Si tratta per lo più di testi di una discreta lunghezza, per cui proponiamo qui di seguito, per necessità di spazio, solo alcuni brani, scelti dal sottoscritto con la speranza che possano essere ben rappresentativi dell’intero lavoro poetico.
Pienamente d’accordo con Antonio Bux quando afferma che la poesia di Elia Belculfinè è pregna di decadentismo, essendo caratterizzata prevalentemente da un verseggiare piuttosto cupo e malinconico, ma denso di richiami allegorici sul senso dell’esistenza: un’esistenza che scorre attraverso i solchi della quotidianità, in cui ci si imbatte in scoloriture e ansiti di vitalità; un’esistenza raffigurata in filigrane e lacerti di storie, di persone, di luoghi che sono diventati simboli di una improbabile riscossa o rinascita.
La poesia di Elia Belculfinè, in questa originale e organica raccolta, si snoda dunque lungo un tracciato piuttosto compatto, nel quale l’autore descrive e configura scene, situazioni e personaggi che a volte hanno il vago sentore di una novella Spoon Rever del mai dimenticato Edgar Lee Masters (per esempio Rosalba, La maestra, Il custode del camposanto). Qui i morti, i fantasmi di cui parla anche Antonio Bux, assumono fisionomia umana e naturale, hanno i loro problemi quotidiani cui preoccuparsi, e attualizzano una umanità scheletrita, ghiaccia, in cui il sentimento e la ricerca della felicità, dell’amore, è stigmatizzata nelle rapide allusioni (“Sia fitto di agrumeti, città radiante, il sole”…).
Un’opera letteraria di tutto rispetto, e non poteva essere altrimenti essendo stata presa in ottima considerazione dal curatore della sezione e, soprattutto, dalla RPlibri, editrice che con grande competenza e amore per la poesia offre ai lettori prodotti di alta qualità letteraria.
(…)
Alta sul pioppeto umilia,
gettandosi sulle rotaie, un usignolo dentro i versi.
L’eternità ha il furioso dulcamaro delle olanzapine,
col tuo segreto sfigurato, sorella...
Il giorno è d’autunno, un secolo fa.
Mai vedesti ridere tua madre.
Il suicidio delicato del rabdomante –
leggervi dolore è un’oscenità comune.
Isolarti al fondo, fra le stelle d’acquitrino.
I poeti sono aria. Non versi? Sei tu a dirlo...
Strappato all’orologio l’orpello della meta.
Corollario, cerca il piatto d’ombre, il sangue col rame.
Sia, fitto di agrumeti, Città Radiante, il sole.
Concrezioni di labbra.
Rime nella notte, mai baciate.
(dalla sezione Operando nel fuoco)
***
ROSALBA 1917 – 1994
Rosalba, rosa e alba, chiarisce il mattino.
Oltre i bioccoli di rive, si sperde il sordo
cielo, e lontano; cinto di semi veglianti
alla morte dei vivi. Un giorno cercasti
nelle vesti per scorgere il tuo cuore.
Era una stufa di maioliche, inconoscibile tortura.
Una granata dolce, aperta a spicchi di figli –
levità di bianco e di rosa; un telaio fermo,
che aspettava le tue mani. Era il sole intarsiato,
nottetempo, di nostalgie nemiche,
la musica alla pena di cosa passante e nuda,
invece nessuno intonò la chitarra leggera,
il plasma denso delle voci, carezza di strade.
Dov’è che vai, stamattina? Quanto a lungo vive
una rosa? Cos’è una rosa? Chi venne in primavere
a tendere i serici fili della luce?
Fu d’aurore la tua carne,
grano tessile di vene aperte nella terra.
In quel nido di sarta, fra piume avare, stoffe
di ingenti alfabeti – rosa e alba…
Eppure l’alba disperde le sue rose,
a tenere piaghe nelle epifanie del sangue.
Ebbi, da bambino, qualcosa da rubarti.
Faranno un sospiro i gerani, e gli uomini
diverranno pietra,
ami di prodigiosa pesca. L’ago
del cuore punta oriente. Tu grida forte,
quando sarai pronta, mettiti in cammino.
(dalla sezione Le allegrie del vino – i passati)
***
La Maestra è una sarta magistrale.
Cuce le vele per i pirati.
E i vestiti alle bambole del vicinato
coi panni da lavoro del marito
a cui non imbastisce un abito o intavola il piatto.
Quando ha finito si beve un vermut
tra amiche. E se ne va al cinema
con le sue miserie.
Ma ciò in cui non vuole
infilare l’ago è la sua lingua lacerata
dall’infamia del suo canto,
che in realtà è un cicaleccio nella grondaia.
(dalla sezione Le allegrie del vino – i passanti)
***
Il custode del camposanto è gravemente malato.
Anche se il cardiologo dice che è tutto a posto,
si vede da un miglio che il suo cuore è una pietra.
E forse ha un figlio rinchiuso in cantina
che nutre con i garofani sulle tombe.
Il suo sangue ristagna nel basso ventre.
E si contorce per le coliche,
ma è solo mancanza di una carezza.
Pare un ectoplasma. Lo chiamano Sgranaossi,
che se lo vedi, lo capisci al volo che mestiere fa,
senza che ti mostri la vanga e la sua catena.
(dalla sezione Le allegrie del vino – i passanti)
***
Con cappelli forbiti gli uomini offrono il braccio
alle donne con fazzoletti stampati a fiori sul capo.
Hanno un certo stile i loro appuntamenti.
La vecchia gente dice – torneranno…
Ma anche i morti hanno i loro morti a cui pensare,
la domenica, con ghirbe di parole,
preghiere in cinture di rose stese
su maggesi di ignoti compendi d’erbe.
Gira sul tuo cardine, vita.
E la terra che in me scorto in nuove sepolture –
presagio del sangue nuovo.
Come i bambini i morti.
Amandosi, prendendosi le mani.
(dalla sezione La rosa rosa)
Brani tratti da:
Elia Belculfinè, La rosa rosa, RPlibri, 2020; sezione
L’anello di Möbius diretta da Antonio Bux; introduzione di Antonio Bux.
Elia Belculfinè è nato nel 1983 a Caserta e vive nell’omonima provincia. Suoi lavori sono apparsi in numerose antologie di settore. Nel 2012 ha pubblicato per l’editore Aletti la raccolta Primi sintomi di una gravidanza. Sempre per Aletti, è apparso nel saggio Verso la Poesia alla ricerca di senso a cura di Maria Carmen Lama.
Nessun commento:
Posta un commento