Viene da chiedersi chi sia Amin, con il quale Ibello si intrattiene in dialogo. Ma non ha nessuna importanza, in quanto la poesia pura è avulsa dai personaggi, vive di luce propria: voglio dire, che qui la protagonista principale è senz’altro la poesia stessa, indipendentemente dal personaggio o dai fatti sulla quale si “appoggia”. Al posto di Amin poteva esserci qualche altro riferimento, sebbene l’allusione al mondo orientale e in un certo qual modo mitico, possa essere un indizio coerente del suo discorso poetico. In effetti, Amin è ben collocato nel corpo poematico e offre la giusta “spalla” al poeta nel procedere del suo canto. Amin è, in fin dei conti, il riflesso segreto del protagonista, l’alter ego se vogliamo, l’ente con il quale ragionare e poetare.
E dunque basandosi su questa struttura dialogante, Ibello costruisce la sua proposta poetica, un’idea della vita e dell’esistenza che presuppone un distacco, un isolamento, una sorta di retroguardia da cui riflettere sullo stato delle cose e dell’universo: “È tutto calmo / qui è davvero tutto calmo, / il sole è una biglia di benzodiazepine”… La stasi, il guardingo celarsi dietro i muri della società asfittica, permette al nostro poeta di ragionare con controllata serenità e anche con una leggera ironia sulle vicissitudini del mondo, lasciando anche trapelare una qualche speranza, laddove suggerisce, consiglia, di rimanere in attesa, muti, senza proferire alcuna parola, in quanto si “troverà un altro modo per fare alta la vita”.
E in fondo, è proprio così: siamo davvero soli, isolati in una realtà che forse ci precipita addosso e cerca di ferirci, per cui è necessario l’estraniamento, il ramingo punto d’osservazione virtuale, per tenere lontano il buio (“quanti millimetri ci separano dal buio?”: basta un nonnulla, e ci cadiamo dentro, ineluttabilmente!). Per cui: “Amin, / noi / siamo / soli”, e questa assoluta, perentoria e laconica certezza poetica e filosofica è accentuata dai quattro versi costituiti dalle singole parole dell’enunciato. Come a ribadire l’assoluta necessità di una riforma di vita, di una redenzione che porti ad altra umanità: “Stanotte muoio cane e poi rinasco / ragno di luce estenuata. / Anche tu la chiami morte / questa armata / silenziosa, senza luna? / La preghiera del giorno: siamo muti. / Tutto si separa per venire alla luce.”
È una poesia colta e robusta, quella di Giovanni Ibello, che riesce in pochi versi ad abbracciare significanze eterogenee da un punto all’altro del cosmo, con la sua forza propositiva ricca di figure simboliche, di allusioni, di riferimenti mitici e del mondo orientale, e di metafore. Una poesia della solitudine, certamente, ma una solitudine necessaria per individuare con il dovuto e sereno distacco la confusione del mondo con tutte le sue corse al potere, al fuoco rimasto nelle pietre, affinché si possa ripartire in modo sobrio, rinunciando e confutando falsi cieli e falsi splendori: “Rinuncio al cielo-ziqqurat, baratro di uccelli. Rinuncio ai falsi om”
Cercava la risacca nelle pinete
fiutava l’ombra di un ago sul fondale,
la panacea di un abbandono.
Conta fino a zero, le dissi
salta nell’arco cinerino.
È tutto calmo
qui è davvero tutto calmo,
il sole è una biglia di benzodiazepine.
C’è ancora un intreccio
di gelsomini carbonizzati sulla pietra.
L’estate,
una valanga di aceto sopra i fiori.
Ma in questo valzer di occhi crociati
non dire una parola,
non parlare.
Troveremo un altro
modo per fare alta la vita.
Amin, è quasi giorno,
è la resa dei fuochi invernali
l’ectoplasma del divenire.
Dio, gheriglio di stella
insegnaci a svanire
poco a poco
insegnaci il dialogo amoroso
tra i picchi delle braci
e l’arpionata notte.
Adesso è tutta luna nuova
mentre ancora
tiri a sorte la vena
dio anatema,
ti sfiori trasognato le palpebre…
Quanti millimetri ci
separano dal buio?
***
io non torno più
Ricavo dai roghi autunnali
un altare di gemme,
è il menhir dell'esiliata
luna.
Io sono Giovanni
e non ho mai chiesto di essere amato.
L'amore stringe nel seno
la sorte del tuono:
frantumare il vetro dell'esistenza.
Così noi, ebbri di giovinezza
corriamo a perdifiato nell'oltrenero,
succhiamo avidamente
il fuoco rimasto nelle pietre
e brindiamo / all'ombra che fu delle pinete.
Ogni cosa rivela
quel nulla che siamo già stati.
Tutto simula la quiete.
Poco distante, un uomo prende a pugni la rena.
Dice: “Credimi, noi
non stiamo per rinascere.
Nessun verso sconta la
primavera”.
Di quello che sognavi veramente
non resta che un silenzio siderale
una lenta recessione delle stelle
in pozzanghere e filamenti d’oro.
E il riverbero delle sirene accese
sui muri crepati delle case.
Così dormi, non vedi e manchi
il teatro spaziale delle ombre.
Il desiderio è l’ultimo discanto.
Ma quanti gatti si amano di notte
mentre l’acqua scanala nelle fogne.
(Da: Parte Seconda. Teorema dei roghi)
***
Ecco il primo giorno senza luce,
i lemuri lunari e altre asfissiate divinità.
Sempreverdi di pena
e stanze inchiavardate nel disamore.
Amin,
noi
siamo
soli.
E anche per questo
non abbiamo tollerato la vita.
dentro un cielo che fu lunato / io, oscuro natante...
Rinuncio al cielo-ziqqurat,
baratro di uccelli.
Rinuncio ai falsi om,
al sacerdozio della luna.
Stanotte muoio cane e poi rinasco
ragno di luce estenuata.
Anche tu la chiami morte
questa armata / silenziosa, senza luna?
La preghiera del giorno: siamo muti.
Tutto si separa per
venire alla luce.
(Da: Parte Terza. Be aware of god)
***
Cosa resta del sogno?
Io non lo so cosa resta del sogno. Io sono inutile come
la pace. Sono il ras delle ombre, luce cariata dall'avveni-
re. Conservo
questa macellazione del bianco e tracanno,
da ogni vena di luna, quel vino fatto aceto che chiamavo
incanto.
Quando tutto sarà finito
sarà il sonno a irrigidire gli occhi
ma prima della fine
c’è una retrospettiva lenta dell’infanzia,
una campionatura degli amori.
Poi il respiro si risolve
in un orgasmo neuronale,
è come un’implosione di pianeti nella mente
una turbativa siderale
del corpo che ritorna seme.
(Da: Parte Quarta. Luce cariata dall'avvenire)
Giovanni Ibello (Napoli, 1989) vive e lavora a Napoli. Nel
2017 pubblica il suo primo libro, Turbative Siderali (Terra d’Ulivi edizioni,
con una postfazione di Francesco Tomada). L’opera vince il “premio Città di
Como” (sez. opera prima), il "premio dell'Osservatorio letterario
permanente della Fondazione Lermontov" e risulta finalista al “Ponte di
Legno Poesia”, al “Città di Fiumicino” (come opera prima) e al “Camaiore
Proposta – Vittorio Grotti”. Il lavoro è stato recensito su diverse riviste
letterarie e lit-blog italiani. È direttore della rivista «Atelier» (sezione
online) e collabora con il blog di poesia della Rai di Luigia Sorrentino in
qualità di traduttore. Cura e seleziona i contenuti del canale instagram
"Rai Poesia". I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue tra
riviste, blog e volumi antologici di poeti italiani all’estero. Nel 2018 si
aggiudica il “premio Città di Fiumicino” per la sezione “opera inedita” con una
prima versione del poemetto “Dialoghi con Amin”. Una sua antologia poetica è
stata pubblicata in Russia per l'editore Igor Ulangin nella collana
"Contemporary italian poets" a cura di Paolo Galvagni (traduzione di
Tatiana Grauz). Nel gennaio 2021 inaugura
la rubrica di Milo De Angelis “I poeti di trent'anni” sulla rivista Poesia di
Crocetti.
Nessun commento:
Posta un commento