovane ufficiale, il sacerdote
cancellano le formule e i registri.
Che velo aveva, era sicuro bianco?
il legno delle sedie era maturo
o scricchiolava? i grandi quadri
accanto
erano alti, qualcuno li guardava?
Sui testimoni si addensa il
sospetto,
le esitazioni nella voce, colpe.
Si bussa ai fianchi delle casse, è
in dubbio
la buona fede di chi se n’è andato.
(dalla sezione "Una vena, un
fiume")
***
Tu rimarrai, solo più spettinata
ai riccioli di qualche cornicione,
sopra l’intonaco. Il nero e il
carminio
cadono un poco in alto, alle
facciate.
Tra i brani delle lapidi sui muri
scritte in lingue perdute,
misteriose.
Noi siamo stati a lungo qui, per
strade
che all’improvviso ci sembrano
estranee,
come di altra città. Tornando al
centro
le nostre voci di un tempo,
nell’aria
– confuse nel mattino con le grida
di gente nuova – sono solo un
soffio.
(dalla sezione "La città – se
c’è, se resta")
***
Ritorno. A cosa? Non lo so nemmeno
se quelli che conosco hanno altre
vite
tra i denti, e non contemplano lo
scarto,
l’innesto tra i binari. È quella
fame
di frutti tra le spine – ed ero
sazio
di luce già – che qualcuno coglieva,
la strada riparata dalle piante
verso la spiaggia, l’agile torrente
che cerco ancora. Ma è un tranello
l’ombra
bassa sopra la darsena, è passato
tacendo qualche cosa un ambulante.
Mi chiedo se era vivo, se lo sono
io che ho certezza soltanto del sole
feroce e di ogni fiore folgorato.
(dalla sezione "Meccaniche, membrane
della luce")
François
Nédel Atèrre, "Limite del vero", La Vita Felice Edizioni, Milano, 2019; postfazione di Giulio Maffii
François Nédel Atèrre (pseudonimo di Francesco Terraccia¬no)
è nato a Napoli, dove vive e lavora, nel 1967. È laureato in Economia e
Commercio. La letteratura, contrappunto alla formazione universitaria e
professionale, è costantemente al centro dei suoi interessi: lo studio della
poesia europea – del modello italiano, inglese e francese così come delle
significative testimonianze russe del Novecento – ha motivato la sua
partecipazione a numerose iniziative, mante¬nendo vivo il contatto con una
realtà complessa e in continua evoluzione.
Ha pubblicato una raccolta di poesie, Phonè (1992) e un
vo¬lume di racconti, Il Salice Bianco (1993), entrambi con lo pseudonimo di
Francesco Miti. Numerose le sue collaborazioni con riviste letterarie e le
par¬tecipazioni a progetti editoriali, rassegne e seminari.
Del 2018 è la raccolta poetica Mistica del quotidiano, Terra
d’Ulivi edizioni.
Nel 2018 una sua poesia è risultata vincitrice al Concorso
Nazionale di Poesia “Città di Sant’Anastasia XVI Edizione”.
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