Ci vogliono togliere i sogni e i progetti di buona e santa convivenza che ogni uomo saggio e colto intravede nel suo cielo, nonostante questo cielo possa apparire in qualche tratto scolorito, opaco, o forse grigio per la presenza di nubi di incertezze e di precarietà. Ma l’uomo saggio e colto resta avvinghiato al suo destino di terra, e adesso più che mai. La sensibile indagine e l’osservazione del mondo circostante gli anticipa il dolore e il rammarico, ma è proprio la sua denuncia, il suo canto, la sua preghiera, che riscuote dignità e libertà, amore e pace, fratellanza e condivisione.
Nicola Guarino canta la sua terra, ne ravviva nella memoria il valore, la schiettezza e la verità segreta, la sua storia che si dipana da millenni: è la sua terra, ma è anche la terra di tutti, di ognuno, è il nostro pianeta, la nostra culla che ora dondola ma è un dondolio pericoloso, instabile e brutale.
E così la poesia è sempre attuale: si avvicina sempre all’uomo, alla sua essenza umana, a quella fiammella di umanità che ancora gli si agita nel cuore.
Quell’amaritudine che il poeta prova nel suo intimo e che lo accompagna nella sua lunga indagine (o esperienza di vita) sul senso di appartenenza e sul significato delle profonde evoluzioni che da sempre hanno interessato e coinvolto l’uomo, imprescindibilmente legato alla (sua) terra, è anche motivo di riscatto, oltre che di denuncia, come dicevo più su, perché è sempre possibile traguardare l’orizzonte e osservare cieli di speranza oltre le nubi, pur rimanendo ben piantati nella realtà dolceamara della propria origine.
Con versi fortemente aderenti al tema, con parole forti e a volte scabre, spigolose e lancinanti, Nicola Guarino procede nel suo cammino con il cuore della memoria in una mano, e con lo sguardo rivolto a un cielo terso, di nuove speranze, che sia sgombro da nuvolaglie di malvagità e di annichilamento. Il sentimento poetico è forte e valoroso, ed è forse l’unica ancora di salvezza in grado di fermarci un attimo su questa terra, riferendosi ai buoni valori di una volta, alla schiettezza e alla genuinità di gesti e di emozioni, per poter ripartire con il piede giusto. Specialmente ora, che poteri oscuri stanno tentando di farci percorrere strade abiette, fino a farci precipitare in baratri senza luce e senza domani, molto al di là di tetre nubi minacciose.
La Poesia, e la poesia di Nicola Guarino, è senz’altro un NO deciso e armonioso a questo folle regredire!
Aspra come il profumo di un rafano
che punge gli occhi in un bagno
di lacrime senza ragione.
Arida come il deserto asciutto
e senza vita in lotta con la polvere
che lo rende tomba.
Cruda come la sorte che non dà speranza
e si arrende al destino nutrendo illusioni
per farne ostaggio.
Povera come chi sa di non avere niente,
e niente fa in lotta con la sorte
che lo nutrirà di malinconia.
Sola come riassunto di una storia incerta
capitale ignota e dimora inospitale
sguardo cristiano alla preghiera
e rosario, unico rimedio breve della sera.
Amara, come la mia terra
amata, aspra, arida, cruda, povera e sola
pure terra del pianto nella stanza,
della serenata che porta consolazione,
medicina per un cuore in lontananza.
***
Scorre la ruota antica
Scorre la ruota antica dove i tappeti
su cui stampavi presenze ed orme
erano filati di pietra grossa.
Raggi di crudo metallo riscaldano mani
logorate
dalla ruggine rossa
e dalla saliva sputata sul manico della pala,
il dolore non dà più lacrime al telaio
rotto al centro
spinge carretti di sogni rivestiti in marmo
bianco.
Un abbraccio, io a te tu a me,
l’incontro con nuvole chiamate per nome,
fazzoletti intrisi di lacrime e racconti
di storie
a tappezzare strade percorse con animo
deserto.
Mi incammino
diretto nel cerchio senza uscita
riflesso nel vuoto di pazienti attese,
stanco,
e raro è il movimento di un gomitolo fermo.
I giorni scavano trincee insuperabili
se memorie di vita e speranze spingono
Scorre la ruota antica
a dirigermi, ignaro del tuo passaggio,
lassù,
dove la ruota
segnando il tempo che gli occhi rubano
sole assicura ad un minuscolo ingranaggio.
***
Come in una fossa
Numeri e nomi ho scritto
a mano su quel profondo muro
ricordo a cenni di prigione eterna
e morti
storia dell’incredibile interiore
buio
di pareti tappezzate da acute grida
e dolori forti.
Si muovono sperduti
nella mia testa a mestiere vuoto,
incolonnati di punto
per dare/ fare conti che non tornano
sulle mani.
Ho condannato unghie a graffiare
intonaci finti di cemento
come il sole che non scalda
e dita chiuse a riccio non son bastate
a far calcoli di pur materia falsa.
Per il capriccio di quella scossa
di quei pochi amici molti sono rimasti
scatole vuote,
altri finiti a terra sono rimasti come me,
soli, con me,
increduli
ad ascoltare note di silenzi
sullo sgabello nero,
come in una fossa.
***
Panta rei
I profili sinuosi delle colline,
le punte degli alberi sul monte,
castagni che si elevano e cipressi
a modellare a grigio sfondo l’orizzonte
dei nostri umori,
delle rinnovate paure.
Foto sotto la coltre del paese,
fendenti di freddo a tagliare l’aria,
Tarantino, la fontana a ruscello
il Corso e la piazza:
tutto si mostra uguale agli anni precedenti.
Nevica per caso, forse, pioverà.
Inizio e fine di scatti fotocopiati nel tempo,
nulla diviene sul confine del sereno
tra le ombre,
nel cielo dall’immutabile silenzio
che lo copre.
Accolgo il gelo della luce tra le mie braccia,
penso che non è la neve dei giorni passati
ad abbagliarmi,
ma solo il gioco delle nuvole che cambia.
***
False certezze
Respiro aria, terra bruciata,
arsa, senza fuoco e di polvere
siccità,
spogliata dei suoi frutti lasciati/perduti
nel grembo stecca infertile del miraggio.
Aspetto che mi accogli, affanno del vento
di maggio
sui tuoi fiori mai fioriti
sulle spighe non raccolte
nei più profondi solchi a sangue d’unghia.
Consumato graffio di pietre spaccate,
verso da respiro generoso,
largo voto di consolazione per attese vane
tra il presente: divenire
e le lacere speranze di sprofondare ancora
nel futuro desiderio.
Aspetto inganno a respiro perso,
forse non respiro e mi domando serio: cosa
sono,
apparendo già servito a trucco/smalto antico
o ri-finito in posa?
Cosa sono se di non respiro in terra secca
muoio,
se di polvere bruciata di certezze false vivo?
***
Albergo del dolore
Su queste polverose
pietre
come pure nel mio cuore
sono tracciate / incise due
ferite lunghe
che gli anni
non hanno guarito.
Insieme e solitari siamo,
nel silenzio,
albergo del dolore.
Numeri e nomi ho scritto
a mano su quel profondo muro
ricordo a cenni di prigione eterna
e morti
storia dell’incredibile interiore
buio
di pareti tappezzate da acute grida
e dolori forti.
Si muovono sperduti
nella mia testa a mestiere vuoto,
incolonnati di punto
per dare/ fare conti che non tornano
sulle mani.
Ho condannato unghie a graffiare
intonaci finti di cemento
come il sole che non scalda
e dita chiuse a riccio non son bastate
a far calcoli di pur materia falsa.
Per il capriccio di quella scossa
di quei pochi amici molti sono rimasti
scatole vuote,
altri finiti a terra sono rimasti come me,
soli, con me,
increduli
ad ascoltare note di silenzi
sullo sgabello nero,
come in una fossa.
***
Panta rei
I profili sinuosi delle colline,
le punte degli alberi sul monte,
castagni che si elevano e cipressi
a modellare a grigio sfondo l’orizzonte
dei nostri umori,
delle rinnovate paure.
Foto sotto la coltre del paese,
fendenti di freddo a tagliare l’aria,
Tarantino, la fontana a ruscello
il Corso e la piazza:
tutto si mostra uguale agli anni precedenti.
Nevica per caso, forse, pioverà.
Inizio e fine di scatti fotocopiati nel tempo,
nulla diviene sul confine del sereno
tra le ombre,
nel cielo dall’immutabile silenzio
che lo copre.
Accolgo il gelo della luce tra le mie braccia,
penso che non è la neve dei giorni passati
ad abbagliarmi,
ma solo il gioco delle nuvole che cambia.
***
False certezze
Respiro aria, terra bruciata,
arsa, senza fuoco e di polvere
siccità,
spogliata dei suoi frutti lasciati/perduti
nel grembo stecca infertile del miraggio.
Aspetto che mi accogli, affanno del vento
di maggio
sui tuoi fiori mai fioriti
sulle spighe non raccolte
nei più profondi solchi a sangue d’unghia.
Consumato graffio di pietre spaccate,
verso da respiro generoso,
largo voto di consolazione per attese vane
tra il presente: divenire
e le lacere speranze di sprofondare ancora
nel futuro desiderio.
Aspetto inganno a respiro perso,
forse non respiro e mi domando serio: cosa
sono,
apparendo già servito a trucco/smalto antico
o ri-finito in posa?
Cosa sono se di non respiro in terra secca
muoio,
se di polvere bruciata di certezze false vivo?
***
Albergo del dolore
Su queste polverose
pietre
come pure nel mio cuore
sono tracciate / incise due
ferite lunghe
che gli anni
non hanno guarito.
Insieme e solitari siamo,
nel silenzio,
albergo del dolore.
(Brani tratti dal libro di Nicola Guarino Il cielo davanti alle nuvole, Delta3
Edizioni, 2019; Collana “Pugillaria” diretta da Paolo Saggese; prefazione di
Paolo Saggese, postfazione di Rossella Scherl.
Nicola Guarino è nato e vive a Teora (Av). Laureato in
Architettura presso l’Università Federico II di napoli, ha svolto attività
dirigenziale presso il Comune. È poeta affermato, con all’attivo diverse
pubblicazioni e riconoscimenti in importanti concorsi letterari nazionali.
Accanto all’attività letteraria, segue con successo anche quella artistica
pittorica, con varie rassegne ed esposizioni. Collabora con eminenti
personalità nel campo artistico e letterario nell’organizzazione di eventi e
incontri culturali sul territorio.
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