Sembrerebbe cosa vana pensare alla poesia come una possibilità, e un’opportunità, di gestire la quotidianità confusa e sparpagliata, priva di un senso profondo dell’esistenza, priva di quelle congetture filosofiche che offrivano comunque qualche spiraglio d’orizzonte, qualche minimo scopo da darsi, per raggiungere un più o meno ambìto nuovo eldorado.
Ma la creatività artistica non si arresta, per fortuna, neanche quando si è immersi in una società che ti rende numero fra numeri, che ti omologa e ti costringe, volente o nolente, a seguire schemi e moduli preconfezionati e validi per tutti e per ogni cosa, dall’offerta di programmazioni televisive più o meno scadenti, agli iter burocratici più o meno contorti in ambito scolastico, lavorativo e sanitario. Siamo in una società cosiddetta globalizzata, dove la cultura sovente è sottoposta a spietate leggi di mercato, in conseguenza delle quali un banale “talk show” televisivo può suscitare più interesse rispetto a una rappresentazione teatrale o ad una conferenza su Dante. Siamo in una società globalizzata ma frammentata, suddivisa, dimidiata, indecisa, indifferente, specie nei confronti della Cultura.
La poesia può dunque ancora reggere le briglie di questa società che non va da nessuna parte. Toto corde, di Maria Grazia Palazzo, è senza alcun dubbio un’opera letteraria, di alto livello, che contribuisce con la sua corposa testualità alla ricerca di un filo conduttore che possa tenere insieme i patemi dell’umanità, che possa dare un senso d’insieme al groviglio esistenziale composto da materia e spirito in perenne tensione e contrasto tra di loro: toto corde, con tutto il cuore, ma anche con la perspicacia e l’intuito che si origina dalla vera e profonda nostra umanità, e con la poesia ben modulata su di essa: così forse si riesce a dipanare la matassa dell’inanità di questa società senza orizzonti, forse si riesce a trovare un senso giusto alla vita e alla morte.
La poesia con la sua audacia e con la sua potenzialità espressiva (quando è buona e alta poesia), riesce a trarre l’uomo dal suo stato (più o meno consapevole) di appiattimento e di superficialità, lasciandogli intravedere, intuire, stratificazioni superiori di più ampio respiro, orizzonti più elevati su cui fissare le proprie aspettative e persino i propri aneliti. Toto corde, in un certo senso, raccoglie i quadri sparsi dell’autrice e di ogni uomo, rappresentati da dubbi, incertezze, indecisioni, incostanze, dissidi quotidiani, patemi che interrompono il filo emozionale della vita e appannano gli orizzonti: “Dove vi siete rifugiate / sconosciute altre me, riflesse / nel passaggio segreto allo specchio, / in un battito prima di svanire?”, recita Maria Grazia Palazzo a pagina 11, e qui appare tutta la sua concezione di un mondo sparpagliato, dove l’identità rischia di perdersi in mille falene che vivono una vita effimera per poi dileguarsi inevitabilmente.
Ma questo reiterare quasi disperato del canto alla ricerca di una stabilità definita e salda, questo suo tentativo di riunire i brandelli disuniti e dispersi della vita e dell’uomo, trova conforto, accoglienza e sostegno in una poesia fortemente propositiva, a volte persino di denuncia e comunque di esortazione, in quanto dimostra di possedere un contenuto etico esemplare, di grande importanza ed efficacia, quello cioè di riunire gli ideali e i valori fondanti in un sol corpo anima-mente, acquisendo finalmente l’identità unica della persona, al di là di ogni tentativo di sminuire e banalizzare l’uomo da parte della società in continuo livellamento: “Cento volte partorita, e mille volte morta / con una chiave arrugginita e storta, / residuo di vernice sopra / una porta senza serratura.” La poesia, e certamente anche la poesia di Maria Grazia Palazzo, ha questa grande e nobile funzione: quella di saper individuare il segreto rovello, l’imbarazzante stato tensionale che è in ciascuno di noi, pressato dalla vita e da una società sempre più invadente, e trarne i motivi e le ragioni per una redenzione, per una rinascita.
Proponiamo ai nostri lettori qui di seguito alcuni brani tratti dal libro.
Cento volte partorita, e mille volte morta
con una chiave arrugginita e storta,
residuo di vernice sopra
una porta senza serratura.
Nel carapace di spoglie madri,
il sole che matura farina e vermi,
coi denti nel morso di grecale
di una memoria avida di carezze,
di ciglia nere, di sorrisi,
in un riverbero di onde.
S’impigliano a reti dissepolte
fuochi d’artificio, fluttuante
fuocomemoria di una trama
in forma di conchiglia, lisa
sublimata materia.
Dove vi siete rifugiate
sconosciute altre me, riflesse
nel passaggio segreto allo specchio,
in un battito prima di svanire?
Vi cerco in mare aperto, ormai
allo stremo delle forze, caparbiamente
per non dover morire, cercando
approdo o nuovo abbandono.
Per ora mi godo il giro di boa del sole e dei venti,
l’apparente maturazione di anni discendenti,
la meridiana impressa in controluce.
Nei destini di desiderio e di memoria
consegne in avanti, oltre l’arenile,
disegnano lutti avvenire, con lucida bava
preparano il vuoto o il salto nel vuoto.
Non so dove si attinga coraggio, se
nell’abbraccio che non si può più abitare
o nel feroce orgoglio di un silenzio scelto,
di un vivere dignitoso in polvere e spavento.
Ho armato il vuoto. L’ho disarmato.
Bellezza imprendibile... Mi arrendo!
E a mani nude su pareti scrostate percorro
un calco in ombra di vertebre di giorni,
nelle notti dei risvegli, brevi litanie
di laude all’approssimazione dell’amore.
Da un’apnea si scioglie una trama d’intrecci
per ciò che si deve a noi stessi, contro
ogni miseria antica. Resiste una
bellezza che nasce, muore guerriera.
Bisogna ripartire
da un caffè settimanale,
e rifiorire in azioni prêt-à-porter
tra sfide quotidiane uscire dal letargo
di mondo, tenendo stretto almeno
un bandolo di aggrovigliata materia.
Ad ogni costo l’animale sociale dovrà
spaziare tra il serio e il faceto, intorno alla curva
del desiderio e discendere nell’infero quotidiano.
Essere sé non chiede un colpo di genio
ma l’imperfetto esistere comunicante
in vasi rotti di Pandora e spellarsi
e raccogliere cocci fin dentro
l’utopia di sogni plananti.
Questo si chiede,
procedere verso
una semplice destinazione,
rivelazione di viaggio
di coscienza universale.
***
Toto corde nei piccoli gesti
risvegliare in noi rizomi,
modificare il corso degli eventi,
ridurre in frammenti passaggi di stato.
Segni inavvertiti, battiti minimi, precipitati
nel paradosso di riso e pianto, sguardo e teatro.
Con il corpo e la voce, esposti a ogni intemperia
in una specie di caduta continua, antidiluviana.
Proviamo a praticare una sorte differente
a ponderare i controtempi della mente
dentro la vena lirica di un tempo
della resa e del vuoto.
Dicono esista l’autodeterminazione,
con il surriscaldamento del pianeta
firmeremo l’autodistruzione e presto,
presto, ci verranno assegnati dei loculi
dove gratuitamente distribuiranno
pacchi di ossa indifferenziati,
per l’ultima combustione a Km 0.
Anche noi sottovuoto nella catena
alimentare dell’ultimo inceneritore.
Torneremo, prima o poi, all’era glaciale
o alla festa patronale primordiale.
Dissotterrando l’animale segreto
torneremo all’acqua e al fuoco,
al disabitato pianeta, all’ignoto.
A ricordarci il viaggio sulla luna
ci penserà un refrain in replica
inviata da un artefice cyber stratega.
Una corda rotta di tartaruga sarà
la batteria che non si rigenera.
E torneremo all’albero senza
la mela di Adamo ed Eva.
sogni improvvisi verranno a svegliarci
con spine, spore, radici da eradicare
nel procedere per strappi ostile,
solo così ci si potrà involare
nel verde e bianco di certi meriggi,
nell’inazione di volontà di potenza
tra spazi e azioni minime di conquista.
Il fatto è che viviamo e moriamo così
senza prestare quasi mai il consenso.
Nello scarto di acquiescenza appresso
ombre di generazioni, la strada a togliere
superfluo dalla maschera di bravura.
L’arte della sopravvivenza è tutta lì,
nel posare ogni fardello
sulla soglia di un viaggio poderoso
nello spaziocarne, ospitale convento,
oltre le scorie di una guerra persa.
Solo se viviamo profondamente in noi stessi,
in rivelazioni sensibili... ecco apparire
dei già e non ancora, potenti déjà vu respinti,
ancora incompiuti, in punta di lancia.
Maria Grazia Palazzo è nata nel 1968 in Valle d’Itria.
Avvocato civilista, ha esercitato la professione fino a pochi anni fa. Negli
ultimi anni ha intrapreso lo studio della teologia e delle questioni di genere.
È mamma adottiva. È socia di Stati Generali delle donne di Bari. Insegnante
precaria, la sua più grande ambizione è riuscire a tenere insieme il piano
della quotidianità e quello dell’extra quotidiano. Ha pubblicato: nel 2012 Azimuth per LietoColle editore. Nel 2013
in collettanea: Chiedici la Parola
per Stilo editrice; nel 2015 Sulla carta
del tempo per Terra d’Ulivi, e Libertà,
Semi di Poesia in Azione, Secop Ed., a cura di S. Kuhtz. Nel 2017 In punta di Piedi per Terra d’Ulivi
edizioni. Alcuni suoi inediti sono stati pubblicati sul sito web di Cartesensibili,
a cura di F. Ferraresso. Nel 2017 è stato pubblicato online il testo di prosa
poetica Da Dove, da Spagine, a cura
di M. Marino. Nel 2018 ha pubblicato il suo terzo libro di poesia, Andromeda, un poemetto sul femminile,
destinato anche al teatro, per iQdB di S. Donno. Nel 2020 è stato pubblicato il
suo ultimo libro di poesia Toto corde
per la casa editrice La Vita Felice.
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