giovedì 30 giugno 2022

Carmina Esposito, "I miei colori scalzi"

Un artista si pone sempre nella migliore condizione spazio-temporale per osservare il mondo esterno, ma anche le misteriose evoluzioni del suo mondo interiore, per poi trarne tutto il succo e l’essenza, cose necessarie affinché possa poi esprimersi attraverso la sua arte e riportare davanti ai sensi di tutti quello che lui ha visto, sentito, ascoltato; tutto quello che lo ha impressionato ed emozionato.
Se è un bravo musicista, tradurrà in note e in sinfonie questa realtà percepita; se è uno scultore o un pittore, lo farà attraverso la manipolazione della materia e l’uso della matita o del pennello. Se è un poeta, lo farà con le parole organizzate in versi e in poesie.
Se poi l’artista in questione è sia bravo pittore che bravissimo poeta, ecco allora che la sua produzione può sortire arricchita, impreziosita dall’integrazione armoniosa di queste due arti sublimi. È proprio questo il caso di Carmina Esposito, che alterna, sì, la sua espressione artistica a seconda dei momenti e delle occasioni, ma quando dipinge dona ai suoi quadri una forte atmosfera poetica, e quando scrive dona alle sue composizioni poetiche gli stessi colori e calori che utilizza nei suoi quadri. Non è un mischiare distratto dei due talenti creativi, si badi bene, ma è una vera e propria integrazione.
Ora, la poesia di Carmina Esposito si pone proprio al centro della sua interezza artistica: I miei colori scalzi, titolo del volumetto che stiamo presentando (e non poteva esserci titolo più esplicito e aderente a quanto accennavo più su!), stanno proprio ad indicare quella base di osservazione, quell’angolo, quella prospettiva ideale, discreta ma nobile, nuda, basilare, essenziale, per poter meglio descrivere il mondo evitando tutte le sovrastrutture e gli inganni, quelle sviste, quelle pesantezze e ingombri che ne impediscono una serena osservazione e valutazione.
In sostanza, il titolo del volumetto, che sempre è indicativo in qualche modo del contenuto, di quello che l’autore intende dire e offrire, è perfettamente aderente al suo progetto, e cioè quello di voler parlarci del suo intendere la vita, la quotidianità, la società e persino le emozioni i sentimenti e i rapporti umani, ponendosi non in alto, su una torre, bensì umilmente e semplicemente, sintonizzandosi sulle stesse frequenze emozionali e riflessive degli altri, del pubblico, dell’umanità circostante. Carmina ha saputo creare una sintesi perfetta tra artista del pennello e artista della parola, unendo e integrando i suoi tramiti, i suoi strumenti, e cioè i colori e le parole, in un termine che, sintetizzato in “i miei colori scalzi” del titolo, vuole significare tutta la sua essenzialità, schiettezza, pulizia, onestà e umiltà nel descrivere le cose del mondo interiore ed esteriore.
Ed è proprio con i suoi colori scalzi, cioè essenziali, senza ulteriori rivestimenti o supporti, ma diretti e schietti, che Carmina Esposito attraversa con questo libro di poesie tutto il suo vissuto esperienziale ed emotivo, con un linguaggio misurato e aderente, e nello stesso tempo intenso e significativo. Il suo è uno stile asciutto ma per questo non privo di note di alta musicalità e di vibrazioni emotive forti.
Con questa sua recente opera letteraria, Carmina Esposito conferma la sua indubbia validità creativa, sia in campo prettamente artistico, e sia soprattutto in ambito poetico. La poesia in lei è presente e viva, e alimenta continuamente il suo potenziale creativo, che si attualizza anche attraverso l'ideazione e organizzazione di vari incontri ed eventi letterari al fine di incentivare la diffusione della cultura sul territorio.


Carmina Esposito, I miei colori scalzi, Ombrature e chiarie; Ladolfi Editore, 2020; prefazione di Armando Saveriano.

domenica 26 giugno 2022

La velata ironia nei versi di Simone Consorti in "Voce del verbo mare"

Non si scherza con la poesia. La poesia è una cosa seria. La poesia è qualcosa da maneggiare con cura, con attenzione estrema. La poesia, è materia destinata a coloro che la sanno trattare con delicatezza e con sicurezza, come l’esperto ballerino sa ballare bene il tango, o l’esperto scalatore sa come arrampicarsi lungo una parete per raggiungere la cima; o come l’esperto funambolo sa mantenersi in equilibrio su una fune tesa da un balcone all’altro. Mestieri pericolosi, attività fuori dalla portata di tutti. Pure il poeta è così, dovrebbe essere così. Attenzione nel maneggiare le parole, col pericolo di cadere per un nonnulla, di farsi male sul pavimento della banalità o della ovvietà.
Simone Consorti, a prima vista, anzi a prima lettura, sembra uno di questi sportivi estremi che osano sfidare l’impossibile. Lui ne è perfettamente consapevole. Ma le sue poesie, che, appunto a prima vista sembrano essere un gioco, in realtà non lo sono affatto. Sono una cosa seria, serissima, per quanto sostenuta da un’ironia a fior di pelle, sottile, adombrata dallo “scherzo”, ma ben efficace, potente.
Voce del verbo mare, titolo quanto mai esplicativo, è dunque una raccolta poetica di grande respiro, dove i testi si susseguono liberi di raccontare visioni, riflessioni sulla vita, sullo stato dell’essere, sullo stesso senso del fare poesia, sostenuti da un’architettura del tutto originale, che mostra una grande padronanza del lessico e dell’infinita possibilità di gestire la parola poetica in modo che “dica” non solo il significato intrinseco ma anche ciò che sta oltre, o, come preferisce l’autore stesso, dietro: “Dietro questa poesia ce n’è un’altra / che tu non sei in grado di leggere / e il cui significato / non potresti reggere”.
Abilissimo “funambolo” della parola poetica, Simone Consorti si destreggia tra ritmi, cadenze, allitterazioni, improvvisazioni, bisticci semantici e tanti altri virtuosismi espressivi che, si badi bene, non sono affatto proposizioni basate su sperimentalismi vuoti di significato, ma al contrario testimoniano l’indovinata forma stilistica, del tutto personale, propria di un dire poetico originale e colto, che accompagna ed integra contenuti importanti, anche sociali e civili, oltre che attinenti alla quotidianità di ognuno di noi.
Ma leggiamolo qui, in questi pochi ma ben rappresentativi brani tratti dalla sua raccolta “Voce del verbo mare”. I nostri lettori sapranno sicuramente, se lo vorranno, aggiungere altri interessanti commenti in proposito.



Dietro questa poesia ce n’è un’altra

Dietro questa poesia ce n’è un’altra
che tu non sei in grado di leggere
e il cui significato
non potresti reggere

Dietro questa poesia c’è una cosa
che non è nemmeno poesia
Spiegarlo a parole è impossibile
Mi servirebbe un Dio
capace di mostrare alla marmaglia
che perfino nella notte più buia
c’è un cane che abbaglia

Dietro questa poesia c’è una sorpresa
una corda impiccata
alla sua attesa

Dietro questa poesia
è inutile che giri di colpo
Non intendo la pagina sotto



***


In ogni bara lasciateci un buco

In ogni bara lasciateci un buco
per farci entrare il mondo
oppure un bruco

In ogni bara lasciateci un buco
per fare uscire almeno un po’ di buio

C’è tutto ciò che han veduto
negli occhi di ognuno
quando si chiudono

In ogni bara lasciateci un buco
a forma di nuvola


***


Un’altra poesia dei doni

C’è questo signore che all’alba
porta tutti i giorni il padre al mare
Prima di tutto gli dice
di respirare
poi pianta il suo bastone sulla sabbia
come sul suolo lunare

Una volta seduti sul tronco
gli toglie le scarpe e i calzini
sostituendoli con universi
di minuscoli granelli
Stanno un’oretta così
a vedere avvicinarsi l’orizzonte
e venirgli incontro il mondo
in un risveglio tutto loro
prima che l’uomo gli tolga i granelli
scoprendo un tesoro



***

Pessoa

L’imprevisto era previsto per le quattro
Io sarei arrivato in ritardo in anticipo
e tu in anticipo in ritardo

Io sarei tornato
a riprendermi una mia impronta
e tu a recuperare una tua orma

Io avrei avuto un’intuizione
e tu
un déjà vu

È tutta la vita che ci presentiamo
là dove non ci siamo
Che ci presentiamo
anche se ci conosciamo
“Piacere Fernando Pessoa”

L’imprevisto era previsto per le quattro
ma per uno sciagurato contrattempo
si è dovuto rimandarlo



***

Mentre Dio faceva il suo dovere

Per consolarmi penso a chi sta peggio
al ragazzo senza braccia per esempio
a cui di continuo prudeva l’orecchio

Non so se fossero pidocchi
o scabbia o lebbra
o una furia psicologica
che lo rodeva come un tarlo
ma doveva per forza grattarlo
grattarlo grattarlo grattarlo

A pochi passi dalla cattedrale
aveva eletto uno spigolo in basso
da un muro diverso da tutti gli altri muri
che un giorno avrebbe consumato
se non si fosse consumato prima lui

Trovava il suo sollievo torturandosi
sempre allo stesso modo
sempre allo stesso ritmo
sempre allo stesso posto
mentre Dio faceva il suo dovere
restare nascosto




***

Il mare intanto attende

Attracca una barca
e un uomo saldamente poggia il piede
sull’orma che lo segue
e lo precede

Il mare intanto attende
la restituzione di tutte le onde



***


Voce del verbo mare

“Il vero infinito è il passato remoto
perché per l’eternità
nessuno potrà toglierci
ciò che è terminato già”
disse lui con un tono un po’ rude
“Semmai il passato prossimo
perché è iniziato ma non si conclude”

Poi riuscirono a litigare
perfino su come coniugare
l’infinito del verbo mare


Brani tratti da:

Simone Consorti, Voce del verbo mare, Arcipelago Itaca Edizioni, 2022

Simone Consorti è nato nel 1973 a Roma, dove insegna in un liceo. Ha esordito con L’uomo che scrive sull’acqua ‘aiuto’ (Baldini e Castoldi 1999, Premio Euroclub 2000, Premio Linus). Ha pubblicato i romanzi Sterile come il tuo amore (Besa 2008), In fuga dalla scuola e verso il mondo (Hacca 2009), A tempo di sesso (Besa 2012), Da questa parte della morte (Besa 2015), Otello ti presento Ofelia (L’erudita 2018), La pioggia a Cracovia (Ensemble 2019). Ha pubblicato diverse raccolte di poesia, tra cui Nell’antro del misantropo (L’arcolaio 2014) e Le ore del terrore (L’arcolaio 2018). Le sue piéces Berlino kaputt mundi e Sterile come il nostro amore sono andate, con successo, in scena rispettivamente al Teatro Agorà e al Teatro Antigone di Roma tra il marzo e il giugno del 2018. Si occupa di street photography. In questo ambito ha tenuto mostre personali in Italia e partecipato a collettive in Francia e Russia.


mercoledì 15 giugno 2022

La ricerca dell'"Ideale" nella poesia di Alessandra Callegari

Nei lunghi viaggi nel mondo della poesia contemporanea, capita a volte di incontrare sorgenti di eccezionale freschezza e purezza: un meraviglioso fluire di versi brillanti che offrono, dicono, affermano con schiettezza e determinazione l’originalità della fonte. È il caso della giovane poetessa Alessandra Callegari, la quale mostra di avere senza alcun dubbio una sua linea e struttura poetica decisamente propositiva e dai contenuti molto interessanti, incentrati prevalentemente sulla ricerca determinata e costante di una possibile personale verità interiore in opposizione a tutte le omologazioni e ai cliché imposti da una società quasi sempre stereotipata e superficiale.
C’è dunque, nei versi di Alessandra Callegari, questo tormento “ordinato”, controllato, misurato ma impetuoso e coinvolgente, che spinge il proprio io, e nello stesso tempo invita il lettore, a interrogarsi profondamente sul senso dell’esistenza, traguardando possibili sogni, ideali, persino utopie, che possano strappare l’uomo ad una realtà fasulla, opprimente, per ricondurlo in un mondo che sia veramente autentico, proprio, e in cui si possa finalmente affermare e confermare la propria umanità, la libertà della propria creatività.
Una poesia forte e di sostanza, quella di Alessandra Callegari, che si annuncia perentoria, indica una necessità di cambiamento di prospettiva, per sé stessa e per il lettore, con versi che si susseguono incalzanti, con una incisività profonda e convincente. 

Proponiamo qui di seguito alcuni brani tratti dalla recente raccolta “Afonia diurna”, edita da Rogiosi nel 2020. Sono testi che, a mio avviso, testimoniano in modo eccellente il dettato poetico della nostra autrice. Saranno comunque graditi ulteriori commenti e riflessioni in proposito, da parte dei lettori che da tempo ci seguono con interesse.


I. ARS POETICA

 

“Perché realizzare un’opera d’arte

quando è così bello sognarla soltanto?”

             (Pier Paolo Pasolini, Decameron, 1971)

 

Amo solo ciò che è distante

Ciò che non ha mai visto le luci infernali

Ciò che non è mai esistito.

Amo la de-realizzazione del vissuto consapevolmente,

Cenere che cade da dita rugose,

 

perché ti ostini a plasmare nell’argilla

infinitamente

ciò che solo esiste come Idea?

 

Amo l’Ideale dell’esistenza sussurrata

Del letto disfatto dopo la notte di poesia

Dei corpi avidi che si stringono alla bianca parete

Dopo essersi cercati nel sordo nulla della non-realtà

Della felicità possibile su una lunga scogliera

Ove ogni onda mi restituisce le lacrime

Ove il cielo mi riempie la bocca mentre ti ammiro

nella piena realizzazione dell’impossibile

Ove la promessa non è un delitto

 

Credo in una sola verità onnipotente

Che non coincida con quella morale

Con la doxa

Con voi tutti, che persistete nella vittoria del concreto

Nella liturgia dell’azione.

 

Credo nella mia verità perpetua

Dell’essere aria inarrestabile

E indefinita

Dell’essere acqua che fluisce

placida

dalle rocce

E che si infrange

poderosa

sul lungomare, porta della libertà non vigilata

Dell’essere sogno

Di chi non conosce le sue preghiere

Dell’essere Musa

inconsapevole

Di ogni rima incatenata.

 

Credo nella mia verità

Non meno piena di una volgarmente condivisa

Di una che semina morte

E che canta se stessa prima di ogni cosa

E che si afferra alle labbra

Di chi, folle,

incita all’azione come massima virtù mondana

Contro il dolce ozio dei sensi

Nella speranza di un Oltre non ancora inventato.

Si costruiscono muri

Che osano disturbare gli dei

si nega l’Essere

si strappano occhi

si ama male

pur di non pronunciare

l’Assurdo

ancora in vita.

 

Io,

la mia verità,

Non ho bisogno di proteggerla

Non ho bisogno della morte

Perché essa sia conosciuta.

 

Io mi innamoro dell’Assurdo.

 

Io,

La mia verità,

La diffondo con la Bellezza

Dello sguardo affamato

Con la cupidigia

Delle dita bianche

Con le forme

Velate di altrui desiderio

Con le immagini

Fasciate di un nero manto

Con le parole

Che imperiosamente mescolo e adorno e cospargo di

fiori secchi

Ormai ricordo, ormai immagine, ormai Idea

Che lascio bere come fatale filtro

A chi desidero mio adepto

voluttà di ciò che non può esistere al di fuori dei miei

atomi.

Io,

la mia verità,

lascio che viaggi come dardo infuocato

su ogni singola testa con corona di alloro trovata tra

pagine prosaiche

su ogni singolo corpo imbalsamato per i riti d’amore

su ogni anima debole che segue la falsa, accecante,

scia.

 

Credo in una sola verità onnipotente

Che è madre

Che è figlia

Che è spirito profano

 

Della mia sublimata esistenza

Che si erge nella coltre di chi arranca

Della mia imperitura bramosia

Di ciò che non voglio avere in questa vita

Ché perderebbe tutta la perfezione del non vissuto

Tra le mie mani di peccatrice

Inesperta dell’agire

Forzosa educanda della vita.

 

Mi inginocchio alla poetica del vago

Del colore sbiadito

Dell’attimo immaginato

Dell’incontro sperato

Della melodia interrotta

Del profumo sbiadito

Della voce assegnata

Dell’amplesso frammentato

Del paesaggio scorrevole

Fugace

Inesistente.

Eppure, violento.

Come me,

spirito inviolabile,

peccatrice dell’Ideale

Martoriata da un dogma che non si è mai espresso.

 

 ***

 

XIV. QUASIMODO

 

E come potevamo noi amarci

Con il gelo nel cuore

E le membra tremanti

Sconvolte dal passato;

E come potevamo noi cercarci

Con generosità e pudore

Quando siamo gettati in un’arena

Con corpi vellutati, puliti, perfetti.

Mi strazio l’anima

Mi strappo gli occhi

Urlo l’indifferenza che bevo

Dalle parole;

E come potevamo noi dimenticarci

Di essere noi

Noi, che viviamo adesso

E non ci interessa null’altro

Che la frenesia di un vivere pubblicitario.

 

Addio, sparisco qui,

mi scopro ancora viva

ma

innamorata dell’indifferenza del secolo del simbolico.

 

 ***

 

XXII. IMAGO MUNDI

 

Ho sostituito parole

Con immagini.

 

Sono per la povertà del linguaggio:

non conosco grammatica

ma traduzione.

 

Il mondo non è reale

Mediato

In figure, simboli, clichés, correnti, intertesti;

il mondo non è mai

reale

non è

più reale di me.

E cosa posso dire, allora, Io.

 

Io non mi appartengo,

non più di quanto il mondo rappresentato

appartenga a me;

Io sono il rappresentante del mondo

Che in me ha riversato se stesso,

ché con esso mi sono fuso

tetra nebbia di molecole in serie.


(Brani tratti da Afonia diurna - Esercizi letterari, di Alessandra Callegari, Rogiosi Editore, 2020)

Alessandra Callegari, nata a Napoli nel 1992, vive tra Bracciano e Napoli, sua eterna nostalgia. Si forma come umanista, affascinata da tutte le modalità di creazione umana, presso l’Università degli studi di Napoli L’Orientale, dove si laurea in letterature straniere nel 2016. Nel 2017 frequenta presso l’Istituto Cervantes di Napoli un master in Traduzione letteraria per l’Editoria, che le dà la possibilità di indagare ancora più dall’interno i meccanismi della poesia e di curare la traduzione di alcune liriche pubblicate nella rivista letteraria messicana Círculo de poesía. Nel 2018 cura la traduzione dall’italiano allo spagnolo della raccolta poetica Sorgente di giardini di Maria d’Albo (Raffaelli Editore). Tra il 2019 e il 2021 si concentra sullo studio del linguaggio nella letteratura spagnola degli anni '60, partecipando ad alcuni convegni internazionali (L'Orientale, 2019; University of Massachussets, 2021) con degli interventi sullo scrittore Luis Martín-Santos. Attualmente lavora come consulente letterario presso una casa editrice romana. Afonia diurna – esercizi letterari, è la sua prima raccolta di poesie. 

Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà