sabato 28 marzo 2020

Una nota di Gerardo Santella su "La linea dei passi", di Enzo Rega


Accogliamo qui una interessante e dettagliata nota di lettura di Pasquale Gerardo Santella, sul recente libro di narrativa di Enzo Rega, intitolato "La linea dei passi".

Il titolo dell’ultimo lavoro di Enzo Rega, La linea dei passi. Prose sulle città e il viaggio (Edizioni Helicon, Poppi (AR) 2019) rinvia immediatamente al genere della letteratura di viaggio, di cui accoglie tutte le caratteristiche: l’incontro/confronto con realtà paesaggistiche e umane diverse, lo spaesamento, come strappo dal noto e dal familiare per consegnarsi all’estraneità,  il ritrovarsi in una realtà “altra”, l’esperienza interiore. Un viaggio che non è più solo ricerca e scoperta di nuove conoscenze, ma dal secondo Settecento con Laurence Stern è viaggio sentimentale, ricerca, nell’ interiorità della coscienza, della propria identità, che non si conquista all’interno di un sistema autoreferenziale.
E sul piano stilistico è una scrittura mai uniforme e monotona, ma costituita da una varietà di tipologie (il diario, la forma epistolare, il reportage, l’aforisma, il bozzetto, la riflessione critica) tenute insieme dal filo dialogico tra le figure dell’autore e del narratore in cui si sdoppia l’io e di registri espressivi (ora informativo, ora ironico, ora lirico, ora riflessivo, ora letterario), che si modellano a secondo delle variazioni del contesto, della coscienza e del sentimento del protagonista in rapporto agli  “oggetti” e alle persone con cui viene a contatto.
Intanto mi piace mettere in rilievo alcuni elementi che il lettore appassionato di letteratura di viaggio si aspetta e che qui ricorrono frequentemente, soddisfacendo le sue attese.

Anzitutto  I sensi del viaggio.
Il viaggio non avviene nella testa, non si può fare rimanendo a casa, ha bisogno di assorbire linfa attraverso i sensi: vedere toccare sentire odorare, attraverso l’immersione  in una dimensione multisensoriale.
Come, per fare qualche esempio, a Parigi, lungo la Senna, dove il viaggiatore viene investito da percezioni tattilo-visive:  quel cielo che il sole sembra non riscaldare, ma solo illuminare come una lastra di ghiaccio, trapassandola e riemergendone gelidamente sfocato oppure quando, seduto ad un bistrot, sono i suoni degli oggetti a riempire lo spazio della scena: il brusio, il tintinno dei bicchieri. E c’è uno sgabello che cade, uno scoppio di risa, lo schiocco di una carta vincente gettata sul tavolo, la scatarrata di risa dell’uomo soddisfatto.
E ancora a Mulhouse, dove la percezione olfattiva genera una condizione di straniamento: Acuto e diffuso, eppure misterioso e nascosto, l’aroma vegetale ristagna nella casa che mi ospita. Odore che fa tanto, dovunque, terra straniera e che, per primo viene incontro o piuttosto è lì ad aspettare. Una percezione confusa: frutta, verdure, spezie a noi sconosciute – qui, invece, la quotidianità.

L’intersecazione di spazio e tempo, di orizzontalità geografica e verticalità storica. Basta qui l’esempio della descrizione di una strada della città belga di Anversa: L’acciottolato della strada fiamminga risuonava a questi passi come un giorno, nel lontano Cinquecento, al passaggio di un mercante o di una tessitrice o di un grasso imprenditore che tra il grasso delle dite sgranellava untuose monete. Una rapida dissolvenza incrociata in cui il suono dei passi del viaggiatore sfuma dall’oggi nell’ieri, mentre sulla stessa strada egli stesso scompare per lasciare spazio (o per identificarsi? ) a due figure del tempo passato.

La con-fusione tra racconto e realtà, letteratura e vita.
È un topos letterario tipico. Spesso il viaggio si fa sulle orme di uno scrittore o di un’opera che riteniamo significativa per il nostro percorso di formazione umana e intellettuale. È una suggestione molto forte che non solo non si vuole rimuovere, anzi si desidera rivivere dopo l’emozione ricevuta sulla pagina scritta. Come anche incrociare luoghi reali a riferimenti letterari.
E qui gli esempi sono vari.
Talora il richiamo avviene per semplice analogia o memoria indotta.
Così a Parigi: lo spazzino nero del metrò non ha più esistenza di Madame Bovary, la quale poi, si sa, non è altri che Flaubert. E l’attraversamento della città di Torino, punteggiata dai richiami ad artisti, letterati, filosofi è un percorso alla ricerca dei personali compagni di viaggio dell’autore: Delle piazze (…) ho avvertito il sapore metafisico. De Chirico ovviamente (…) piazza Carlo Alberto, dove “impazzì” Nietzsche; l’Hotel Roma alla stazione dove si suicidò Pavese; Piazza Vittorio con il bar Elena di Gramsci e Gobetti. Ancora a Basilea: Sulla terrazza del lungofiume il sole disegna, a la maniere de Edvard Munch, il rettangolo della ringhiera, ma però meno favolistico, e meno allucinato.
Ma altrove l’autore raggiunge accenti di originalità, trasformando egli stesso edifici e monumenti della città in visioni letterarie.
Come nella descrizione della Piazza Grande di Bruxelles: una smisurata stanza incantata. Lo slancio delle guglie fiamminghe, vere lingue di fuoco levate verso l’alto o aghi confitti nel tessuto del cielo accoppiato alle rotondità spagnole degli edifici, trasporta in un mondo fiabesco che non sembra davvero esistere su questa terra.
Oppure nella minuziosa descrizione  di un complesso di edifici di Amsterdam. Le case che si affacciano sui canali con la fila di finestre al centro, i tetti ad angolo acuto sormontati da un piccolo timpano e l’argano del montacarico con il suo gancio sono viste dall’occhio esterno di una cinepresa. E ora appaiono sbilenche all’indietro ora pericolosamente sporte verso l’acqua a secondo del punto di vista da cui osservi, se “sia disteso a pancia all’aria sull’acqua del canale su cui si affacciano” oppure “se ne stia tranquillamente in piedi sull’acciottolato del lungo canale”. La scrittura si fa ripresa cinematografica e conferisce ancora una volta una straniante dinamicità agli oggetti messi in scena.
Ma c’è dell’altro in questi racconti, che sono contemporaneamente qualcosa di meno e di più di una codificata letteratura di viaggio.
Mancano, per dire, aneddoti divertenti e curiosi riferiti a personaggi o a famosi monumenti dei luoghi visitati. L’autore non cerca la meraviglia da descrivere all’attonito lettore né il fatto divertente che renda gradevole la sua scrittura.

Piuttosto sottolinea la corrispondenza di sensi tra il viaggiatore e la città. A Londra: Eccomi qui a vagare perduto in questa sconclusionata Londra all’indecifrabilità della metropoli fa fortunatamente da pendant la mia stessa, attuale, indefinibilità. È su questa onda disturbata che finiamo per incontrarci, la città ed io. O sulle Alpi valdostane: non si danno più montagne incantate se non come dimensione spaziale e temporale interiore: anche il senso esterno , dunque, diventa interno.
È in questo raffinato gioco dialogico e sentimentale, in queste intersezioni e correlazioni tra soggetto e oggetto, sguardo esteriore e interiore, sensazioni e riflessioni che è l’essenza di questi racconti.

Meta-letteratura e donne
L’autore-narrante interviene, anche se non frequentemente, all’interno del racconto, come in Frammento milanese, dove esprime riflessioni metanarrative sulla constatazione di essere rimasto senza  più storie da raccontare, consumate e digerite assieme al tempo che passa, alle speranze alle ambizioni della vita .
O come in Lettere dalla Germania dove ad Heidelberg, scrivendo una lettera destinata all’Amore mio, dice “Il viaggiatore è stanco. Ha inanellato città su città, e (…) desiste dal proseguire (…) Ed eccomi alla fine muto”. E in un’altra si chiede: “Non ruota questo libro intorno a due alternative. Viaggio come ricerca - viaggio come fuga? In entrambi i casi c’è una utilità del viaggio”. E nell’ultima. “Al di là dell’ultimo racconto, non c’è più bisogno di partire se a casa ci sono due occhi che ti aspettano”.
E questa ultima osservazione ci permette qualche nota conclusiva sulle donne, presenti in molti racconti, compagne di viaggio, di parole, di avventura, d’amore, o di occasionali incontri. Donne che non sono proiezioni letterarie, ma reali, carnali, con cui condividere assieme un tratto di strada, più o meno lungo, ma sempre interrotto. Per inerzia, stanchezza, forse inettitudine.
Amori filtrati, pensati, vissuti.
Donne belle, desiderate, inafferrabili come le  ragazze olandesi che passano come una folata di vento in bicicletta, ridendo nell’aria fresca di Amsterdam: “ I loro capelli, scomposti nel vento e sfuocati nella luce, diventano una svolazzante massa di sabbia dorata che, in un tempo senza tempo, non accenna più a ricadere al suolo”.
Amori sinceri, vissuti, che si manifestano nella varietà delle loro espressioni: ora come momentanea appagante felicità, ora come scambio di vissuti che si intrecciano in un dialogo, ora come incontro basato sulla condivisione ora come relazione mediata dal corpo; che, però, non si fanno compiutamente empatia, osmosi di universi diversi.
In fondo amore, viaggio, scrittura sono in relazione analogica tra di loro. Ci si allontana da uno spazio abituale mossi da una passione o da una ricerca di altro e si va all’ad-ventura, cioè si opera un avvicinamento, tra esperienze ora gratificanti ora deludenti, all’oggetto del desiderio. Non c’è un porto in cui quietamente approdare.
Il sale di ogni viaggio è l’imprevedibile. Il suo senso è nell’attraversamento (dello spazio e del tempo, della  pagina  bianca, della varietà dei sentimenti ), non nel raggiungimento della meta. Il libro, questo libro di Rega, in cui tutto è racchiuso, è solo un fugace approdo prima di riprendere subito la navigazione.


Pasquale Gerardo Santella

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