È una poesia corposa, quella del giovane Coviello, apparentemente dodecafonica ma in realtà ricca di sbalzi umorali schietti, tenuti a bada da un lessico che guizza tra le parole e i significati. Una poesia rilevante, certamente da apprezzare.
Travidi un giorno bianco, lo cambiai
lo resi spada e amazzone, ne affondai
le dita nella fiamma setosa e carni
di stanza lì, non ebbi paura, la ferii.
Poi mi ritrassi, guardai l’ora, aprii le scatole
attesi ancora un po’, che fosse pronto, fosse caldo
il caffè al civico nero alluminio vetro infrangibile
tracciai due linee granulari, compatte
svogliate doglie di una carta. Limite
d’ora, martedì d’incenso dove mi chiami
dove mi porti che hai da solo un sacco
di vernice, la vita stretta al muro
dei rancori e delle piogge, inverti
le linee, muovi il coraggio affollato, scrivi
le tue iniziali sul foglio di plastica.
Solo il cosmo ha speso abbastanza.
Se nel palmo ho tutto il piano
dipinto sul capo sono sereno. Mi tocco
piano la testa, raccolgo tutti gli steli
prendo misure ideali, raduno, cambio
accentro, meglio così. È come un porto
pontile nel biado postaccio del tre
volte tremore albatro perso e stanco e
incanutito, la cenere tegola, seme
cemento e frolla fanno a pezzi
il mio foglio. Ecco, sì, è tutto in ordine
prendo le assi per non fare a meno di
versare caffè negli specchi
fi umi di nevischio tigli astratte
suppellettili. E la porta è vuota.
A meno di versare corto frammento e imbracciare
le tempere tumide dei consoni pugili
farei e sono onesto perché non mi va, non è
il mio sarto utile e chiamale, rincorrile a prezzo.
Le strenne a quadretti sono il mio corollario. Ho
freddo e piango di tumide zanne. La smetti
di sorridere ai limiti fonici ludici, umani
che vende regala appalta la rete ora che il tubo
catodico è un fango di ruggine. Imberbi paesaggi.
Schiodami da stati di neroveggenza, supplicami
umano come raschi in sordina. Voltaggi infiniti
installati ora ho nel cervello, chianche fiorite
zotici e vestaglie di lana. Ancora è utile prendere
buste per pacchi anni per giorni e scoprirsi
nudi sotto la stella marziale del tuo solo padrone.
Ho pure il mio intrattieni. Più giù
sotterraneo balcone fai clangori
di cotone. Anziano signore vecchia
ferraglia fai a pezzi qualcosa
che soffia fischiando ciniglia
e vapore, mi cola un’occhiata
a stormire la nebbiolina fine
del bucato.
Privilegio intatto
ti stendo un formato che abbevera
tutti, uno stelo stracciato di soglie
ai meriggi inutili forbiti e
sbiancati. Basterebbe intonaco
no schegge no stridi solo
blu dissapore e quindici
giorni di pioggia dentro ai cortili.
Le parole fatte a trucioli, gli apostrofi
le notti disegnate e i colori spiegati
sparsi come calici di tulipani.
Prendere parola per poi tacere.
Attorno alla dura piazzola di sosta
c’è il velo, c’è la statua di schiena
e portare rose è un lucido affronto
all’eremo sciolto nel fondo chiarore.
Senti le vecchie lagne e le tele
dei sarti, sentimi coi digiuni stanchi
non divaricare sonni, non inciampare
nel bozzolo primo, nel sordina munito
tostapane, parla ad libitum sui
nidi del casale scolastico. Dubita
sola partenogenesi è arresa
al dubbio, desiderio dei miti.
In alto fluorescente fuoco, mobile
cencio sbranato dai cieli vivibili
già passi e vieni fuori del quadro
acciaio laccato, bianche pretese
di umanità, distese vitree di ore
deposte nel fresco dei nidi dei deboli
assurgi a stemma di barattoli
cercami a fondo di venti insensate
questioni e rinserra le dosi, chiama
i caroprezzi, rincara i dolori
suggella i piani misteri dell’Icaro
a pezzi che forse abitai nel solo
soggiorno che diedi alle quattro mie dita.
(Brani tratti da: Francesco Elios Coviello, L’oltranza, RPlibri, 2022, introduzione di Antonio Bux)
Francesco Elios Coviello è nato a Bari nel 1994. Suoi
scritti, di argomento letterario e musicale, sono apparsi su alcune riviste di
settore. L’oltranza è il suo libro d’esordio.
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