giovedì 22 dicembre 2022

Giovanni Ibello e il suo "Dialogo con Amin"

Giovanni Ibello è il più antico dei nostri giovani poeti. Il suo verso si immerge nelle origini, possiede il respiro cosmico dei poemi greci e indiani, è ricco di archetipi, presagi, divinazioni, tutto un universo di simboli arcaici che però viene esplorato da una parola conficcata nei nostri giorni.” Così afferma Milo De Angelis nella sua magistrale introduzione a questo bellissimo poemetto di Giovanni Ibello, dal titolo Dialoghi con Amin. E non si può che concordare pienamente con questa sua “presentazione” del giovane/antico poeta napoletano, sicuramente uno dei più importanti e significativi del nostro attuale panorama poetico italiano. L’analisi di Milo De Angelis è precisa e motivata, profonda nel sintetizzare in poche frasi tutto il progetto poetico del nostro autore, che con questa recente raccolta edita da Crocetti, conferma ancora una volta la bontà e la consistenza del suo dire poetico.
Viene da chiedersi chi sia Amin, con il quale Ibello si intrattiene in dialogo. Ma non ha nessuna importanza, in quanto la poesia pura è avulsa dai personaggi, vive di luce propria: voglio dire, che qui la protagonista principale è senz’altro la poesia stessa, indipendentemente dal personaggio o dai fatti sulla quale si “appoggia”. Al posto di Amin poteva esserci qualche altro riferimento, sebbene l’allusione al mondo orientale e in un certo qual modo mitico, possa essere un indizio coerente del suo discorso poetico. In effetti, Amin è ben collocato nel corpo poematico e offre la giusta “spalla” al poeta nel procedere del suo canto. Amin è, in fin dei conti, il riflesso segreto del protagonista, l’alter ego se vogliamo, l’ente con il quale ragionare e poetare.
E dunque basandosi su questa struttura dialogante, Ibello costruisce la sua proposta poetica, un’idea della vita e dell’esistenza che presuppone un distacco, un isolamento, una sorta di retroguardia da cui riflettere sullo stato delle cose e dell’universo: “È tutto calmo / qui è davvero tutto calmo, / il sole è una biglia di benzodiazepine”… La stasi, il guardingo celarsi dietro i muri della società asfittica, permette al nostro poeta di ragionare con controllata serenità e anche con una leggera ironia sulle vicissitudini del mondo, lasciando anche trapelare una qualche speranza, laddove suggerisce, consiglia, di rimanere in attesa, muti, senza proferire alcuna parola, in quanto si “troverà un altro modo per fare alta la vita”.
E in fondo, è proprio così: siamo davvero soli, isolati in una realtà che forse ci precipita addosso e cerca di ferirci, per cui è necessario l’estraniamento, il ramingo punto d’osservazione virtuale, per tenere lontano il buio (“quanti millimetri ci separano dal buio?”: basta un nonnulla, e ci cadiamo dentro, ineluttabilmente!). Per cui: “Amin, / noi / siamo / soli”, e questa assoluta, perentoria e laconica certezza poetica e filosofica è accentuata dai quattro versi costituiti dalle singole parole dell’enunciato. Come a ribadire l’assoluta necessità di una riforma di vita, di una redenzione che porti ad altra umanità: “Stanotte muoio cane e poi rinasco / ragno di luce estenuata. / Anche tu la chiami morte / questa armata / silenziosa, senza luna? / La preghiera del giorno: siamo muti. / Tutto si separa per venire alla luce.”
È una poesia colta e robusta, quella di Giovanni Ibello, che riesce in pochi versi ad abbracciare significanze eterogenee da un punto all’altro del cosmo, con la sua forza propositiva ricca di figure simboliche, di allusioni, di riferimenti mitici e del mondo orientale, e di metafore. Una poesia della solitudine, certamente, ma una solitudine necessaria per individuare con il dovuto e sereno distacco la confusione del mondo con tutte le sue corse al potere, al fuoco rimasto nelle pietre, affinché si possa ripartire in modo sobrio, rinunciando e confutando falsi cieli e falsi splendori: “Rinuncio al cielo-ziqqurat, baratro di uccelli. Rinuncio ai falsi om



Cercava la risacca nelle pinete

fiutava l’ombra di un ago sul fondale,

la panacea di un abbandono.

Conta fino a zero, le dissi

salta nell’arco cinerino.

È tutto calmo

qui è davvero tutto calmo,

il sole è una biglia di benzodiazepine.

C’è ancora un intreccio

di gelsomini carbonizzati sulla pietra.

L’estate,

una valanga di aceto sopra i fiori.

Ma in questo valzer di occhi crociati

non dire una parola,

non parlare.

Troveremo un altro modo per fare alta la vita.

 

 

 

Amin, è quasi giorno,

è la resa dei fuochi invernali

l’ectoplasma del divenire.

Dio, gheriglio di stella

insegnaci a svanire

poco a poco

insegnaci il dialogo amoroso

tra i picchi delle braci

e l’arpionata notte.

Adesso è tutta luna nuova

mentre ancora

tiri a sorte la vena

dio anatema,

ti sfiori trasognato le palpebre…

Quanti millimetri ci separano dal buio?

 

 (Da: Parte Prima. Yucatan)


***


io non torno più

Ricavo dai roghi autunnali

un altare di gemme,

è il menhir dell'esiliata luna.

Io sono Giovanni

e non ho mai chiesto di essere amato.

L'amore stringe nel seno

la sorte del tuono:

frantumare il vetro dell'esistenza.

Così noi, ebbri di giovinezza

corriamo a perdifiato nell'oltrenero,

succhiamo avidamente

il fuoco rimasto nelle pietre

e brindiamo / all'ombra che fu delle pinete.

Ogni cosa rivela

quel nulla che siamo già stati.

Tutto simula la quiete.

Poco distante, un uomo prende a pugni la rena.

Dice: “Credimi, noi non stiamo per rinascere.

Nessun verso sconta la primavera”.

 

 

 

Di quello che sognavi veramente

non resta che un silenzio siderale

una lenta recessione delle stelle

in pozzanghere e filamenti d’oro.

E il riverbero delle sirene accese

sui muri crepati delle case.

Così dormi, non vedi e manchi

il teatro spaziale delle ombre.

Il desiderio è l’ultimo discanto.

Ma quanti gatti si amano di notte

mentre l’acqua scanala nelle fogne.

 

(Da: Parte Seconda. Teorema dei roghi)


***


Ecco il primo giorno senza luce,

i lemuri lunari e altre asfissiate divinità.

Sempreverdi di pena

e stanze inchiavardate nel disamore.

Amin,

noi

siamo

soli.

E anche per questo

non abbiamo tollerato la vita.

 

 

 

dentro un cielo che fu lunato / io, oscuro natante...

Rinuncio al cielo-ziqqurat,

baratro di uccelli.

Rinuncio ai falsi om,

al sacerdozio della luna.

Stanotte muoio cane e poi rinasco

ragno di luce estenuata.

Anche tu la chiami morte

questa armata / silenziosa, senza luna?

La preghiera del giorno: siamo muti.

Tutto si separa per venire alla luce.

 

(Da: Parte Terza. Be aware of god)


***


Cosa resta del sogno?

 

Io non lo so cosa resta del sogno. Io sono inutile come

la pace. Sono il ras delle ombre, luce cariata dall'avveni-

re. Conservo questa macellazione del bianco e tracanno,

da ogni vena di luna, quel vino fatto aceto che chiamavo

incanto.

 

 

Quando tutto sarà finito

sarà il sonno a irrigidire gli occhi

ma prima della fine

c’è una retrospettiva lenta dell’infanzia,

una campionatura degli amori.

Poi il respiro si risolve

in un orgasmo neuronale,

è come un’implosione di pianeti nella mente

una turbativa siderale

del corpo che ritorna seme.

 

(Da: Parte Quarta. Luce cariata dall'avvenire)

 

Brani tratti da Dialoghi con Amin, di Giovanni Ibello; Crocetti Editore, 2022; Introduzione di Milo De Angelis

Giovanni Ibello (Napoli, 1989) vive e lavora a Napoli. Nel 2017 pubblica il suo primo libro, Turbative Siderali (Terra d’Ulivi edizioni, con una postfazione di Francesco Tomada). L’opera vince il “premio Città di Como” (sez. opera prima), il "premio dell'Osservatorio letterario permanente della Fondazione Lermontov" e risulta finalista al “Ponte di Legno Poesia”, al “Città di Fiumicino” (come opera prima) e al “Camaiore Proposta – Vittorio Grotti”. Il lavoro è stato recensito su diverse riviste letterarie e lit-blog italiani. È direttore della rivista «Atelier» (sezione online) e collabora con il blog di poesia della Rai di Luigia Sorrentino in qualità di traduttore. Cura e seleziona i contenuti del canale instagram "Rai Poesia". I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue tra riviste, blog e volumi antologici di poeti italiani all’estero. Nel 2018 si aggiudica il “premio Città di Fiumicino” per la sezione “opera inedita” con una prima versione del poemetto “Dialoghi con Amin”. Una sua antologia poetica è stata pubblicata in Russia per l'editore Igor Ulangin nella collana "Contemporary italian poets" a cura di Paolo Galvagni (traduzione di Tatiana Grauz). Nel  gennaio 2021 inaugura la rubrica di Milo De Angelis “I poeti di trent'anni” sulla rivista Poesia di Crocetti.



sabato 17 dicembre 2022

"Lascia la rosa nel giardino", di Emilia Santoro

Come nella maggior parte dei filoni poetici di grande interesse, anche in questa pregevole raccolta della napoletana Emilia Santoro, tra l’altro eccellente scrittrice e anima molto sensibile alle problematiche sociali e ambientali, emerge soprattutto una ricerca assidua dei fondamenti che potrebbero dare un senso all’esistenza, o perlomeno alla quotidianità, intesa come tempo da trascorrere giorno dopo giorno dedicandosi opportunamente ad un modo, una modalità creativa sostanziale e formale che possa condurre o almeno tendere in qualche modo alla piena realizzazione di sé. È lo spirito che muove ogni uomo e in particolare ogni artista. Ed è lecito supporre che anche Emilia Santoro non sia da meno rispetto a tanti altri buoni poeti nell’esprimere in versi significativi e propositivi questo impulso interiore, questa necessità di scoprire e di scoprirsi i segreti reconditi del cuore e della mente.
In Lascia la rosa sul bordo del giardino (titolo veramente originale e propositivo), la nostra autrice si avvale di un bagaglio lessicale ampio e colto, adeguato a supportare le idee di base che costituiscono l’ossatura dell’intera raccolta poetica. Ossatura che si fonda essenzialmente su alcuni termini di primaria importanza, come “giardino”, “silenzio”, “itinerario” o “cammino”, più volte allusi anche se non espressi direttamente, e dai quali si diramano poi tutte le altre venature e sfumature del suo discorso poetico. C’è un centro da proteggere, una “stanza” da cui osservare la realtà esterna, da cui tentare il salto oltre il “bordo”, cercando di non sciupare la rosa dei ricordi, anzi aspettando con pazienza e determinazione il momento giusto, in un ipotetico mattino metafora di una qualche speranza di rinnovata visione del domani.
Le quattro “stanze” in cui la nostra poetessa suddivide la sua storia sensibile e squisitamente umana, sono la rappresentazione di altrettanti stati d’animo o modalità di osservazione della realtà esterna, attraverso il filtro della propria esperienza poetica.
In “Macramé” Emilia Santoro cerca di comporre, come in un prezioso merletto, il tessuto delle sue riflessioni sulla vita, incastonando il suo tempo con acqua, sangue e sudore, simboli di purezza, coraggio e tenacia. In “Duetto” c’è il dialogo persistente tra sé e l’altro, presumibilmente l’immagine speculare dell’autrice, il suo io segreto, in cui esorta a non oltrepassare il “giardino”, metafora della realtà quotidiana e dei valori conquistati, portando con sé false illusioni (le rose) e sogni forse irrealizzabili. Una pausa, un respiro, un ricordo: sono i brani che compongono ls terza stanza “Dedicate”, mentre con “Le meraviglie e l’orizzonte” la Santoro conclude la raccolta riepilogando il mistero del creato.
Un libro complesso, dunque, che con le sue “quattro stanze” assume una pienezza progettuale significativa, toccando gli aspetti essenziali della vita e delle sue attese. Con versi puliti, fluidi, in cui l’assenza della punteggiatura denota un certo concatenamento interno che può fare a meno delle pause.



Nuovo cammino

 

Ma il tremolio di un bastone di spago

Non può oscurare un nuovo cammino

Può solo legare la voce ad un albero di melo

E aspettare con ansia che faccia mattino

 

 ***

 

Donna di pietra

 

Come orafo lavoro tre stille

 

D’acqua di sangue di sudore

Senza sciupare particella

Di luce di amore di calore

 

Plasmo negli anni l’esistenza

Di una donna di pietra nera

Da un’ematite appena nata

 

Un’anima ingrosserà il suo ventre

Frantumando in polvere rosso sangue

Quel corpo di marmo eterno di tempo

 

Galleggiando s’aprirà il portone della vita

Avanzerà i primi passi sul tallo del dubbio

Con occhi che sanno d’infinito vuoto

 

(dalla “Prima Stanza, Macramè”)

 

 ***

 

 

Lascia la rosa sul bordo del giardino

 

Lascia la rosa sul bordo del giardino

O incastonata tra spine

Sanguigne e protettive

Non tagliarla

Perché perderebbe il profumo

Denso di freschi respiri

Puoi lasciarmi qui

Delle rose ho il segreto

Tu alza il muro del giardino

 

 

 ***

 

Io invece

 

Io invece

Ho il cuore silenzioso

Piuttosto una nota sola e tagliente

Lo infilo nella valigia

E sospendo il suo respiro

Tutt’uno col profumo

Di lavanda e ciclamino

 

E aspetto

 

Nella valigia ho chiuso il cuore

Umido di sangue e asciutto d’amore

Non voglio guardarlo

Nemmeno salutarlo

Aspetto che parta da solo

E che mi lasci libera e in volo

 

 ***

 

Non disturbare alcun dio

 

Non disturbare alcun dio

Sento solo mille voci

Cantano pensieri liberi

 

Poche braccia accolgono la libertà

Altre protendono verso le gabbie

Perché raccontano la morte lontana

 

E canto pensieri

Rime storte rami storti figli storti

 

- Non hanno ordine le cose!

Non hanno ordine i discorsi!

Il caso, dio, il destino, i miracoli…

Urli dal tuo giardino chiuso

Io cerco solo l’ordine delle cose

E sconfina di continuo la mia libertà

 

(Dalla “Seconda Stanza, Duetto”)

 

 ***


Alle barche senza mare

 

Attraversiamo nudi l’inverno

Eppure l’aria sembra più dolce

Appena appena meno pungente

Come a voler annunciare una primavera

Una delle tante con foglie verde alito

E papaveri come labbra rosso fuoco

 

Forse è perché scrutiamo lontano

A cercare altro prossimo tempo migliore

Teniamo la barca ferma sul piedistallo

Sotto un cielo di tepori e luci artificiali

Senza oceano e neppure mare

Ma stretti a un’illusione pura e trasognata

L’attesa senza tempo del viaggio immaginario

 

Mi sento così ferma nell’avvenire

La barca si rimpicciolisce sul basamento

E torna a essere nana l’anima mia

Come soffio di vento così affine alle idee

Anima di polistirolo sbriciolata di bianco

Paradiso di dolore transitorio

Dove non esiste il silenzio assoluto

 


(Dalla “Terza Stanza, Poesie dedicate”)

 

 

***

 

Una spirale di pallore lunare

 

Una spirale di pallore lunare

Avvolgeva la ghiaia del fiume

Fluiva di scaglie luminose

 

La luna sospesa in un sorriso

Distratto e melenso

Si dondolava in una danza carnale

 

Sul ponte ballavano i mendicanti ciechi

Ciechi e tra pazienti si cercavano le mani

E frusciavano le tuniche d’orbaccia

 

I cuori di giorno turati da bambagia

S’aprivano di notte all’infinito

All’oscurità protettiva e certa

I vapori dei cuori si mescolavano ai sensi

Roteavano come stelle tremolanti

Infuocate e vive

 

Volteggi fluidi al cielo i volti

Occhi enormi soffusi di pudore

Occhi sgranati sull’anima del creatore

 

(Dalla “Quarta Stanza, Le meraviglie e l’orizzonte”)


Brani tratti da:

Emilia Santoro, Lascia la rosa sul bordo del giardino, IOD Edizioni, 2021; prefazione di Lucia Stefanelli Cervelli

Emilia Santoro è nata a Napoli. Dal 1983 insegna nella scuola pubblica a Marano di Napoli e trascorre metà del suo tempo con i bambini, apprendendo dai loro linguaggi.

Negli anni novanta sono stati pubblicati suoi racconti sulle riviste letterarie “Linea d’Ombra” e “Dove sta Zazà”, entrambe dirette da Goffredo Fofi. Sempre in quegli anni, la sua raccolta di poesie Macramè viene segnalata nella rivista di ricerca letteraria “Anterem”.

Nel 2066 ha pubblicato La sparizione (Manni Editore), romanzo che incarna il dramma della scomparsa di un paese e cerca di salvarne le storie.

Nel 2013 vede la luce il suo secondo romanzo, Asino senza lingua (Homoscrivens Editore), in cui si percepisce un’umanità ormai trasformata dalle sorti incerte del nostro pianeta. Infatti, nel 2008, in piena crisi dei rifiuti in Campania, scrive con Ettore Latteri il dossier “Chiaiano. Emergenza ambientale e democratica” (reperibile in rete).

Dal 2019 collabora alla rivista letteraria “Achab” diretta da Nando Vitali.




martedì 13 dicembre 2022

"Il bambino d'oro", il nuovo romanzo di Rita Pacilio

Un uomo di circa cinquant’anni viene travolto da eventi che lo catapultano nel suo passato in cui i riti puberali condivisi con Bea riemergono prepotentemente suscitando vere e proprie ossessioni maniacali. Affetto da masturbazione compulsiva entra in terapia per riuscire a controllare la sua complessa emotività legata alla sessualità poliforme e al senso di inadeguatezza che ha messo in crisi il matrimonio e la sua vita. La psicoterapeuta gli propone una strana e originale terapia per guarire…

 

Rita Pacilio, poetessa, scrittrice, direttrice editoriale e critico letterario di grande spessore, ci sorprende ancora una volta per la varietà ma soprattutto per la bontà della sua produzione letteraria, sia che si tratti di poesia, sia che riguardi la narrativa e la saggistica. Il filo conduttore, robusto e sempre attuale, dei suoi progetti letterari, è improntato essenzialmente da una profonda ricerca dei più reconditi aspetti socio-psicologici dell'animo umano, e dei comportamenti che ne derivano in ambito familiare e sociale.

Questo romanzo, tratto da una storia vera, ne è testimonianza importante e significativa. Il tema di fondo viene trattato con grande consapevolezza e decisione, ma anche con estrema delicatezza.

Rita Pacilio, Il bambino d'oro, peQuod Edizioni, ottobre 2022

Rita Pacilio (Benevento, 1963) è poeta e scrittrice. Sociologa di formazione e mediatrice familiare di professione, da oltre un ventennio si occupa di poesia, musica, narrativa, letteratura per l’infanzia, saggistica e critica letteraria. Direttrice del marchio Editoriale RPlibri è Presidente dell’Associazione Arte e Saperi. È stata tradotta in nove lingue. Sue pubblicazioni: Per la ​​poesia​​: ​Luna, stelle e ... altri pezzi di cielo – (E.S.I. 2003); Ciliegio forestiero (LietoColle 2006); Tra sbarre di tulipani (LietoColle 2008); Alle lumache di aprile (LietoColle 2010); Di ala in ala (Pacilio – Moica, LietoColle 2011); ​Gli imperfetti sono gente bizzarra (La Vita Felice 2012); Quel grido raggrumato (La Vita Felice 2014); Il suono per obbedienza (Marco Saya 2015); Prima di andare (La Vita Felice 2016); Al polso porto catene (RPlibri 2019); La ferita dei fulmini (GaEle Edizioni d’Arte 2019); La venatura della viola (Ladolfi 2019); Quasi madre (Pequod 2022); Di ala in ala con Claudio Moica (RPlibri 2022).

Per la prosa poetica: Non camminare scalzo (Edilet 2011); L’amore casomai (La Vita Felice 2018).

Per la saggistica: Pretesti danteschi per riflettere di sociologia (Guida Editori 2021); Assunta Finiguerra: il fuoco della poesia (RPlibri 2022).

Per la narrativa: Cosa rimane (Augh Utterson 2021); Il bambino d’oro (Pequod 2022).

P​er la letteratura per l’infanzia: La principessa con i baffi (Scuderi Editrice 2015; Cantami una filastrocca (RPlibri 2018); La favola dell’Abete (RPlibri 2018); La vecchina brutta e cattiva (RPlibri 2019); Tre gemelline ballerine (RPlibri 2022).


giovedì 8 dicembre 2022

Antonella Castigliano e la sua poesia dell'"oltre"

Un bellissimo e interessante esempio di come l'attività professionale possa contaminare il flusso artistico e creativo di una persona, arricchendo in questo modo la sua inclinazione e dedizione poetica, è sicuramente fornito dalla scrittura in versi di Antonella Castigliano, di Castellammare di Stabia, laureata in matematica e docente nei licei. Dico questo, perché la sua poesia fondamentale, che qui proponiamo, quasi una dichiarazione di poetica, riassume a nostro avviso tutto il progetto poetico dell'autrice, in cui i riferimenti matematici (tendenza, asintoto, infinito...) fanno elegantemente e intelligentemente da schema portante di una poesia che mira essenzialmente al raggiungimento della meta che ognuno di noi, e l'umanità intera, si prefigge: una ricerca continua e progressiva, che forse mai si riuscirà a completare, ma che è necessaria per la nostra quotidiana sopravvivenza. Una ricerca di equilibri, di positività e di pienezza dell'essere, un progettare "oltre" la materialità del contingente, oltre tutti gli ostacoli e le negatività che attanagliano l'animo.

Una poesia da seguire con interesse, quella di Antonella Castigliano, che si snoda fluida, con una schietta leggerezza ma racchiudendo riflessioni e immagini di grande impatto emotivo.


Oltre

 

Bisogna guardare oltre,

oltre lo spazio, oltre il tempo,

oltre i ricordi che attanagliano l’animo.

Oltre la siepe immaginare spazi diversi,

senza tempo,

lì dove il cielo sembra baciare la terra

nella simbiosi imperfetta d’un legame immaginario.

E la mente si perde

nell’immensità dell’infinito, oltre il limite del possibile,

nel punto improprio della sua anima.

Come una curva tende al suo asintoto,

io tendo a te

in una distanza

il cui limite non tenderà mai a zero.

Ci sarà sempre una piccola frazione di tempo,

un minuscolo frammento d’esistenza,

un impercettibile brandello di vita

a tenerci lontani.

Sarà l’incertezza del presente,

la paura del domani,

il ricordo del passato

a tenere il tuo sguardo

al di qua della siepe

con un percorso invalicabile

che renderà vano ogni sforzo.

Un pallone per il paradiso che,

di Archimede memoria,

senza alcuna fatica o sofferenza,

ti trascina oltre,

dove i tuoi sensi ti spingono,

senza giudizio alcuno. Non si può fluttuare

nel mare dei sogni,

senza coscienza dei limiti. Non si può,

per smisurato egoismo, intrecciare l’ordito

ma sempre e sempre poi disfare la tela.

Odissea d’altri tempi,

che mal si addice al mito di Ulisse.

Qui non c’è Ilio,

che ti costringe a lotta d’impari dominio.

Ma la mente rifugge la semplicità

e i sensi vagano

fra i sentieri più tortuosi.

Eppure, mai si perde

la speranza

che lo sguardo voli infine oltre la siepe.

 

Antonella Castigliano risiede a Castellammare di Stabia. Laureata in matematica, è dirigente scolastico di un liceo e di un istituto tecnico. È giornalista pubblicista. Ha pubblicato le raccolte di poesia: Tratti di vita e Iperboli dell’anima. Pescatore di perle è la sua terza raccolta. Ha collaborato alla pubblicazione di altri due testi ma di natura diversa, uno sul corallo ed uno di scienze sperimentali (altro settore).


martedì 6 dicembre 2022

Matteo Piergigli e il suo "dovere di restare"

Pubblichiamo volentieri qui di seguito un testo poetico di Matteo Piergigli, poeta anconetano molto apprezzato e del quale abbiamo già avuto modo di parlare, essendo stato inserito nel Volume XX dell'Antologia "Transiti Poetici".
Anche qui, il nostro autore si distingue per il suo particolare procedere poetico, fatto a "tappe" che si susseguono repentinamente, distanziate da un simbolico asterisco che però non ne nasconde la consequenzialità. Tappe brevi, concise, metafore di un discorso intimo molto più ampio e riflessivo. Citazioni epigrammatiche costruite su un impianto poetico essenziale, scarno, privo di ogni inutile perifrasi. Versi che riflettono dunque la crudezza del sopravvivere, in una realtà immersa nella desolazione e nell'abbandono. Ma "il dovere di restare" è il senso, forse l'unico, che incita e incoraggia il superamento del buio e del tedio.


il dovere di restare

 

prega un corpo

l’inverno sul viso

alfabeto dei vivi

la notte dentro

a imparare addii

*

(ora) è già buio

si procede ho fede

nella carne arriverà

senza essercene accorti

presto sarà di noi

*

mi insegue il niente

cammino sul bordo

ho l’obbligo di rimanere

la poesia impara

a morire

*

sole freddo

hai bisogno

del mio presente

ogni giorno sembra

un addio

*

cadono foglie sorrisi

nuvole sul pavimento

diventare ombra

dietro la tenda

tutto nero su bianco

*

la parola trafigge

la gola dei morti

trattiene il taglio

tutto il niente

si confonde

c’è solo il cielo

sul fondo nero

una riga bianca

*

è morto in un giorno

di settembre senza rima

quel che ami rimane

nei vestiti estivi

i piedi adagiati sulle nuvole

non c’è usucapione

di speranza


Matteo Piergigli è nato a Chiaravalle (An) nel 1973. Si diploma nel 1992, quattro anni di vita militare come ufficiale dell’Esercito e dal 1999 è impiegato tecnico presso un’azienda che gestisce il S.S.I. nella provincia di Ancona.

Nel 2015 pubblica Ritagli (Casa Editrice Kimerik), nel 2016 la raccolta Notos a cinque mani (Aletti Editore) e Ritagli 2 (Arduino Sacco Editore).

Nel 2016 e 2017 partecipa a due ritiri poetici della Samuele Editore e Laboratori Poesia.

Sempre nel 2017 viene inserito nell’antologia Laboratori di poesia – testi 2017, con altri otto autori (Samuele Editore).

Nel 2019 pubblica La densità del vuoto (Samuele Editore).

Tra il 2015 e il 2020 riceve riconoscimenti e apprezzamenti in diversi premi letterari.

mercoledì 16 novembre 2022

"Il camaleonte", di Gerardo Aluigi

 

Abbiamo già avuto modo di parlare della poesia di Gerardo Aluigi, autore che vive a Pagani, in provincia di Salerno (Transiti Poetici, 9/1/22), presentando il suo ultimo lavoro poetico dal titolo “Rebecca”, RPlibri, e sottolineando la sua vena di nostalgia nel riproporre, soprattutto a sé stesso, ricordi e memorie intrisi di un accorato sentimento di rimpianto.
Quella vena poetica si è un po’ attenuata, forse esaurita nel compendio di un’opera meritoria finalizzata a far emergere simili sentimenti, dando però maggiore enfasi a stati d’animo equilibrati e consapevoli, capaci di gestire al meglio, attraverso i corpi poetici, il dolore e la sensazione della fine. E in effetti è ciò che si può evincere leggendo i versi de Il camaleonte, l’ultima raccolta poetica del nostro autore, sempre edita da RPlibri, la pregevole casa editrice di San Giorgio del Sannio che annovera ormai, nel suo ricco catalogo, autori illustri ma soprattutto autori seri e impegnati, che amano la poesia, la seguono e la scrivono dedicandovi studio, ricerca e costante frequentazione.
Notiamo dunque in questi versi che, nonostante l’ordine sparso dei vari testi, essi costituiscono comunque un unicum complessivo e articolato; ma leggendo bene in filigrana, viene a nudo l’ansia e il timore della morte, forse ancora residui di un dolore che non è stato del tutto metabolizzato e che, come dicevo, appare in primo piano in Rebecca.
Sono immagini varie e riflessioni sul senso dell’esistenza, rapportato alla natura e al mondo circostante. Una poesia che emerge autentica dal profondo, maturata attraverso l’esperienza della vita e capace di suggerire, di proporre a tutti che, al di là delle mestizie, è ancora possibile cedere lo scettro all’alba perché rimanga mattina.
Così, come il camaleonte si adegua all’ambiente mimetizzandosi in esso a seconda delle circostante, il nostro Gerardo Aluigi cerca, con questi versi de Il camaleonte, di adattarsi, quasi di rassegnarsi alle situazioni emotive ancora derivanti dalle ferite e dalle esperienze di vita trascorsa.

 

Si vive

 

Vivi nell’abbandono

di quell’istante

quando il suo passo

frettoloso nasconde

il desiderio.

 

Ma ciò rimane

nell’aria come fuoco

nutre e divora

il tuo mondo.

 

Salirai i gradini

del cuore

e gli dirai di zittirsi

gli dirai

che è una follia

amarla.

 

 

***

 

Parla della purezza

 

Come la neve pallida

è il tuo viso

che cuce il vestito

sulla tua pelle

con un forte ricamo

della mano, della tua mano

che vuol far conoscere

il colore vissuto,

il bianco pudore, che scende

prima della morte.

Se è quando verrà

i tuoi occhi l’hanno

già vista

nel supremo dolore

del giorno.

Tu, strapperai dal petto

il tuo cuore

il tuo cuore di neve

di terra, di respiro.

Il tuo corpo vuoto

leggero nelle ali

sarà del cielo

ed è lì per te solo

tu, che sei appena nato.

Tu, divorato dal nostro tempo.

 

 

***

 

Nell’aria sciogliersi

 

Sciolgo le mie radici

dal lungo albero

che in me viveva.

 

Le sciolgo con pallide mani,

con tremanti mani

perché ogni ramo

è qualcosa appartenuta al tempo.

 

Furono gli anni che permisero

a quel legno di carne

di amare o odiare

essere

giardini proibiti

giardini bruciati

dal sole del cuore.

 

Ho radici, radici

vi stenderò sulla strada

che vi vide fiorire.

 

Vi stenderò come un carnefice

ammassandovi tutti insieme

per fare un falò

e quando le fiamme toccheranno

le dita del cielo

sarete aria fumosa

impazzita nebbia.

 

Il grigio del vecchio si smarrirà

nello spazio

osserverò le ultime scintille

color d’oro fermarsi

per un attimo

davanti ai miei occhi.

 

 

***

 

Dove andranno

 

Dove andranno le lacrime ora

dove andranno a posarsi?

Quale terra verrà bagnata

dai tuoi occhi?

E il cuore li seguirà?

Lui è folle senza te

lui è folle.

Dove andrà a cimentarsi

in quale arena?

In quale corpo

troverà rifugio

dove godrà?

Il piccolo cuore

il violento cuore

dove andrà?

Sarà temerario

ucciderà la solitudine.

Dimmi, dove andranno

lacrime e cuore?

 

 

***

 

Un giorno in riva al mare

 

La luna è una flebile luce

sulle acque buie del mare

polverose sono le onde

trascinano l’estate stancamente

verso un autunno frammentario

come i cocci trovati da mani inesperte

bambini, i bambini padroni della riva

infiniti gli occhi che osservano

quella mancanza.

Egli rigira il corpo nel gesto lento,

di spalle andrà lontano, lontano

nel suo tempo

donando le ossa al mare

per essere mistero

o colpo d’ala per dimorare nello spazio:

un’effimera gioia?

 

 

***

 

Io e la luna

 

L’aria di fine agosto

ingloba la notte sul filo del rasoio,

il riparo sorvola la noia

ti aggrappi al domani

sperando che non sia fumoso

d’asfalto.

 

Le rime nella testa

risuonano come ebrei erranti

che cercano la terra promessa.

 

Chiedi alla luna il sospirato riposo

la vedi nel suo kimono giallo limone

tagliata a metà dal tempo e dagli uomini

scontenti, sembra cadere nella sua luce.

 

Ultimo avviso al torrido agosto:

alla figlia alba cederà

lo scettro per rimanere mattina.

 

 

***

 

Fermeranno la vita?

 

La mia vita

i pensieri

sono sul muro

ghiacciato

degli indifferenti.

 

Come luoghi comuni

vanno e vengono

con strane culle

che dondolano

bambini

che moriranno,

questi non hanno tempo

non lo conoscono

hanno solo fame

dov’è la balia?

Il suo seno sconfina

solo nelle bocche d’oro.

 

Ella è dura come l’ora che passa,

ella è al soldo di chi paga,

paga.

Raderanno l’infanzia che corre

raderanno i sogni

raderanno il bambino

che ancora vive?


(Brani tratti da: Gerardo Aluigi, Il camaleonte, RPlibri, 2022)


Gerardo Aluigi è nato nel 1950 e vive a Pagani (SA). Appassionato di poesia ha pubblicato nel 2008 la raccolta Gli argini del silenzio, LietoColle; nel 2015 Nudi, come il dolore, Guida Edizioni e  nel 2021 Rebecca, RPlibri. È presente in alcune antologie poetiche nazionali. I suoi testi partono da una profonda ferita, così come lui stesso ama ribadire.

sabato 12 novembre 2022

"La vita in dissolvenza", di Lucianna Argentino

Tutti conoscono la celebre frase Panta rei, con la quale Eraclito con grande soavità e saggeza, suggeriva a tutti la rassegnata ineluttabilità del fluire di ogni cosa e quindi l’inanità di qualsiasi provvedimento umano e materiale capace di modificare o persino di arrestare questo scorrere continuo e irrefrenabile del tempo e della natura, direi del cosmo intero.
Le cose, il mondo, la vita stessa dell’uomo, dunque, lo sappiamo tutti, hanno un inizio, si evolvono, si sviluppano, per poi frantumarsi, smaterializzarsi, terminando la loro esistenza. Si tratta di una consapevolezza generale e generalizzata, che ognuno porta dentro di sé anche non pensandoci, non preoccupandosene, lasciando teorizzare il tutto agli scienziati ma principalmente ai filosofi ed eventualmente ai teologi. Ma qui rischiamo di addentrarci in un campo molto delicato e suscettibile di infinite discussioni, da affrontare in altre sedi. Quello che voglio dire è che il poeta ha sempre cercato, in genere, con la sua sensibilità ed esperienza, di trattare in tanti modi questo argomento per certi veri scabroso e impervio. Mi vengono in mente, ad esempio, alcuni versi di Giovanni Raboni, che dicono “Dammi tempo, non svanire, il tempo di chiudere i tanti conti vergognosi in sospeso con loro prima di stendermi al tuo fianco”… C’è urgenza quindi di recuperare ogni cosa, ogni bene, ricordi e valori, prima della “dissolvenza”, prima del finire perduti e dimenticati nel gran polverone della storia.
È così pure, per certi aspetti, l’aspettativa di Lucianna Argentino in questa sua ultima opera letteraria, La vita in dissolvenza. Ma c’è una peculiarità, in questo denso poema sulla vita e sulla morte, che lo contraddistingue in modo deciso, secondo me, e si tratta del fatto che l’autrice racconta, dice, il confine, il punto di congiunzione tra la vita che va dissolvendosi e l’inizio di un’altra realtà, da qualche altra parte, in qualche altra situazione: “La sento, sai la sento la forza che ci plasma / plasmare te nel mio utero / fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua / e tu, grappolo di vita, mora succosa, / aggrappato alla mia carne…” È il canto di una madre che non rinuncia al parto pur essendo consapevole della propria fine imminente causata dal cancro. Sono versi pregni di pathos, quelli del poema iniziale, Madre, dedicato alla storia di Rita Fedrizzi, una storia vera che Lucianna Argentino ha stigmatizzato con grande immedesimazione e trasporto poetico.
In effetti il libro si compone di 4 poemetti, strutturati come monologhi, (Madre, Gestazione dell’addio, 1941 e Aurora/Sara), tutti e quattro riferentesi a storie vere, che l’autrice traduce in versi ponendosi a fulcro, al cosiddetto punto di non ritorno, per accogliere da un lato la vicenda umana e psicologica, l’esistenza dei protagonisti di ciascuna delle quattro vicende che va ineluttabilmente verso la dissipazione, la morte, la “dissolvenza” appunto, ma che nello stesso tempo comincia a riscattarsi, a recuperare libertà e dignità risalendo l’impervia erta della riconoscenza e della giustizia. Abbiamo già accennato alla vicenda di Rita Fedrizzi, in Madre; analogamente, in Gestazione dell’addio la vicenda amara di Valentina Cavalli, seviziata e violentata, trova paradossale rifugio nel suicidio ma è messaggio forte all’umanità perché rifletta sulla gravità dell’abbandono: “Al mondo non c’è più una parola per me / una parola il cui peso di consonanti e vocali / sia remo e timone per me e-stremata, gettata lontano / senza più storie attraverso cui raggiungermi.” E in 1941 troviamo la congiunzione della fine suicida di due illustri poetesse, Virginia Woolf e Marina Cvetaeva, ambedue suicidatesi in quella fatidica data del '41, come se avvertissero già il tetro presagio della guerra. Anche loro, con la loro morte, simbolo di riscatto e di libertà da ogni tipo di oppressione.
Infine, in Aurora/Sara, l’ultimo poemetto, Lucianna Argentino si ispira alla vicenda umana di una compagna di scuola di sua figlia; una bambina nata prematura, che vive un’infanzia difficile e scabrosa, aggrappata comunque alla vita tramite la sua bambola orba, Aurora.
Un libro intenso, che parla di soprusi, di violenze, di ingiustizie, un libro che però mostra a tutti noi l’umanità e la tenacia, l’attaccamento alla vita ma soprattutto ai suoi valori anche con l’estremo sacrificio della morte, del suicidio, della dissolvenza di sé, per offrire a tutti un fiore e un’alba di speranza per un mondo migliore!

 

La sento, sai la sento la forza che ci plasma
plasmare te nel mio utero
fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua
e tu, grappolo di vita, mora succosa,
aggrappato alla mia carne
fatta falda di sangue per le tue radici. Radice io pure
eppure io albero da frutto, ponte da te edificato
dalla tua voce chimica inturgidita.
In me ti seppellisci, in me sprofondi
e mi faccio pasto, focaccia
per il tuo crescermi negli abiti, nei cromosomi,
per il tuo somigliare a tutti quelli della tua misura.
E tu fai me fuori misura, me donna sempre in fuoriuscita,
in spargimento di qua da te,
a prepararti un nome, a scavarti un luogo.

(Da "Madre")


***

Trovarla nella caduta perpendicolare
del sangue la parola giusta
che mi raschi dalla pelle tutto il male,
che mi scavi le ossa e mi faccia cava
per galleggiare almeno in quest’aria
che non riesco più a respirare.
trovarla negli otto minuti di travaglio
della luce ora che sto come il cielo
dismesso dalle rondini,
la verità dimenticata dall’ombra,
le lenzuola sui davanzali, al mattino,
prostrate in un rigurgito di buio.
trovarla la parola giusta e difficile
ora che il mondo è tutto e solo visibile,
la parola che è segreto e mistero
e luce all’esistenza, quella che dice l’amore
quella che m’è rimasta dentro muta
perché non ho più un te
e nemmeno un io e sono metallo gelido
bronzo che risuona
cembalo che tintinna*.


(*) da L’inno alla carità. 1 Corinzi 13,1-13

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, / ma non avessi
la carità, / sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.


(Da "Gestazione dell'addio")


***


Ecco settembre scalpitare irrequieto alla porta
ne sento l’odore, ne vedo il volto sfocato
laggiù lungo i confini dei campi che ardono aridi,
vedo i miei demoni galleggiare
sopra un mare calmo di luce e di afa
in agguato come una fiera
che mi fa preda e si nutre della mia anima.
Come una bambina serro le labbra, affamata rifiuto
questo tempo che mi consuma, fa di me pasto.
Un tempo estraneo ed estranea io dentro me stessa,
perso lo sguardo capace di penetrare le cose,
di scucire le apparenze, cogliere l’essenza.
Attonita mi brancola in braccio la luce,
il suo seme spento soffoca le promesse
per questo da mesi cerco un gancio,
un corrispondente esterno al gancio
che dentro batte sbatte al posto del mio cuore,
– zattera alla deriva approdata a questa trave di legno bruno
come le mie mani scurite dal continuo sbucciare patate
che non me le bacino più! ormai sono sconsacrate.
E con queste mani scrivo il mio ultimo canto
la mia morte verticale – volo d’allodola –
offro il collo all’addiaccio della corda,
l’avvolgo attorno al gancio, mi assicuro sia ben salda,
non ceda, non si sciolga, ma mi lanci di là come freccia
attraverso i sette cieli, senza bersaglio
lungo la linea dell’eternità.

(Da "1941")


***



Mia madre è una stronza
beve e grida alla nonna, a volte la picchia
a me no, a me non mi tocca
ma certe volte maledice il giorno in cui sono nata
e la sua voce mi imprigiona il cuore
che batte come un ramo contro una finestra
e intanto lotta con la tempesta.
Poi quando c’è lui mi manda via,
mi manda a dormire dalla nonna.
Mia nonna poveretta lei mi vuole bene
ma da sola con questa figlia e quell’altra morta
non ce la fa. Mio padre non so dove sia
e ogni giorno un poco me ne va via il ricordo,
l’odore che a volte mi sembra di sentire
non so cos’è che gli impedisce di tornare,
quale incantesimo lo tiene lontano
o se è perché non so essere figlia.
Come non sapevo che gli alberi
e i fiori e l’erba avessero radici sotto
a tenerli attaccati alla terra
e mi chiedevo com’è che non cadessero
che non se li portasse via il vento
come mi chiedo ora com’è che non volo via
se non sento radici sotto i miei piedi.

(Da "Aurora/Sara")

Lucianna Argentino, La vita in dissolvenza, Samuele Editore, 2022, prefazione di Sonia Caporossi.

Il libro è stato presentato nella Biblioteca di Bacoli (Na) il 11 novembre 2022, nell'ambito del secondo incontro della Rassegna "La Musa Flegrea", organizzata e condotta da Annamaria Varriale e Giuseppe Vetromile.

Lucianna Argentino è nata e vive a Roma. Dai primi anni novanta il suo amore per la poesia l’ha portata a occuparsene attivamente come organizzatrice di rassegne, di presentazioni di libri e con collaborazioni a diverse riviste del settore. Intensa è sta ed è la sua attività letteraria e poetica, con partecipazione a diverse importanti antologie, festival e rassegne poetiche. Numerosissimi i premi ricevuti e le pubblicazioni di raccolte poetiche con vari importanti editori nazionali. Ricordiamo le più recenti: Le stanze inquiete (Edizioni La vita Felice, 2016), L’ombra dell’attesa (Macabor Editore, 2018), Il volo dell’allodola (Edizioni Segno, 2019), In canto a te (Samuele Editore, 2019). Il suo ultimo lavoro poetico La vita in dissolvenza, Samuele Editore, (quattro monologhi al femminile) è stato musicato dal chitarrista Stefano Oliva e presentato in vari teatri, associazioni culturali e Festival.

Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà