lunedì 8 dicembre 2025

La terminologia informatica in "Reboot del sentire" di Giulia Catricalà

Siamo in un’era dominata prevalentemente dalla tecnologia, in particolare da quella inerente alle comunicazioni, con l’uso ormai indispensabile di personal computer, di telefoni cellulari e di altri dispositivi similari. Tutto ciò influisce sulla nostra vita quotidiana e in particolare sulle nostre usanze, sulle nostre modalità di comportamento e persino di linguaggio.
È perciò quasi ovvio aspettarsi che anche il mondo dell’arte, della letteratura e quindi anche della poesia, possa adeguarsi a questo mondo così vivace, veloce, sbrigativo e di conseguenza forse (ma toglierei il forse) troppo superficiale, in quanto viene a mancare l’attenzione profonda, il tempo per riflettere ulteriormente sulle cose e sui problemi della vita.
Ma c’è comunque una particolarità positiva in questa rapida evoluzione della società tecnologizzata, ed è che l’arte, e in particolare la poesia, in un certo qual modo “cavalca la tigre”, facendo di necessità virtù e quindi creando nuove possibilità espressive, utilizzando i termini e i modi di dire di questa nuova società. D’altra parte, la poesia ha sempre contribuito nei secoli, al di là dell’intrinseca qualità e importanza del contenuto, all’evoluzione della lingua, introducendo termini nuovi e nuovi significati.
Qui sembra che tale operazione di accostamento al mondo tecnologico sia stata opportuna e senz’altro valida: questa raccolta di dodici poesie della poetessa romana Giulia Catricalà, entrano molto bene nel quadro di una nuova modalità espressiva che utilizza termini mutuati dal linguaggio informatico, ferma restando però la buona architettura dei brani poetici, non privi di ritmo, di armonia interiore e soprattutto di significanze efficaci.
Ma c’è qualcosa di più, nelle poesie di Giulia, oltre alla costruzione dei testi basati su tantissimi termini informatici. Nel sottofondo, individuando bene i contenuti, si legge una velata ironia, un raffigurare l’odierna società dedita essenzialmente ad un rapido consumismo e ad un superficialismo di facciata, ad una omologazione del modus vivendi, ad un comportamento generalmente stereotipato e ripetitivo. C’è quasi una malinconia, in molti versi della nostra autrice, anzi una nostalgia, per una vita e per un senso della vita più prossimo alla naturalità delle cose e soprattutto degli affetti e dei sentimenti. Un desiderio di un passato non tecnologico ma più sano e più schietto, come di quando “la nonna svaniva tra i fornelli assorta”. D'altra parte, è lo stesso titolo della breve raccolta, Reboot del sentire, a suggerire un desiderio di "azzeramento" (reboot, riavvolgimento) per ritornare ai vecchi valori. Ora, invece, “non c’è molto da fare se non vedersi con gli amici, sognando in caratteri Helvetica e bere in un logoro bar di Trastevere, per distogliersi dal mondo reale!”.
La poesia di Giulia Catricalà vuole qui, forse, essere denuncia, volendo mostrare come il nuovo mondo tecnologico possa, sì, darci dei benefici (materiali?), ma che in fin dei conti è solo un freddo, piatto e a volte triste sopravvivere, avaro di buoni sentimenti e di emozioni.


I

 

C’è sempre tanto da dire,

ma il codice è derubricato

al silenzio.

La parte amputata del verso

zampetta sui nostri volti

come una festosa fragilità.

Mi mancano

i pennacchi ariosi della metrica

il grip del ritmo

la brulicante calca del parlare.

Anche oggi

con gli occhi fissi sullo smartphone

cerco il senso

succhio una radice

dallo schermo.

 

 ***


II

 

Da qualche anno a questa parte

si sogna in Helvetica:

font neutro, sfondo albino

il galoppo dei bit.

Non c’è molto da fare

se non vedersi con gli amici

e berci sopra, magari a Trastevere

nella viva cavità di un locale

acciottolato, ronzante

poggiati su pareti logore

parliamo di questo tilt della cognizione

– luci soffuse, shottino in mano –

diamo forma al concetto

che il nostro sogno rientra in qualche spettro

del sentire straniato, del mezzo inquinato.

Così, davanti al banco

                              fra un sorso e l’altro

guardiamo il bicchiere piccolo, tondo

ed ecco – nel riflesso del cicchetto –

l’annunciazione:

l’alcol come l’onirico

sposta il razionale del mondo

è veicolo distillato

                     swipe da centellinare.

 

 ***

 

V

 

Connessioni, sincronie,

reel di paradisi tropicali.

Mia nonna svanisce tra i fornelli

assorta – col piglio fermo

di chi conosce un mestiere antico –

cosparge pangrattato

su teglie d’argento

e pomodori spaccati a mano.

All’improvviso, controluce,

uno sfolgorìo di briciole

mi abbaglia la vista.

La cerco – lo sguardo alienato:

è un glitch in grembiule,

un frame di un’altra epoca.


***

Brani tratti da

Giulia Catricalà, Reboot del sentire, Fallone Editore, 2025

Giulia Catricalà è nata a Roma nel 1990. Ha studiato Lettere Moderne alla Sapienza e ha conseguito un Master in Giornalismo alla Luiss. I suoi versi sono stati pubblicati su riviste di rilievo e tradotti in altre lingue. Cura una rubrica per il "Tempo" e collabora con giornali e magazine. Ha esordito nel 2023 con La rosa sbagliata, Fallone Editore, con prefazione di Mario Fresa.



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