Accogliamo qui una interessante e dettagliata nota di lettura di Pasquale Gerardo Santella, sul recente libro di narrativa di Enzo Rega, intitolato "La linea dei passi".
Il titolo dell’ultimo lavoro di Enzo
Rega, La linea dei passi. Prose sulle
città e il viaggio (Edizioni Helicon, Poppi (AR) 2019) rinvia
immediatamente al genere della letteratura di viaggio, di cui accoglie tutte le
caratteristiche: l’incontro/confronto con realtà paesaggistiche e umane
diverse, lo spaesamento, come strappo dal noto e dal familiare per consegnarsi
all’estraneità, il ritrovarsi in una
realtà “altra”, l’esperienza interiore. Un viaggio che non è più solo ricerca e
scoperta di nuove conoscenze, ma dal secondo Settecento con Laurence Stern è viaggio sentimentale, ricerca, nell’
interiorità della coscienza, della propria identità, che non si conquista
all’interno di un sistema autoreferenziale.
E sul piano stilistico è una scrittura
mai uniforme e monotona, ma costituita da una varietà di tipologie (il diario,
la forma epistolare, il reportage, l’aforisma, il bozzetto, la riflessione
critica) tenute insieme dal filo dialogico tra le figure dell’autore e del
narratore in cui si sdoppia l’io e di registri espressivi (ora informativo, ora
ironico, ora lirico, ora riflessivo, ora letterario), che si modellano a
secondo delle variazioni del contesto, della coscienza e del sentimento del
protagonista in rapporto agli “oggetti”
e alle persone con cui viene a contatto.
Intanto mi piace mettere in rilievo
alcuni elementi che il lettore appassionato di letteratura di viaggio si
aspetta e che qui ricorrono frequentemente, soddisfacendo le sue attese.
Anzitutto I sensi del viaggio.
Il viaggio non avviene nella testa,
non si può fare rimanendo a casa, ha bisogno di assorbire linfa attraverso i
sensi: vedere toccare sentire odorare, attraverso l’immersione in una dimensione multisensoriale.
Come, per fare qualche esempio, a
Parigi, lungo la Senna, dove il viaggiatore viene investito da percezioni
tattilo-visive: quel cielo che il sole sembra non riscaldare, ma solo illuminare come
una lastra di ghiaccio, trapassandola e riemergendone gelidamente sfocato
oppure quando, seduto ad un bistrot, sono i suoni degli oggetti a riempire lo
spazio della scena: il brusio, il
tintinno dei bicchieri. E c’è uno sgabello che cade, uno scoppio di risa, lo
schiocco di una carta vincente gettata sul tavolo, la scatarrata di risa
dell’uomo soddisfatto.
E ancora a Mulhouse, dove la
percezione olfattiva genera una condizione di straniamento: Acuto e diffuso, eppure misterioso e
nascosto, l’aroma vegetale ristagna nella casa che mi ospita. Odore che fa
tanto, dovunque, terra straniera e che, per primo viene incontro o piuttosto è
lì ad aspettare. Una percezione confusa: frutta, verdure, spezie a noi
sconosciute – qui, invece, la quotidianità.
L’intersecazione
di spazio e tempo, di orizzontalità geografica e verticalità storica. Basta qui l’esempio della descrizione di una strada della
città belga di Anversa: L’acciottolato della strada fiamminga
risuonava a questi passi come un giorno, nel lontano Cinquecento, al passaggio
di un mercante o di una tessitrice o di un grasso imprenditore che tra il
grasso delle dite sgranellava untuose monete. Una rapida dissolvenza
incrociata in cui il suono dei passi del viaggiatore sfuma dall’oggi nell’ieri,
mentre sulla stessa strada egli stesso scompare per lasciare spazio (o per
identificarsi? ) a due figure del tempo passato.
La
con-fusione tra racconto e realtà,
letteratura e vita.
È un topos letterario tipico. Spesso
il viaggio si fa sulle orme di uno scrittore o di un’opera che riteniamo
significativa per il nostro percorso di formazione umana e intellettuale. È una
suggestione molto forte che non solo non si vuole rimuovere, anzi si desidera
rivivere dopo l’emozione ricevuta sulla pagina scritta. Come anche incrociare
luoghi reali a riferimenti letterari.
E qui gli esempi sono vari.
Talora il richiamo avviene per
semplice analogia o memoria indotta.
Così a Parigi: lo spazzino nero del metrò non ha più esistenza di Madame Bovary, la
quale poi, si sa, non è altri che Flaubert. E l’attraversamento della città
di Torino, punteggiata dai richiami ad artisti, letterati, filosofi è un
percorso alla ricerca dei personali compagni di viaggio dell’autore: Delle piazze (…) ho avvertito il sapore
metafisico. De Chirico ovviamente (…) piazza Carlo Alberto, dove “impazzì”
Nietzsche; l’Hotel Roma alla stazione dove si suicidò Pavese; Piazza Vittorio
con il bar Elena di Gramsci e Gobetti. Ancora a Basilea: Sulla terrazza del lungofiume il sole
disegna, a la maniere de Edvard Munch, il rettangolo della ringhiera, ma però
meno favolistico, e meno allucinato.
Ma altrove l’autore raggiunge
accenti di originalità, trasformando egli stesso edifici e monumenti della
città in visioni letterarie.
Come nella descrizione della Piazza
Grande di Bruxelles: una smisurata stanza
incantata. Lo slancio delle guglie fiamminghe, vere lingue di fuoco levate
verso l’alto o aghi confitti nel tessuto del cielo accoppiato alle rotondità
spagnole degli edifici, trasporta in un mondo fiabesco che non sembra davvero
esistere su questa terra.
Oppure nella minuziosa
descrizione di un complesso di edifici
di Amsterdam. Le case che si affacciano sui canali con la fila di finestre al
centro, i tetti ad angolo acuto sormontati da un piccolo timpano e l’argano del
montacarico con il suo gancio sono viste dall’occhio esterno di una cinepresa.
E ora appaiono sbilenche all’indietro ora pericolosamente sporte verso l’acqua
a secondo del punto di vista da cui osservi, se “sia disteso a pancia all’aria sull’acqua
del canale su cui si affacciano” oppure “se ne stia tranquillamente in piedi sull’acciottolato del lungo canale”.
La scrittura si fa ripresa cinematografica e conferisce ancora una volta una
straniante dinamicità agli oggetti messi in scena.
Ma c’è dell’altro in questi
racconti, che sono contemporaneamente qualcosa di meno e di più di una
codificata letteratura di viaggio.
Mancano, per dire, aneddoti
divertenti e curiosi riferiti a personaggi o a famosi monumenti dei luoghi
visitati. L’autore non cerca la meraviglia da descrivere all’attonito lettore
né il fatto divertente che renda gradevole la sua scrittura.
Piuttosto sottolinea la corrispondenza di sensi tra il
viaggiatore e la città. A Londra: Eccomi
qui a vagare perduto in questa sconclusionata Londra all’indecifrabilità della
metropoli fa fortunatamente da pendant la mia stessa, attuale, indefinibilità. È
su questa onda disturbata che finiamo per incontrarci, la città ed io. O
sulle Alpi valdostane: non si danno più
montagne incantate se non come dimensione spaziale e temporale interiore: anche
il senso esterno , dunque, diventa interno.
È in questo raffinato gioco
dialogico e sentimentale, in queste intersezioni e correlazioni tra soggetto e
oggetto, sguardo esteriore e interiore, sensazioni e riflessioni che è
l’essenza di questi racconti.
Meta-letteratura
e donne
L’autore-narrante interviene, anche
se non frequentemente, all’interno del racconto, come in Frammento milanese, dove esprime riflessioni metanarrative sulla
constatazione di essere rimasto senza
più storie da raccontare, consumate e digerite assieme al tempo che
passa, alle speranze alle ambizioni della vita .
O come in Lettere dalla Germania dove ad Heidelberg, scrivendo una lettera
destinata all’Amore mio, dice “Il viaggiatore è stanco. Ha inanellato città
su città, e (…) desiste dal proseguire (…) Ed eccomi alla fine muto”. E in
un’altra si chiede: “Non ruota questo
libro intorno a due alternative. Viaggio come ricerca - viaggio come fuga? In
entrambi i casi c’è una utilità del viaggio”. E nell’ultima. “Al di là dell’ultimo racconto, non c’è più
bisogno di partire se a casa ci sono due occhi che ti aspettano”.
E questa ultima osservazione ci
permette qualche nota conclusiva sulle donne, presenti in molti racconti,
compagne di viaggio, di parole, di avventura, d’amore, o di occasionali
incontri. Donne che non sono proiezioni letterarie, ma reali, carnali, con cui
condividere assieme un tratto di strada, più o meno lungo, ma sempre
interrotto. Per inerzia, stanchezza, forse inettitudine.
Amori filtrati, pensati, vissuti.
Donne belle, desiderate,
inafferrabili come le ragazze olandesi
che passano come una folata di vento in bicicletta, ridendo nell’aria fresca di
Amsterdam: “ I loro capelli, scomposti
nel vento e sfuocati nella luce, diventano una svolazzante massa di sabbia
dorata che, in un tempo senza tempo, non accenna più a ricadere al suolo”.
Amori sinceri, vissuti, che si
manifestano nella varietà delle loro espressioni: ora come momentanea appagante
felicità, ora come scambio di vissuti che si intrecciano in un dialogo, ora
come incontro basato sulla condivisione ora come relazione mediata dal corpo;
che, però, non si fanno compiutamente empatia, osmosi di universi diversi.
In fondo amore, viaggio, scrittura
sono in relazione analogica tra di loro. Ci si allontana da uno spazio abituale
mossi da una passione o da una ricerca di altro e si va all’ad-ventura, cioè si
opera un avvicinamento, tra esperienze ora gratificanti ora deludenti,
all’oggetto del desiderio. Non c’è un porto in cui quietamente approdare.
Il sale di ogni viaggio è
l’imprevedibile. Il suo senso è nell’attraversamento (dello spazio e del tempo,
della pagina bianca, della varietà dei sentimenti ), non
nel raggiungimento della meta. Il libro, questo libro di Rega, in cui tutto è
racchiuso, è solo un fugace approdo prima di riprendere subito la navigazione.
Pasquale Gerardo Santella
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