lunedì 23 giugno 2025

Una recensione di Raffaele Urraro per "Scrigno" di Rosaria Di Donato

 

Poesia del sentimento, poesia della realtà tragica dell’universo in cui siamo destinati ad abitare e vivere, poesia della natura e delle sue mille epifanie. Poesia varia e molteplice, dunque, quella della Di Donato, come è varia e molteplice la natura dell’uomo: c’est la vie, sì, è la vita che spinge il poeta a leggere nelle cose, in tutte le cose, e a costruire il proprio scrigno di pensieri ed emozioni, di sofferenze ed illusioni, ma anche uno scrigno di parole, che non sono le parole comuni, consumate dall’uso e sostanzialmente inservibili, ma le parole della poesia, le parole che servono per dire il senso della vita e delle cose, la ricchezza del nostro animo e la fragilità del nostro essere.  

   Proprio di qui vogliamo partire per questo breve viaggio in compagnia della poesia di Rosaria Di Donato, poetessa nella mente e nell’animo: non riposa l’estro / del poeta e dall’antro / gelido della parola / evoca il nuovo / l’inconsutile suono / che il tempo rischiara (pag. 39): parole che danno chiaro e pieno il senso del lavoro poetico, che è un lavoro a tempo pieno, perché il poeta è sempre proteso a far parlare le parole anche al di là del loro significato apparente, quello cosiddetto convenzionale, quindi anche al di là del suono dei loro significanti, sicché le tira fuori dal loro antro gelido, dove le parole sono destinate a marcire e morire nella loro “insignificanza” se non vengono salvate e rifatte, quasi riverniciate e portate a nuova vita, e le dispone in fila per farle parlare e dire tutta la loro verità, che è poi la verità del poeta. E quest’ordine è la misura del dettato poetico. A questo punto, se les mots font l’amour, come dice André Breton, il prodotto artistico sarà di alto valore poetico, perché esse debbono essere accostate tra loro in un sistema di empatica corrispondenza, o di chimica associazione. Ma se non “fanno l’amore”, se vengono inserite in una struttura caotica perché male ordinate, esse non sanno parlare, e se parlano, non hanno che dire.

   Rosaria è poetessa consapevole del lavoro che richiede il fare poetico: vagando in questo mare di parole / sovente indugio sui significati / paga non mai del senso letterale / smonto compongo lemmi iopoeta (pag. 40): lavoro che richiede acutezza d’ingegno per portare le parole dal loro uso normale ad una sorta di verginità semantica, perché solo così invento uno spazio parallelo / ove s’incontrano futuro novità / non mai termini logori scontati (pag. 40). Il titolo dato al testo da cui sono tratti questi versi, scintilla celeste, ci riporta al Leopardi, che proprio con quella espressione ha definito la natura del fare poetico, volendo metterne in rilievo la genesi particolare come una luce che abbaglia e accende nel poeta il suo spirito creativo, conducendolo alla costruzione di un mondo alternativo a quello reale. Perché?

   Perché è pur vero che Rosaria sente l’urgenza costrittiva della memoria che la porta a rivivere gli anni dell’innocenza, quelli della fanciullezza e dell’adolescenza, nell’Abruzzo, sua terra di origine, anni caratterizzati  da una sorta di vita campagnola a diretto contatto con la natura, con il fiorito ramo di melo (pag. 19); con l’armonia che torna con il fiorire della camelia (pag. 23); con l’anafrodisiaco fiore di loto (pag. 24); con le storie raccontate dal secolare ulivo (pag. 26); con il ricordo commosso della figura paterna; con la riscoperta del vero significato dell’essere nata e vissuta in quella terra, in un angolo di cielo / dove il vento rincorre nuvole / e spazza via la tristezza (pag. 33), dove il silenzio tra cielo e mare è luogo dell’ascolto senza fine (pag. 34): un mondo descritto con una evidente corrispondenza tra le parole e la tipologia della realtà, corrispondenza che si coglie nel linguaggio che corre direttamente verso la cosa che deve significare. Ciò la porta a dire che non lascerò / morire un sogno (pag. 36) perché continuerà a coltivarne la memoria, perché la memoria riscalda l’anima e aiuta nel cammino della vita e spesso contribuisce financo a superare la solitudine che affligge o annienta. 

   Ma tutto questo si svolge in un universo dominato da stelle, pianeti e, soprattutto, dall’orizzonte degli eventi (pag. 41), cioè in un universo bello e terribile nel quale è confinata la nostra vita, in una distesa di buio e di luce / in cui perdersi ritrovarsi / senza schemi (pag. 41), al confine tra la nostra esperienza terrena e l’oltranza sconosciuta, quando, come afferma Leopardi, questo arcano  mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi (Cantico del gallo silvestre). Rosaria, però, non si ferma davanti a un orizzonte così drammatico e, ricorrendo all’incipit giovanneo (In principio era il Verbo), giunge fino a quella “genesi” del mondo derivato anch’esso dalla “parola” (Dio disse e luce fu), quel mondo che è stato fatto per noi, proprio come fa il poeta che con le parole crea il suo universo. E qui è la luce, che forse mancava al Leopardi, come manca anche a chi scrive queste note, perché Rosaria presenta il mondo nel quale viviamo come la derivazione e l’effetto del mondo della “genesi”: è in noi quel giardino / siamo uomini e donne / dell’eden non dell’inferno // ci sono strade per andare lontano (pag. 50), forse prefigurando in questi versi, positivamente, la sua strada, la strada della poesia, lungo la quale è facile incontrare lo stesso poeta di Recanati, anche se costui si pone in una posizione ideologica espressamente contraria alla sua.

   Ma la nostra poetessa va oltre la configurazione della vita dell’universo e della vita dell’uomo, oltre i problemi del fare poetico e quelli dei massimi sistemi, perché il suo sguardo si posa, malinconico e rattristato,  dapprima sul fenomeno del covid: segna un solco / il dolore al pensiero / di tanti che ci hanno lasciati / dei molti che ancora muoiono / nei paesi dove non c’è argine / alla miseria di vivere (pag. 51), fenomeno di cui riesce a cogliere la dolorosa connotazione e le tristi conseguenze, e poi il suo sguardo, inorridito e spaventato, si posa sulla violenza subita dalle donne e sul sangue da esse versato come una sorta di terribile sacrificio al dio della brutalità, dell’insipienza, della mostruosità insostenibile. E allora compaiono i fantasmi di donne trucidate per inconcepibili principi di sopraffazione: l’uomo si erge a padrone della vita e della morte. E ciò o per bieca volontà di prepotenza, come nel caso di Samia, uccisa per non aver voluto accettare un matrimonio imposto dal genitore con spregio violento del sentimento vero dell’amore della ragazza innamorata di un altro (sono io samia / nube dissolta nel vento / onda mai giunta alla riva; pag. 45), che Rosaria descrive con una incredibile leggerezza e levità espressiva, cogliendola nell’attimo in cui si verifica l’inganno e il disprezzo di ogni sogno e di ogni speranza, sicché l’onda non arriverà mai alla riva della celebrazione della vita vera e libera e dei sogni normali in una ragazza della sua età. O per la bieca violenza del potere politico, nella persona del Trujillo, che non consente alle sorelle Mirabal di vivere la propria vita in libertà: volevano essere farfalle / le sorelle mirabal / ma incontrarono la morte / sulla via per porto plata // e fu proprio quel giorno / che iniziarono a volare perché le ali delle mariposas / ridestarono coscienze (pag. 46): così la nostra poetessa celebra il sacrificio delle ragazze che credevano nel sogno della libertà e della vita vera. E la poesia di Rosaria si fa carico di queste tragedie della vita e le propone alla coscienza degli uomini come tragedie del potere che non si sa contenere nei limiti ad esso prescritti. 

   Ma che mondo è mai questo che soffoca sogni e libertà? Non resta che chiedere al vento / dov’ è la soglia / che conduce altrove / e disegnare / con lo sguardo al cielo / la rotta per i sogni / irrealizzati (pag. 57), e nel frattempo “fuggo dalla città e me ne vado errante / in cerca d’un tratturo antico / ove condurre il gregge dei miei sogni // stanca di rumori cittadini (pag. 62): tratturo che porta ai santi Michele e Giuseppe dai quali Rosaria si aspetta i veri insegnamenti sulla vita, mettendo a nudo la sua anima e la sua fragilità, che solo attraverso la poesia si denudano e si rendono manifeste. Lo dice chiaramente uno dei testi della sezione Chiaroscuri, testi composti in lingua spagnola seguiti dalla traduzione in italiano: scrivo perché non respiro / perché non trovo spazio / intorno a me / per i miei sogni / invece nella pagina / si aprono visioni / e la mia anima / vive (pag. 79), versi dai quali appare chiara la considerazione della poesia come spazio libero e autonomo, spazio di libertà nel quale si può parlare senza remora alcuna anche dei propri sogni d’amore, e dove si realizza quanto viene impedito dalla realtà, e anche dalla storia..

   L’altra sezione, Miniature, fatta di testi brevi, veri e propri haiku, nei quali non mutano le tematiche; muta soltanto la struttura dei testi rispetto a quelli delle precedenti sezioni. E infatti bastano pochi versi (5 + 7 + 5) per dire, in una sintesi efficacissima, un’idea, un concetto, il senso di una riflessione, il tutto condito da una voce che sussurra lievemente le parole, una sorta di flash che colpisce l’occhio del lettore e lo spinge alla meditazione, che è poi lo scopo fondamentale di ogni poesia. Due esempi: il tempo che si dissolve nella sua inutilità (fiori nel vento / si dissolvono giorni / senza un perché), e la dissolvenza dei sogni che perdono il loro senso trasformandosi in schiuma che si disperde e in conchiglie gettate sulla spiaggia ed abbandonate (onde del mare / si rincorrono i sogni / schiuma conchiglie).

   A conclusione della raccolta, ecco apparire, come dal mare un gioiello che non ti aspettavi, la sezione Tracce, poesie scritte in vernacolo, che presentano una particolare vivacità espressiva, una chiara freschezza linguistica, sia quando Rosaria parla di poesia (le notti che nun dormo / apro ‘no stuccio / de lucciche e parole // è la poesia / che sortita da lo stuccio / fa l’amore co l’inzogni // cunnola l’anime sconfuse), poesia che rappresenta il mondo alternativo dei sogni, sia quando parla dello scambio di ruoli tra la luna e il sole (se pò fa disse la luna / ar sole che sbrillucicava / io sorto de giorno / e tu spunti de notte // po’ èsse che scambianno / li fattori er risultato / sia tanto sorprennente / da mutà er còre de la gente), versi nei quali s’intravede la speranza di un mondo migliore. 

   Ho detto agli inizi che quella di Rosaria Di Donato è una poesia del sentimento, e lo è perché è viva la sua sensibilità verso i problemi della vita e dell’uomo, ma è anche una poesia nella quale rivivono persone ed eventi connotati dal senso del tragico intensamente vissuto e descritto, e inoltre è anche la poesia della natura, come si è visto in quella sorta di colloquio con le piante che ne sono una particolarissima espressione. Ma più di ogni altra cosa la poesia della Di Donato è una poesia aperta, che rifugge da ogni astruseria linguistica, da ogni gratuito gioco di parole, e si propone al lettore come un libro da sfogliare, scavare in profondità per poterne portare in superficie tutti i significati, anche quelli che a prima vista potrebbero apparire come nascosti nel gioco inventivo delle parole.

Raffaele Urraro

1 commento:

  1. Ringrazio Giuseppe Vetromile per la pubblicazione dell'accurata e puntuale recensione di Raffaele Urraro❤️💕
    Un cordiale saluto,
    Rosaria Di Donato

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