lunedì 30 dicembre 2019

Carol Guarascio e i suoi "Fiori scompagni in acqua cruda"


Le parole peregrinano nella mente dei poeti: così scrive Carol Guarascio a pagina 21 della sua raccolta "Fiori scompagni in acqua cruda". Mi piace iniziare così questo breve viaggio all'interno del mondo poetico di Carol, autrice residente a Campobasso ma di origine catanzarese; questa affermazione sibillina può infatti, a mio avviso, sintetizzare molto bene la linea poetica della nostra autrice, alla base della quale la parola si fa essa stessa peregrina (e aggiungerei pellegrina con una modesta allitterazione del termine) transitando e suscitando continuamente nella mente del poeta immagini sempre nuove, sempre diverse, sempre originali, da utilizzare e da restituire artisticamente al lettore. La creatività del poeta è tale da generare situazioni e immagini suggestive manipolando la materia a disposizione, nella fattispecie la parola, nel caso degli scrittori e, maggiormente, nel caso dei poeti. Lo scrittore crea una storia utilizzando una sequela di termini e di parole, ma un poeta riesce a creare un mondo, plausibile e verosimile, reale o immaginario che sia, partendo dalla sua pietra d'angolo, che è costituita appunto dalla parola: il suo "spessore", la sua amplificazione sono necessari perché si parli di parola "poetica".
Con questo, naturalmente, non si giustifica l'uso incontrollato della parola, supponendo che al poeta tutto sia permesso, e che ogni parola e verso e brano poetico possa liberamente essere scritto, in base ad un capriccio sconclusionato dell'autore! Ci sono tecniche, stili, forme, canoni da rispettare; ci sarebbe ancora molto da dire al riguardo, ma non in questa sede.
Quello che è certo, è che Carol Guarascio dimostra di saper percorrere, con padronanza della materia e con determinazione, l'erto sentiero poetico, manipolando le parole in modo aggraziato e scherzoso ma sempre interessante, riuscendo a spiazzare il lettore con figurazioni simboliche e levitazioni oltre i significati stessi e al di là dell'intero brano poetico. Un modo senz'altro originale di creare poesia, una poesia che fonda la sua essenza, come dicevamo, soprattutto sulla parola, e come attrezzi particolari in mano ad un abile prestigiatore, queste acquistano forza e impeto propri, trasformandosi di volta in volta in luci immagini suoni e significati diversi: "Divertimi, parola, / come un aneddoto / dopo una cena, / fuori da un locale, / mentre pestiamo / vita e sigarette / sul selciato." È quanto afferma anche Antonio Bux nella sua puntuale introduzione al libro, e cioè che, al di là dei contenuti e dei significati, la poesia, e in particolare la poesia di Carol Guarascio, è soprattutto commistione di senso, di suono, di immagini e di tensioni del pensiero. In effetti, leggendo attentamente i testi della nostra autrice, in questa sua pregevole raccolta, è evidente il risalto e la intima autonoma vitalità della parola poetica indipendentemente dal contesto descrittivo: espressioni come "fiori scompagni in acqua cruda", verso che costituisce anche il titolo, originalissimo, della raccolta, non può che avallare questa peculiarità della Guarascio poetessa; nell'esempio citato, il verso evoca immagini e sensazioni selvatiche, quasi primitive (acqua cruda), molto al di là di una essenzialità di scrittura poetica volta a sintetizzare il pensiero, il fatto descritto dall'intero brano (pag. 36).
Carol Guarascio, pur mantenendo integra la sua linea poetica fondata sulla parola e sul gioco delle parole nei versi, ha un dettato poetico variegato (una sezione comprende persino alcuni haiku) e brillante, sempre scorrevole e in grado di mantenere desto l'interesse emotivo del lettore.
Come è ormai nostra consuetudine, riportiamo dunque qui di seguito alcuni brani della nostra Autrice, tratti dal libro "Fiori scompagni in acqua cruda", attendendo dai nostri affezionati lettori qualche ulteriore gradito commento o riflessione in merito. E con questo, auguriamo a Carol Guarascio futuri e sempre meritati riconoscimenti, avendo riscontrato in questo suo recente e pregevole lavoro davvero una poesia di alto livello qualitativo.


I.

Il mio cuore
a zampe aperte
è un geco imobile
che misura lo spazio
e adatta i desideri
al vetro ruvido dell'aria
                         di luglio
scalzato
scomodato
batte i pollici sul muro

bulbi di tulipani respirano al buio

bisognerebbe cambiare cielo
traslocare su un terrazzo più soffice
potendo avere indietro i versi
dipanando ragnatele
consultare la banda dei pensieri
– nuvola di talco cucina a mano –
mentre il vento fa le fusa sulla mia pancia
e la chiave nella toppa mi dice qualcosa
                                                 di te

entri interrompendo
la lama luminosa
del pulviscolo

e mi porti l'estate.


***

VIII.

I gatti non piangono mai

(non dite sciocchezze)
togliete la crosta
alle parole

noi amanti
siamo sacerdoti
del disordine

intingiamo le sillabe
nei fiumi
del senso doppio

andiamo per bicchieri
con la lingua impastata
di ipotesi

i poeti mi vengono
all'orecchio
col cappotto macchiato
d'immaginazione
m'insegnano a fare
la pelle al destino

i poeti non piangono mai

(non dite sciocchezze)
con la crosta delle loro lacrime
si fanno le volte celesti.

(Testi tratti dalla sezione "Quoi de neuf")


***

III.

Voi portate anche i denti a quella festa
e gli unguenti, i sorrisi delle barbie,
i mozziconi di sigari spenti,

i monconi di parole giallognole
con le spore sempre aperte e puntute,
pelle acida e perdente di sali

state rotti, su basamenti alati
come fiori scompagnati in acqua cruda.

(Dalla sezione "Madrigali")


***

ZTL del cuore

Tutto è cambiato, ma non ti dirò
che i minuti sono morti di pioggia,
o le vigne sono rosse di terra
se mi piace l'arpeggio dei colli.
T'ho lasciato un bouquet di sogni
sul comodino
e la porta aperta d'una chiesa.


***

Lettera

Qualcuno ha morso la luna stasera
il vento ha dita di brezza
e l'evasione non ripaga il cuore
allora scrivo
di questo tempo in cui la storia non si scrive
la nostra dignità sta alla roulette
i valori sono sassi scomodi
su un lastricato di fandonie
facciamo bucati di certezze
mentre qualcuno ci insudicia i sogni
solerti silenziamo questeore
come se nulla possa accadere
e siamo bravi a sgomitare
a vendere teorie guaste
parole come vino
sbriciolando promesse
o lo stupro di poesie.

(Dalla sezione "Pelle e zucchero")


***

Waiting for

Senza occhi di corallo
né polpastrelli soffici

la lingua rassicura
invano
il morso furente

ho una bolla nel petto
digiuno

ho una scarpa slacciata
un respiro stupito
pochi soldi da dare al destino

ma so come si va
da quella parte
senza mani che tengano
i sogni e il filo

so di saper cercare
la criniera del cielo.

(Dalla sezione "Senz'ali")


***

Elettrica

Da sotto le coperte pesantissime,
ma soltanto al brillare nel pomello
di spiriti d'ottone e spiritelli,
sentivo tintinnare il portapranzo,
quello ovale d'acciaio di mio padre.
Era il fiore dell'alba ed io provavo
a superare il freddo del metallo
annusando il suo pasto quotidiano.
Quando sentivo un ronzare di phon,
s'incollava un solletico al mio sonno
che mi portavo addosso fino a scuola.
Mio padre si pettinava i capelli,
sulle spalle la mantellina rosa
di mia madre, con grazia, ogni mattina.
Spesso mio padre s'alzava di notte
e andava a premere qualche bottone
nella centrale bordata di querce
così tutti potevano dormire
tranquilli, ché la luce c'era sempre.

Esser ricchi di luce non è poco,
per chi vive da sempre d'astrazione.


(Dalla sezione "Il tempo dei pavoni")

Testi tratti dal libro "Fiori scompagni in acqua cruda", di Carol Guarascio, RPlibri, 2019. Collana di poesia "L'anello di Möbius" diretta da Antonio Bux. Introduzione di Antonio Bux.

Carol Guarascio è nata a Catanzaro nel 1976, risiede a Campobasso. Laureata in lettere classiche a Perugia, attualmente è docente di italiano e latino nei Licei. Ha pubblicato la raccolta di poesie Il cassetto dei foulard (Talos Edizioni, 2015) e il romanzo per le scuole Il diario di Sulpicia (Cosmo Iannone Editore, 2017).


domenica 22 dicembre 2019

Adam Vaccaro e la sua poesia "Tra Lampi e Corti"


Dove può collocarsi la poesia in quest'epoca caratterizzata prevalentemente dalle estremizzazioni in ogni comparto sociale? Dalle punte più squallide di un banale e piatto comportamento di fronte alle orripilanti vicende di guerre, naufragi, migrazioni, malversazioni, omicidi e femminicidi, alle punte più alte di storie esemplari, di abnegazioni, di sacrifici volti al raggiungimento del bene altrui, di santità e di promozione della pace e del benessere per tutti. L'uomo, si sa, è mezzo diavolo e mezzo santo, metà materia e metà spirito, se vogliamo, e in questi estremi conduce la sua vita e costruisce la sua storia. L'arte, e dunque anche la poesia, può toccare ambedue i vertici, l'uno in alto e l'altro, all'opposto, in basso, traducendone le peculiarità e riproponendole in modo creativo e armonioso.
La poesia dunque è, a prescindere dalla fonte di "ispirazione", che sia malvagia o benigna, a prescindere dalle storie fosche o mirabili dell'uomo: attua in sostanza una sublimazione delle cose, rendendosi indipendente pur parlandone e pur riferendosi ad esse, a volte direttamente, a volte allegoricamente. Lo spirito della poesia è tale che riesce a rivitalizzare e a illuminare le cose e l'uomo, indipendentemente dal loro stato e dalle loro azioni.
In questa prospettiva, il progetto poetico di Adam Vaccaro, nella sua recente raccolta "Tra Lampi e Corti", edita da Marco Saya, coglie benissimo, a mio avviso, la centralità e l'importanza del dire poetico, in un mondo frastornato, banalizzato, omologato, direi a volte nientificato, dai sistemi economici imperversanti e condizionanti. Si tratta di una raccolta complessa, ben articolata e organizzata, il cui titolo fa riferimento al mondo dell'arte fotografica (Lampi) e cinematografica (Corti, per dire cortometraggi), e nulla di più aderente ai suoi intenti poteva trovare l'Autore volendo alludere ai due principali filoni di cui si compone il libro, e cioè la parte prettamente poetica, dove il "lampo" è lo scatto fotografico di un aspetto del mondo o dell'uomo, visto e descritto hic et nunc così come appare, e una parte più descrittiva, narrabile, quasi come un "corto" cinematografico. Questo assetto della raccolta di Adam Vaccaro è bene descritto e dettagliato nella pregevole prefazione di Francesco Muzzioli, il quale afferma che "Tra lampi e corti" allude a diverse strade percorribili (nella lettura del testo), quale più puntuale con messa in evidenza istantanea e quale più narrativamente espansa a formulare brevi storie.
Ma in entrambi i casi, la poesia di Adam Vaccaro è una poesia consapevolmente alta, sia dal punto di vista stilistico, sia per i contenuti. Il nostro autore mette bene in risalto le sfumature di indifferenza, di superficialità e di banalità in cui sono invischiate le nostre esistenze quotidiane, i nostri comportamenti e persino i nostri linguaggi: una poesia di denuncia, quindi, o perlomeno anche una poesia di denuncia, come ad esempio in "Poesia di pietra", dove Vaccaro parla di una Milano (ma alludendo all'attuale società generalmente prolassata) distratta e insensibile.
La complessità del progetto poetico di Adam Vaccaro in questa raccolta si evidenzia nelle molteplici parti di cui è composta (Lampi, Tempi, Dediche, Radici di pace, Quadriglia gitana, Sapori di vino, Corti, Stranieri, Oratorio aquilano, Lezioni norvegesi), le quali tutte compongono un mosaico ben visibile delle varie tematiche umane e sociali, da cui Vaccaro ha tratto spunti per la sua pregevole scrittura, mostrando il lato debole di questa umanità ma anche squarci di luce, indulgenze e speranze.
Lo stile è personalissimo, originale, colto. C'è, nelle poesie della raccolta, un largo uso dell'enjambement che sorprende piacevolmente il lettore, ed inoltre è evidente la grande padronanza della tecnica poetica, di figure retoriche particolari come la paronomasia e di altri accorgimenti che rendono il testo squisitamente intrigante e accattivante, come è giusto che sia per una poesia che non debba limitarsi ad una semplice esposizione di sentimenti e di situazioni, prerogativa questa di gran parte del panorama poetico dilettantistico attuale.
Molto ancora ci sarebbe da dire sulla poesia di Adam Vaccaro e in particolare su questa ricca e interessante raccolta, ma lasciamo ai nostri affezionati lettori l'opportunità di aggiungere ulteriori riflessioni e commenti dopo aver letto i brani seguenti, tratti appunto da "Tra Lampi e Corti".


Poesia di pietra


Milano è poco più di niente, pensa
il distratto che corre con le cuffie
sulla sua capacità di sentire. Poi
senza più fiato si accascia
in questo slargo di sassi
con la montagna di guglie bianche
che lo guarda e qualcosa si accende
s'illumina anche in lui l'immagine
di una poesia di pietra
lanciata a meraviglia del cielo
alla sua plateale indifferenza

2 febbraio 2015


***

Improvviso

Camminando lungo queste strade larghe
O quasi cunicoli la polvere alla luce calante
Di questa sera lupa di un'umanità furfante

S'alzava e disegnava forme di un'utopia
Impossibile imprevista e resistente nella
Mente che non parla da sola ma ascolta

Cosa possono dire le stesse cose che ci
Appaiono inerti – polvere di morte che
Improvvisamente si alza e ritrova il volo

3 aprile 2016


*** 

Ventagli d'amore e d'inganno

Dicono che il vento si fa vento
per farsi canto senza parole
sapiente che sa già tutte le loro
accese illusioni che sanno cucciarsi
e farsi anima, prima sotto pelle e poi,
piano, fino al cuore, fino a farsi liquore
che scende scende e inventa altri suoni
con odori e lampi abbracciati a ferite
dolci e feroci, incancellabili.

Che riconoscerai anche se ti rapiranno l'anima,
per farne schiava in luoghi sconosciuti, mentre
ti racconteranno di un'altra libertà ornata di altre
parole d'incanto che ti diranno, tu sei nel massimo
sogno di essere oltre e altro, finalmente il vero te,
il re che hai sempre cercato in parole ignote
il più sconosciuto e tanto in alto e fuori di te
che ti sembrerà di volare come una foglia – completa
mentre preda di un vento alieno che fa di te il suo canto

Aprile 2014


***

I bottoni di Peppino

Non sapeva peppino quel mattino
presto di novembre – statua di pietra
sulla valigia – dove il treno e il destino
dal Sud avrebbero fatto un punto.
Sapeva solo il sapore di una polvere
che brillava ancora bianca nel cuore
e nei pugni colmi di bottoni abban
donati ai compagni di un gioco
con pietre piatte e mucchietti
di bottoni – bottini da conquistare e
mostrare – guarda! – e ricominciare

La domanda e il punto si sciolsero
in uno stanzone pieno di un'altra
polvere su scatole e cartoni pieni
di bottoni – mille occhi a Nord
di una fabbrica abbandonata

Carboni incendiarono il cuore di
peppino alla vista di quel paradiso
di tesori e bottini neppure sognati
mentre suo padre diceva – forza!
pulire e buttare – buttare e disfarsi
di quel mare di cento colori per fare
posto a letti tavolo e sedie mentre
gli occhi brillavano come madreperla
senza poter dire a nessuno – guarda! –
e ricominciare


***

Scale in me

Scale che abitano in me – Rivedo
Quella scala in penombra che sale
Verso volte di angosce costrette
E la scala in pietra inerpicata
Alla dimora d'origine con la sua
Scala di legno in cima puntata a

Quel basso sottotetto del cielo –
Regno di giostre di topinastri tra
Legnaie e altre claustre anse di tepore
Come le austere stanze dei nonni –
E poi poi scale ampie e scale strette
Delle cento aule da Bonefro a Fermo a

Milano, di rutilanti densi umori saperi
ancora ignoti – Scale vitali e scale a
Scendere in precipizi dell'anima
Così balbettante insieme ai tacchi
Su scalini immersi nel buio prima
Che in fondo una luce brillasse

Scendesse a illuminare i piedi
Ansiosi di risalire e farsi arpioni
Verso sogni d'umano e d'eros fino
Agli ultimi gradini prima della porta
Aperta dal tuo sorriso-promessa
Premessa di un'eco di paradiso

Maggio 2015


*** 

L'angelo ignoto

Due volte ignaro come in sogno volando
nell'improvviso aprendo un altro mondo

Ragazzi a squarciagola cantando
su salti catenacci e bici oscillanti
s'una striscia bianca – come pane
risate e sapor di farina – mi accolse
un manto d'incanto tra polvere e sassi
che incolume si fece e denso abbraccio

Poi quando ormai la fronte era più piena
ritrovai una chiara e soffice mano che
della lamiera d'un cofano fece volo e
mi spinse riverso su un nero asfalto
senz'anima e logoro di sogni eppure
quasi materno porto e misterioso

Non saprò mai la mano che mi accompagnò
in quei voli né potrò mai dirne la dolcezza

Luglio 2008


***

Mira a Milano

Ho alle spalle deserti e savane
che cantano in me col vento
che non sento più – tra urla e
fischi su queste strade altre
deserte di amore mentre corro
a infilarmi in questo tubo di ferro
cercando di ricordare le facce
impolverate e le vesti colorate che
non so se sono state cancellate
dal turbine che mi ha portato
fino a qua e mi strizza il cuore
come questo straccio che raccoglie
le mie lacrime invisibili per chi
sarà insieme a me domattina
di nuovo come ogni mattina
in cerca di una cosa – di un po'
di dignità di lavoro e pace

Giugno 2008

Testi tratti da "Tra Lampi e Corti", di Adam Vaccaro, Marco Saya Edizioni, Milano, 2019.
Prefazione di Francesco Muzzioli; postfazione di Eleonora Fiorani.


Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, La piuma e l'artiglio, Editoria&Spetatcolo, Roma 2006; Seeds, New York 2014, scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Ha realizzato inoltre pubblicazioni d'arte con Romolo Calciati e altri, con prefazioni di Dante Maffia, Eleonora Fiorani, Gio Ferri e Mario Lunetta. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali, siti e blog, con testi poetici e saggi critici. Per tale versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001. Ha avuto premi e riconoscimenti, tra cui il Premio Astrolabio del 2007, ed è stato tradotto in spagnolo e in inglese.
Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), dal 2000, Associazione con cui ha curato molte iniziative e pubblicazioni: Poesia in azione, Bunker Poetico, alla 49a Biennale d'Arte di Venezia 2001; "Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto", 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, 2005; Milano: Storia e Immaginazione, 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, 2012. Cura la Rivista online Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.



giovedì 14 novembre 2019

Raffaele Urraro e il "lato oscuro delle cose"


"…Ma conosceremo un giorno / il lato oscuro delle cose?", si chiede Raffaele Urraro nella poesia che apre la sua recente raccolta "Il lato oscuro delle cose", edita da RPlibri di Rita Pacilio. Sono gli ultimi due versi della poesia che costituiscono dunque il pilastro, il concetto assolutamente perentorio, urgente e nello stesso tempo immane, del pensiero filosofico dell'autore, di cui è pregno tutto il contenuto del libro. In effetti l'intento è davvero arduo, complesso e finanche avventuroso, sia dal punto di vista figurativo, che da quello del contenuto e della trama fortemente filosofica, se vogliamo, e questo intento è anche chiaramente esplicitato nell'introduzione dello stesso Urraro, quando afferma che le poesie raccolte in questa silloge ruotano tutte attorno a un concetto che riflette il senso più profondo che io attribuisco generalmente al fare poetico: il tentativo di scoprire il vero significato delle cose.
Il vero significato delle cose che ogni uomo di una certa sensibilità e capacità critica introspettiva, ha sempre cercato, fin dall'antichità, studiando, valutando, elucubrando sui misteri della natura e del mondo, costruendo sistemi filosofici e ipotizzando le teorie più svariate sul perché ultimo della vita e del cosmo. Le scienze, come la fisica, la matematica, la chimica, l'astronomia, hanno attraverso i secoli "sistemato" in qualche modo "il lato oscuro delle cose", risolvendone e chiarendone gli aspetti, le modalità e le reciproche interrelazioni, anche se tantissimi quesiti sono tuttora senza risposta: si tratta di un continuo e forse asintotico avvicinarsi alla verità ultima del cosmo, che probabilmente resterà irraggiungibile. Ma le risposte agli eterni interrogativi dell'uomo non fanno che "spostare" il senso profondo più in là, fino ad affermare con Urraro: "non abbiamo penetrato delle cose / il seme più interno / e inesplorabile": la verità ultima, il seme più interno, rimane inesorabilmente un traguardo irraggiungibile!
D'altra parte c'è il ripiegamento sull'ineffabilità, sulla spiritualità, sulla religione, sulla fede in qualcosa che sta al di là della nostra comprensione umana, della nostra razionalità e della nostra materialità. L'uomo primitivo si è sempre rifugiato in qualche modo in quegli ambiti per dare "un senso alle cose", all'esistenza, ai perché del creato. Quelle domande sono ancora attuali, e l'ambito religioso ancora le accoglie rispondendo all'uomo con i canoni della fede.
Ma qui si tratta di penetrare ancora di più nel seme interno, nel nocciolo delle cose, cercando di fare a meno quanto più è possibile della sicurezza offerta dalla fede o da una qualsiasi religione. L'uomo-Urraro non si accontenta delle risposte primarie date dalla scienza o anche dalla religione, considerandole quasi propedeutiche ad un fine escatologico ancora più misterioso, lontano, vago, confuso, indeterminato: "… e gira e gira (la stella) / fra le strade scorticate del cielo / fu attratta da un buco nero / che la travolse e ingoiò / come fosse una mela / e noi siamo fatti / della stessa sostanza delle stelle", cioè a dire: se l'annichilamento ci prenderà tutti, come se fossimo prima o poi inghiottiti da un buco nero, cosa ipotizzare della nostra esistenza effimera? del nostro senso di esistenza e del senso di tutte le cose?
Se lo scienziato o il religioso, attraverso le sue ricerche e la sua fede, trova comunque un senso nelle cose, o perlomeno cerca di "sistemare" il "suo" universo utilizzando i vari tasselli fisici, matematici e spirituali, fino a formare un quadro, un mosaico abbastanza completo, esaustivo e soddisfacente dell'esistenza, il poeta invece va oltre. Il poeta necessariamente, proprio in quanto poeta, deve andare oltre. O meglio, deve scendere in profondità o risalire le vertigini del creato, cercando di varcare se non proprio di scardinare gli usci dell'incomprensibile e dell'inconoscibile, in tutti gli ambiti: fisici, matematici, religiosi, e persino trascendentali. La parola è la sua arma principale, e Raffaele Urraro ben lo sa: "Si scava nel senso delle cose – afferma ancora nella sua puntualissima introduzione – o, per dir meglio, nelle cose per scoprirne il senso, armati soltanto dello strumento della parola, quella che in effetti ci fa vivere e soffrire…".
Dunque la poesia, la poesia fatta di parole appropriate a descrivere l'ineluttabilità, il rovello interiore, il dubbio, la speranza, l'amarezza, la disillusione che prende l'uomo ogniqualvolta si avvicina a dare un senso alle cose, a spiegarsi cos'è questa esistenza terrena, perché nasciamo e poi moriamo. Dice il poeta-Urraro: è la parola poetica che ci sostiene e che può legare "…l'anima a una stella, facendola vibrare come vibra un fiore…"; e "solo così una cosa può vivere / e morire / perché questo è alla fine / il magico potere della parola".
Il libro di Raffaele Urraro è importante e interessante, perché apre a dibattiti e approfondimenti ulteriori, di carattere filosofico ma anche scientifico e religioso, su quanto da millenni l'uomo, prima timidamente e poi sempre con maggiore determinazione, avendo conquistato gli strumenti adeguati, si è sempre chiesto: cosa siamo, da dove veniamo e dove andiamo? Ci sarà mai svelato questo senso oscuro delle cose e del creato? La conclusione che Raffaele Urraro ci propone è, apparentemente, quella di vivere cercando noi stessi di dare un senso alle cose, anche se le cose, spesso, un senso davvero non ce l'hanno! Altrimenti – dice sempre Urraro – vivere in un universo senza senso ci porterebbe diritti allo sconforto o alla depressione.
Ed ora proponiamo qui di seguito alcuni testi tratti da "Il lato oscuro delle cose", invitando i nostri lettori ad aggiungere ulteriori graditi e interessanti commenti o riflessioni in proposito.



Il lato oscuro delle cose

Mentre ascolto una musica
coperta lievemente da veli variopinti
sento che la mente si accartoccia
nelle sue emozioni

anche l'aria che sembra stonata
nello stormire delle foglie
vibra di incerte tensioni
ed io cerco di scoprire
cosa dice quella voce
che parla la lingua
indecifrabile e arcana
della natura

ma conosceremo un giorno
il lato oscuro delle cose?


***

L'onda del mare

Ritrae l'onda stanca la sua lingua
dalla riva in attesa

chissà da dove viene
chissà dove ritorna
in quell'andare sconvolgente e inquieto

poi l'onda si alza e se ne va
per le immense praterie del mare
senza neanche sapere
se ti ha lambito la mano

e ti lascia lì
chiuso nel tuo silenzio
dubbioso e confuso
mentre guardi con l'occhio socchiuso
l'orizzonte lontano che confonde


*** 

Il dramma della clessidra

L'abisso è un imbuto e ha la forma
della parte superiore della clessidra
quella da dove scendono
i granelli del tempo e ciò che resta
delle nostre illusioni e attese

mentre la parte inferiore
accoglie le scorie
e le nientifica come neve al sole

e nell'abisso cadranno anche le stelle
quando finirà la sua forza
il moto che le spinge e tira


***

Il tempo del trapasso

Cosa muore quando un uomo
saluta e se ne va
o se ne va senza neanche salutare
perché non ha la forza o il tempo
di guardare al futuro
né al presente?

se ne va portando nell'ombra che l'involge
un sogno che svanisce
o il senso annullato delle cose

ma forse davvero il tempo del trapasso
è un attimo
un attimo che arriva sempre in anticipo
e lascia nell'aria
un senso di sospensione che stordisce


***

Il senso della vita

Come le stelle deflagrano
e polvere e luce disperdono
nello spazio vuoto
così partiremo da questo luogo
verso un orizzonte che sa
di buio e di nulla

non ci resta che dare un senso
a questo segmento di vita
che s'accorcia giorno per giorno
ora per ora
momento per momento

io ci riesco
perciò non ho paura
né timore
di contare le stelle
ogni sera


***

Il poeta
(Ad Arthur Rimbaud)

Una volta dicevo
"mai un poeta
  riuscirà a dire
  quanto è grande il mondo"

ora dico
"mai il mondo
  riuscirà a ripetere
  ciò che ha visto un poeta"

Il terzo occhio
sprofonda nei punti più lontani delle cose
navigando finanche
nelle oscure profondità del buio


***

Chi lo sa?

Alla fin dei conti
nessuno può dire
di essere penetrato
nelle oscure profondità
delle cose della vita

abitiamo per anni
nella casa della nostra esistenza
o
come dice il filosofo
nella casa dell'essere
e quando con la valigia pronta
piena di certezze
partiamo diretti al solo
vero infinito che conosco
allora cade il velo dalla nostra mente
e il tutto ci disvela
: non abbiamo penetrato delle cose
  il seme più interno
  e inesplorabile

chi sa dire perché e come
all'improvviso
parte il destino incomprensibile di un seme?

Raffaele Urraro, "Il lato oscuro delle cose", RPlibri

Raffaele Urraro è nato a San Giuseppe Vesuviano (Napoli), dove tuttora vive ed opera. È poeta, scrittore, saggista, critico letterario. Dopo aver insegnato italiano e latino nei Licei, ora si dedica esclusivamente al lavoro letterario.
Ha pubblicato numerosi libri di poesia, tra i quali, ultimamente, Ero il ragazzo scalzo nel cortile, Marcus Edizioni, Napoli 2011; La parola incolpevole, Marcus Edizioni, Napoli 2014; Bereshit – In principio, Marcus Edizioni, Napoli, 2017.
Tra le pubblicazioni di saggistica ricordiamo La fabbrica della parola – Studi di poetologia, Manni Editore, 2011; Giacomo Leopardi: le donne, gli amori, Olschki Editore, Firenze, 2008; Questa maledetta vita – Il romanzo autobiografico di Giacomo Leopardi, Olschki Editore, Firenze, 2015; Le forme della poesia – Saggi critici, La Vita felice, Milano, 2015.

Ha pubblicato inoltre opere di cultura popolare e, in collaborazione con Giuseppe Casillo, molte antologie di classici latini per il triennio delle Scuole Superiori (Loffredo, Napoli) e la Storia della Letteratura Latina (Bulgarini, Firenze).


sabato 2 novembre 2019

La schiettezza del dire poetico in "La venatura della viola" di Rita Pacilio


La viola, o la classica violetta, è (o almeno lo fu!) il fiore simbolo del ricordo, del pensiero nostalgico di un amore vissuto intensamente e a volte platonicamente nei tempi andati della gioventù: veniva messo tra le pagine di un diario o di un libro, e lasciato lì ad appassire a testimonianza di quel sentimento forte e palpitante che aveva illuminato quei giorni lontani e ora sciupato dal fluire inesorabile del tempo!
E dunque, cosa spinge la nostra brava autrice de La venatura della viola a riferirsi, in questa sua recente e pregevole raccolta poetica, al tradizionale fiore che ha emozionato tanti giovani, e non solo, nel ripercorrere le loro storie sentimentali? Senza dubbio la delicatezza, a mio parere, e poi la genuinità, l'autenticità e aggiungerei la purezza e l'innocenza che caratterizzano l'essenza della natura, dei fiori e in particolare della viola.
Un progetto poetico che voglia essere originale, che abbia delle buone, anzi ottime basi filosofiche per offrire una chiave di lettura importante e preziosa sui perché della società, della storia, dell'umanità, della propria esistenza, non può prescindere da un'attenta osservazione dell'interno di sé e di ciò che è all'esterno tutt'intorno; ma un'osservazione che deve essere supportata non solo dalla propria sensibilità e dalla propria inclinazione artistica e creativa, bensì anche dalla lunga formazione, studio pertinace, ricerca, confronto, approfondimento ed esperienza che donano alla creazione artistica, e nella fattispecie alla produzione poetica, quel valore e quella valenza, quello spessore qualitativo che sempre devono connotare l'opera, altrimenti da relegare nel vasto mare delle cose meramente graziose, ma piatte, retoriche, ovvie e senza alcuna illuminata novità!
Tutta questa lunga parentesi, per confermare, in questa recente pubblicazione di Rita Pacilio, come del resto anche nelle sue precedenti, quell'impronta di grande valore letterario e poetico che permea tutta la sua raccolta. Perché è importante il dire, in poesia, ma è ancora più importante come lo si dice, la forma espressiva che sia propria, unica, originale, e che solleciti e coinvolga il lettore. Come deve esserlo una vera e propria opera d'arte. E c'è tutto questo nelle opere d'arte letterarie di Rita Pacilio, la quale senza dubbio si discosta e si innalza rispetto ad un mondo ormai vasto di scritture poetiche certamente encomiabili per l'intenzione e lo sforzo creativo, ma sovente scarsamente valide per il messaggio innovativo, per la capacità di interessare il lettore e per la appena sufficiente qualità letteraria dell'intera raccolta.
Orbene, l'intuizione poetica di Rita Pacilio, specie in questa sua opera, è illuminata e supportata da un dire immediato, schietto, da un riferirsi costante alle cose di tutti i giorni, ai sentimenti e alle relazioni nella famiglia e nella società. Da attenta osservatrice, anche delle minime cose, come dicevamo prima, Rita Pacilio affronta la denuncia delle malvagità e delle ingiustizie in tutti gli ambiti, dal sociale al familiare e poi anche nella storia del mondo, in una natura graffiata e offesa dall'operato di un uomo indifferente ed egoista. Ma è importante il dirlo con efficacia e con stile, specie in poesia, e quindi con un lessico potente nella sua chiarezza, coinvolgente nella sua capacità di giungere e di "suonare" direttamente nell'animo del lettore. Del resto la stessa autrice, nella sua Lettera al lettore, con la quale introduce la raccolta, afferma di maneggiare la parola poetica adatta a trovare la strada possibile da percorrere quando non ci si arrende all'incuria, all'abbandono, all'assenza, alla miseria umana.
La delicatezza, la chiarezza e l'innocenza della viola, della sua venatura, sono in fondo il simbolo dell'altra realtà, quella sognata e desiderata, quella che ci si illude che esista, oltre l'oscurità di questo mondo, provocata sovente da un uomo e da una società infingarda e bugiarda. Che la Poesia, e in particolare quella di Rita Pacilio, svolga il compito (come del resto la Cultura in genere) di mostrare il vero volto, la vera anima della natura e dell'uomo, è una delle poche cose sacre che ci redime e ci innalza. Così la poesia di Rita Pacilio, nella venatura della viola, trova la strada giusta ed efficace nel mostrare che esiste una possibilità di elevazione dalla confusione e dall'anarchia sentimentale dell'uomo, traendo spunto proprio dalla genuinità della natura, della quale la viola ne è forte e indovinato simbolo. Tutti i suoi testi poetici, nella raccolta, individuano, in modo continuo ma anche singolarmente, questo percorso-denuncia inteso ad infondere maggior consapevolezza nel cuore e nell'anima dell'uomo-lettore. All'incipit, costituito dal primo verso in corsivo, a mo' di titolo, non sussegue il consueto intervallo di righi bianchi ma direttamente il corpo della poesia: Rita Pacilio non vuole disperdersi e non vuole disperdere, ha urgenza di dire, delicatamente ma con fermezza, e con un dettato poetico elevatissimo, la sua visione complessiva delle cose e dell'uomo; ed è questa un'intuizione magnifica che ancora una volta denota la grande esperienza e la profonda conoscenza delle varie forme e stili poetici da parte della nostra Autrice.
Avranno modo di confermare quanto detto, i nostri amici lettori, e di aggiungere altre gradite riflessioni e commenti, leggendo i brani proposti qui di seguito, tratti da "La venatura della viola", di Rita Pacilio, Giuliano Ladolfi Editore.




A un tiro di fune…

Questo istante indimostrato è un punto
smosso dai nostri piedi soldati
ordinati come soprammobili bianco grigio
e tempesta.
Non giubila il frullatore
né il timbro compiuto dell'acqua nel bicchiere.
Al valzer di guerra sulle statuine
fa da sottofondo la polvere.
Lingue rinserrate tra i quadretti del foglio
obbediscono ai ghirigori
per questo motivo giuriamo di traboccare
nello sforzo mantenendo la solita postura
il collo inclinato
i sospiri dietro il naso che tira su
gli occhi voltati.


***

Il mondo è un corpo devastato
ha l'erba secca per il troppo pianto
è steso di fianco senza parole in bocca
alle dita manca il segno della pace,
si avverte il lamento del lupo in agonia
la neve permanente morire piano, piano.
Qualcuno dice non puoi farci niente
rassegnati al timbro del frastuono,
allora coglierò tutte le viole
le terrò insieme come faceva nonna
adornerò capelli scombinati
e
abbandonata alla saggezza del necessario
sarò povera delle solite cose.


***

Quando mi avrai perdonata
tornerà il pensiero alle violette
tutte insieme pronunceranno
il mio nome perfetto ad alta voce.
Ci apparirà intatto il muschio sulla porta,
il voto fatto a vent'anni,
i figli neonati nella culla.
Impareremo a parlarci di più
a dire sognami ancora.
Ci toglieremo le scarpe e il disappunto.
La contentezza griderà:
dammi un pegno, dammi un pegno.


***

Devi farti sottile per rimanere
effettiva presenza, erba primaverile
in questa fitta foresta dell'autunno.
Cancellare la replica dei baci
ogni euforia e partire per altri
continenti. Così perdonerei la qualità
dell'ignoto, la reggenza traballante
rubata alla candela profumata
poggiata tra il mondo e i suoi significati
ringraziare le venature della viola
in attesa di sbrindellare l'amaro del viaggio.
Devi prendere in prestito la parola dell'addio
sottoscrivere la paura che il mare ha un altro cielo
e poi
rimanere l'alone dell'abito steso al sole
una vaga macchia e basta.


*** 

Quella venatura della viola
è già compiuta nella tonalità
il batticuore che guarda in alto
guizzo estremo e gentile
senza disperazione.
Sapevamo di essere sorretti
dal mutismo delle cose
per questo è possibile dilatare la retina
abbandonarci alle strisce della penombra
sperare di non cadere presto.


*** 

Una viola rafferma in forma spettrale
distante dalla terra fiorita
mi ha confessato il modo per resistere
il suo spirito ha una coscienza quieta
intenta a trasformarsi chissà come
per il piacere di essere stata vista
questo ringraziare perdura
e in attesa di parlare con te
la tengo in mano fino alla prossima neve.


***

Qualcosa di troppo accresce
l'orgoglio e la colpa di essere nati qui
in questo garbuglio di allarmi profondi
dove porti in rovina e chiusi come porte
rendono l'acqua inutile e il tramonto povero
se esistesse l'origine di una parola
dovremmo baciare la sabbia e le conchiglie
farlo in segreto, silenziosamente
tracciare una virgola dopo l'apparenza
allargarci sul gambo come fa la viola.


Rita PacilioLa venatura della viola, Giuliano Ladolfi Editore, 2019

Rita Pacilio è nata a Benevento, vive a San Giorgio del Sannio (Bn). Poetessa, scrittrice, collaboratrice editoriale, sociologa, mediatrice familiare, si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro, di letteratura per l'infanzia e di vocal jazz. Curatrice di lavori antologici, editing, lettura/valutazione di testi poetici e brevi saggi, dirige per La Vita Felice la selezione Opera prima. Direttrice del Marchio Editoriale RPlibri, è presidente dell'Associazione Arte e Saperi. Ha ideato e coordina il Festival della Poesia nella Cortesia di San Giorgio del Sannio.

Autrice di numerosissime pubblicazioni, tra le quali, recentemente, le raccolte poetiche Quel grido raggrumato (La Vita Felice, 2014), Il suono per obbedienza – poesie sul jazz (Marco Saya, 2015), e Prima di andare (La Vita Felice, 2016); e per la narrativa: Non camminare scalzo (Edilet Edilazio Letteraria, 2011), mentre La principessa con i baffi (Scuderi Edizioni, 2015) è la sua fiaba per bambini.
È stata tradotta in greco, in romeno, in francese, in arabo, in inglese, in spagnolo, in catalano, in georgiano, in napoletano.
A marzo 2018 la pubblicazione dei racconti in prosa poetica: L'amore casomai (La Vita Felice).


martedì 1 ottobre 2019

L'immediatezza poetica di Francesca Coppola in "Non togliermi il vestito"


Se il titolo di una raccolta di poesie deve dare subito l'idea di quanto l'autore intenda comunicare, ma in modo immediato e singolare, questo "Non togliermi il vestito", della giovane poetessa napoletana Francesca Coppola, supera senz'altro ogni aspettativa, spiazzando ma anche incuriosendo il lettore che voglia, finalmente, gustare e approfondire un po' di buona poesia al di fuori degli usuali schemi classici. LietoColle è peraltro un Editore serio, che accoglie nelle sue varie collane, in particolar modo la "gialla" e la "gialla oro", autori di spicco dell'attuale panorama poetico italiano, dando visibilità anche a giovani emergenti come lo è, appunto, la nostra Francesca Coppola.
Ma torniamo al libro. Il titolo, audace ed esplicativo, come dicevamo prima vuole già fornirci una buona chiave di lettura. che si concentra essenzialmente nel testo omonimo "Non togliermi il vestito".  Traspare, in questa composizione ma anche in molte altre, un senso di riscossa, conseguente ad una visione amara della realtà, supportata però da una buona dose di ironia. L'autrice vuole mantenere la sua identità integra, di fronte alla quotidianità e alla storia della vita che si dipana tra mille impegni e incombenze, a volte anche futili; e questa visione si evidenzia anche attraverso un linguaggio espositivo minimalista, che sta ad indicare, da parte della nostra brava autrice, la volontà di quella "riscossa", di quella riconquista della dignità e della persona, insita nei suoi versi.
Una consapevolezza del dolore del mondo che può mitigarsi solo attraverso l'accettazione stoica delle parti assegnati a ciascuno nel teatro della vita: l'osservazione attenta, stando "fermi al centro" delle cose, quasi indifferenti a ciò che accade fuori, conservando e proteggendo l'integrità intima, il proprio bene, il proprio "tesoro dei Maya", per poter poi "risorgere", sbloccarsi e ripartire, aprirsi indenni al cielo. Questo, il nocciolo del discorso poetico di Francesca Coppola, a mio avviso; uno schema poetico ben preciso, delineato sull'attesa dell'essenzialità, in cui il "vestito" da non togliere rappresenta quell'integrità della persona, anima e cuore, capace di intravedere il vero senso della vita oltre la banalità delle cose, minime e abitudinarie, che ci appesantiscono.
Un elemento importante della poesia di Francesca Coppola, almeno in questa sua raccolta, è l'uso sapiente delle parole in un gioco fantasmagorico di suoni e di interconnessioni, di salti e di rimandi davvero arditi, a volte, e che contribuiscono a vivificare l'immagine che scaturisce forte dalla lettura dei versi. Versi che si susseguono per lo più in quartine sfalsate tra di loro, il che rende la composizione ancor più elegante e gradevole dal punto di vista figurativo ed estetico.
Francesca Coppola dimostra con questa sua opera di avere un ottimo talento poetico, distinguendosi per il suo stile e per il suo dettato poetico dai toni decisi e sorprendenti: una poesia che coinvolge e che induce ad ulteriori riflessioni. Riflessioni ed eventuali commenti che ci aspettiamo, ancora una volta, dai nostri cari lettori dopo aver letto i testi che qui di seguito proponiamo.


Fermi al centro


il centro è dolore, arteria
poi niente, bufala e squallore
questo eleggersi smeraldo a fine giornata

tutto qui, il tesoro dei Maya
dire “Ciao” al solito passante
destinare l’immenso ai fiori

risorgerai, lo so
proprio dalle mie parti
– volevo le tue paure –

ti faccio vedere come muore
un airone,
tu come stai?


*** 

In nome di un’assenza

metti un giorno senza l’ombra
tutto afa e genziana
senza i lasciti a mani di sera

e una macchia poi alla mattina
di quante scatole ferme a marcire
e i sorrisi aspettano ancora di sapere

se i mari hanno bisbigliato promesse
e se tu hai preferito scambiare le carte
bello stringere assi e sentirsi invincibile

poi ritirarsi come statua a piangere
aver più di vent’anni e scordarsi
di srotolare le maniche


***

Non togliermi il vestito

avrei voluto solo vivere un po’ di più
ieri in giardino, dietro una formica stesa al sole
godermi la terra delle isole vergini
e non girare splendidi asfalti lastricati di code chiuse

avrei scelto l’inquadratura migliore
se solo avessi potuto evitare il faro in stand by

scoprire i monti e per una volta non ostacolarli

capire le altitudini per le diverse generazioni
e non scrivere l’imbarazzo, pentirsi del risveglio

Il folle vira sempre ad est
l’I–phone come identità speculare
il grazie in tutta fretta
e non mi guardare, ti prego


*** 

Vita

quante volte lì ad ispirarmi ai tuoi occhi
quel colore che neanche miscelando
il segreto dei goblin puoi respirare

io l’ho promesso sai quando ancora
nel grembo materno ho voluto fiducia
come la più testarda delle vittorie

mentre soffocavo quel desiderio
spostavo il limite: tua sorella/tua amica
indossavo le scarpe basse per non dolere i tempi

e un peso sul davanti – sipario aperto
di burattini – io e il camicione, tu
col pianto dell’attesa, pronto a esplodere vita


***

E perché nella parola odio, compare dio nel finale?

mi sorprese più d’una mano che sfiora l’oblio
un tuffo nei viadotti più ripidi
la sensazione di scuotere la marmaglia
e costringere le redini al mio cospetto

perché l’odio conosce prima l’amore?
poi si accuccia stretto fra i seni

odio che non è amore, ma compare dio nel finale
come attore non protagonista e pare
un’invocazione a non lasciarsi trasportare
da un fiume che ha il sapore di una madre


 ***

Come poesia

sa aprire bocche senza riuscire mai
a riempirle, lei che spia gli ingressi
conta gli aghi riposti male nel cassetto
mi prende in contropiede anche quando
non ho voglia di uscire

lei non indossa l’abito lucido e rifugge
lo scorrere implacabile, si aggira nuda
in una stanza vuota e dietro l’armadio
l’ennesima speranza non accetta il muro

solo lei mi disprezza ma ritorna
non si convince e straripa in rabbia
mi ragiona sul comò – senza propositi –
insolita storia di rulli ed emozioni,
lei che non esiste se non in un manto di dolori


***

Qualcuno diceva

qualcuno diceva che è
il dolore
a dirci che siamo reali

la felicità è un gioco
talmente imprevedibile da assomigliare
di più ad una visione

il nervoso/ansia/impazienza
ci sosta su un confine
posto da messaggeri e demoni

è che la tristezza mi punge
da vivo
– non può farlo da morto –

Testi poetici tratti dal libro "Non togliermi il vestito", di Francesca Coppola, LietoColle, 2017

Francesca Coppola è nata a San Giorgio a Cremano nel 1982. Si è laureata in Cultura e amministrazione dei beni culturali alla Federico II di Napoli, città nella quale ora risiede.
La sua opera prima è Non togliermi il vestito, raccolta di poesie edita da LietoColle, 2017.
Ha vinto il concorso Pensare scrivere amare nel 2017.  Nello stesso anno è stata inserita, in qualità di finalista del concorso nazionale di poesia ermetica, nella ambiziosa agenda Nuovi poeti ermetici 2017, Book Sprint edizioni. È stata selezionata in diverse edizioni del poetico diario Il Segreto delle Fragole. È stata inoltre segnalata al Premio Internazionale di poesia Piero Alinari nel 2011 e, nello stesso anno, al Concorso nazionale di poesia Città di Sant’Anastasia. Suoi testi sono stati pubblicati sulla rivista Italian Poetry Review e numerose sono le sue partecipazioni in antologie letterarie di prestigio. Ha fatto parte della redazione dei Giovin/astri di Kolibris.
In uscita per Esemble la sua seconda raccolta poetica, Ultimatum dall’inverno.





martedì 24 settembre 2019

Federica Giordano: "La luna è un osso secco"


Con grande piacere riproponiamo i versi recenti di una giovane poetessa napoletana che ha sicuramente raggiunto vette molto alte in questo spigoloso ambito letterario, distinguendosi per la sua determinazione, per i suoi studi, per le sue puntuali traduzioni dal tedesco, e per la sua particolare e originale fisionomia poetica. Parliamo di Federica Giordano, della quale alcune sue poesie furono già pubblicate su questo Blog nel lontano 2012, quando lei era ancora agli inizi ma già il suo timbro poetico si annunciava forte e deciso, e il suo impegno letterario intenso e proficuo (http://transitipoetici.blogspot.com/2012/07/musica-e-poesia-nei-versi-di-federica.html).
La luna è un osso secco: già il titolo di questa sua recente raccolta, edita da Marco Saya, Editore che non ci stancheremo mai di elogiare per la sua alta professionalità e competenza nelle scelte degli autori, dà un'idea della notevole capacità di Federica nel riassumere, in modo laconico e allusivo, come è giusto che indichi un buon titolo, il suo programma, il suo intendimento poetico: giacché una buona raccolta di versi non è mai composta a caso, prendendo corpi poetici qua e là, disseminati sulla scrivania e anche nel tempo, bensì deve avere il classico filo conduttore, quel quid che possa alla fine lasciare il lettore soddisfatto per aver appreso, tramite tutto il libro e non attraverso una sola semplice poesia, un senso compiuto, una costruzione, un'idea, anche filosofica, che possa fare propria, che possa condividere e che possa suscitargli qualche emozione intensa. Altrimenti il libro, la poesia, resterebbe opaco, asciutto, limitato.
Orbene, cosa fa risaltare questo titolo, quale sentiero, o strada, o viaggio, o idea, vuole proporci Federica donandoci queste poesie, in modo più o meno palese, o piuttosto in modo più o meno obliquo, se non sotterraneo?... La poesia, forse, non è da tutti e non è per tutti: se i versi fossero chiari, propositivi, aperti, resterebbe solo il gusto di una mera emozione; ma la poesia, la vera poesia, è scavo senza fondo, è ricerca senza risposte, è viaggio senza ritorno: bisogna farsi accompagnare dal poeta senza remore, senza se e senza ma, abbandonarsi allo spessore delle sue parole, ascoltare bene il suo silenzio, ascoltare quello che c'è dietro, sotto e sopra la sua costruzione poetica. La poesia non è per tutti. Federica Giordano lo sa, ne è consapevole, e per questo la sua grande intuizione produce l'effetto desiderato. Vediamo di ricavarne qualche minima indicazione, qualche piccolo dettaglio.
C'è un qualcosa che allude all'uomo, alla società, che si perde irrimediabilmente nella sua mera fisicità, materialità, se non addirittura nella sua malvagità, nei versi di questa raccolta. L'essenzialità, direi la "secchezza" delle cose, del mondo, mette a nudo l'"osso" del creato, deturpato e spogliato da ogni velleità di amore, di comprensione e di pietà: "L'innocenza non viene riconosciuta – asserisce Federica a pag. 30 – / Sulla testa la luna è un osso secco. / Gli astri bruciano da noi / sempre più lontani". Non è rassegnazione, non è distacco né lontananza, il canto poetico di Federica, bensì il severo osservare in profondità lo stato delle cose e della società odierna, scrutandole fino in fondo con la sua grande sensibilità, e la poesia, la sua poesia, diventa strumento efficace di descrizione, parola icastica capace di suscitare in tutti noi la realtà di un mondo disgregato, asciutto, secco, ma pur sempre aperto alla luce della speranza, specialmente quando la nostra poetessa si rivolge agli affetti amicali e familiari: "Ben oltre te e me, / più lontana dal nostro sangue, / sta alta come un faro, / la quiete della stella fissa" (pag. 29). E ancora: "Tutto ciò che vorrei dire è in quello strappo. / Ci si arriva all'improvviso, uno spazio ebbro. / Sai che dovrò morire e tu potrai guardarmi. / Ti si anticipa nel fiato d'infante il petto di madre / e io mi sento tanto consolata…" ("L'abbraccio della figlia", pag. 18).
Del resto anche Mario Fresa, nella sua attenta e dettagliata postfazione, ritrova nella poesia di Federica Giordano un impeto incontenibile a tenere insieme le forze dell'esaltazione e della perdita… dell'accumulazione e della deflagrazione: si tratta della consapevolezza, da parte della nostra brava autrice, di vivere in un continuo stato di precarietà, di pericoloso equilibrio, dove sovente è probabile la "caduta" e la "perdita" nel gran mare omologante che tutto vanifica e rende indifferente, frustrante, fino all'osso, fino alla consumazione del tempo: "Il tempo è un volto che invecchia, / mai interrompendo il lavoro. / Deformandosi, si allontana anni luce / dalla prima sua fattezza…" (pag. 14). Ma ecco, nel contempo, la speranza: "La ruga corre profonda nella carne del mondo. / Il tempo nelle mani dei poeti sgorga a fiotti da quel solco. / Siamo qui, accucciati in una valva, / cercando la curvatura magica / che dà i natali al cerchio" (pag. 26).
Anche Vanina Zaccaria, nella sua interessante nota in appendice, individua nei versi della Giordano una sorta di equilibrio nel conflitto insanabile degli opposti… un equilibrio che non è armonia ma coscienza esatta delle meccaniche che pervadono lo spazio-mondo…; dice infatti ancora la Giordano: "Mentre noi abitiamo le nostre gabbie quotidiane, / prepotente l'esistenza fa una rivoluzione: / continua ad essere dov'è…" (pag 9).
Poesie dunque che si susseguono interlacciate una all'altra, a dire le cose mostrando i diversi reconditi risvolti di quest'equilibrio precario e ineludibile: giacché la vita e il tempo del nostro mondo hanno perso spessore e lucentezza; sono diventati "ossi secchi".
Proponiamo qui di seguito alcune poesie tratte dal libro di Federica Giordano, affinché i nostri cari lettori possano aggiungere, se lo vorranno, altre interessanti e gradite riflessioni.


1


Gli oceani intonano distanze sopra il fuoco
e le lontananze asiatiche cambiano la mente.
Gli uomini camminano, si parlano, si annientano:
un animale deforme con milioni di teste
che fa confusione e che sporca e che si fustiga da solo.
Invece nel verso dell'orso polare resta una pietà
dopo che ha macchiato di un sacrificio rosso
la santità del ghiaccio.


6

Mentre guardo il nostro porto,
col monte che custodisce una paura antica,
su noi tutti aleggia un colosso
assente e osservatore.

Gli dimostriamo esaltati
che l'uomo è capace di ogni cosa.
Quando lo attacchiamo, una bestia in noi ride.

Intanto in Irpinia, sotto una felce,
si ripara la spora dal moscerino,
innocua navicella da guerra.


8

Il tempo è un volto che invecchia,
mai interrompendo il lavoro.
Deformandosi, si allontana anni luce
dalla prima sua fattezza.
Infinitamente si allontana
ma conserva un appiglio di costanza,
qualcosa che lo rende riconoscibile e fido,
un'illusione di comprensione
e di anticipo sul futuro.
Ma repentinamente, quel volto riserva espressioni
che non si lasciavano presagire
e amaramente l'uomo, senza merito e tardi,
le comprende.
La maschera del vecchio
era già piazzata sul bambino
come un accampamento che attende.


13

Il sonno dei figli è un'apnea,
una resurrezione momentanea di chi si era.
Per poco il cumulonembo annidato sulla fronte
come in una valle bassa
si dirada
e la vista si riammala di quella cecità tanto adatta a vivere.
I giorni erano stati, una volta, leggeri come aquiloni.
Si torna indietro e sembra di riavere quella dote misteriosa
che è solo il poco tempo, il non aver fatto della carne
materia da banchetto, non aver premuto fuori una creatura
come un precisissimo macchinario.
Chi si era resta lì a guardarci da un punto
sempre più lontano, dallo spioncino chiuso degli occhi
dei figli quando dormono.


17

Mi chiedo dove finisca il silenzio
che mi regna in casa quando taccio.
Dove sia il suo perimetro e dove
le sue porte.
Provando ad abitare casa nostra,
noi, i grandi assenti,
viviamo di lacerti e dei richiami
indecifrabili delle nostre cose.
La tenda esibisce un'immobilità di marmo.


24

L'innocenza non viene riconosciuta.
Sulla testa la luna è un osso secco.
Gli astri bruciano da noi
sempre più lontani.


32

La parola perfetta è il canto del gallo
a dire che il giorno
è il torso della mela che non mangiammo.
La voce lancinante che proviene dagli ovili
solo i morti la intendono.


Testi poetici tratti da "La luna è un osso secco", di Federica Giordano, Marco Saya Edizioni; nota di Vanina Zaccaria, postfazione di Mario Fresa.


Federica Giordano è nata a Napoli nel 1989. Si è laureata con 110 e lode in letteratura tedesca.

Ha curato per la nota rivista Poesia un servizio sulla raccolta "Porcellana – Poema sulla distruzione della mia città" di Durs Grünbein, con un'ampia sezione di testi in traduzione.
Ha curato la sottotitolazione dei lungometraggi di Cynthia Baett: "Cycling the frame" e "The invisible frame", presentati nell'ambito delle rassegne cinematografiche del Goethe Institut di Napoli.
Una selezione di sue poesie inedite è stata pubblicata nel numero di novembre 2016 di Poesia.
Si occupa di critica letteraria e collabora a varie riviste italiane tra le quali Nuovi Argomenti e Poesia di Crocetti.
Dal 2019 è tra i collaboratori del blog di poesia della RAI, sul sito di Rainews curato da Luigia Sorrentino.
La sua raccolta di poesie "Utopia Fuggiasca" (Marco Saya Editore, 2016), ha vinto il Premio italo-russo "Bella Achmadulina"  (2017), sezione "Tonino Guerra", il Premio "L'Iguana" (2017) ed inoltre il premio speciale alla XV edizione 2017 del Premio Nazionale di Poesia "Città di Sant'Anastasia". Ha ricevuto inoltre la menzione di merito al Premio Lorenzo Montano e la menzione speciale al Premio Frascati.
La silloge inedita "Una Suite dell'Innocenza" è stata pubblicata sulla rivista Gradiva nr. 53 con un commento critico di Mario Fresa.


Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà