lunedì 26 settembre 2022

Quasi madre, di Rita Pacilio

 

È davvero arduo parlare della poesia di Rita Pacilio, dovendo concentrare tutto il suo mondo in poche righe. È tale la vastità non solo della sua produzione poetica, ma anche dei temi da lei trattati, e delle diversificazioni e articolazioni delle sue ricerche, progetti e scritture, dalla poesia al romanzo, dalla saggistica alla letteratura per l’infanzia, al teatro e persino al canto, che occorrerebbe una trattazione ben voluminosa per ciascuna delle sue modalità artistiche e letterarie.
Ma veniamo a Quasi madre, raccolta poetica recentissima, edita da PeQuod e arricchita da una dotta postfazione di Piero Marelli, poeta illustre, vincitore tra l’altro del Premio alla carriera nella 18a edizione del Premio Nazionale di Poesia Città di Sant’Anatasia. È un libro intenso, compatto nella sua tematica e nello stesso tempo ricco di spunti di riflessione su alcune problematiche sociali e familiari che in questi tempi così frenetici e frammentati, spesso vengono sottovalutate o ignorate. Allora, come afferma anche Piero Marelli, l’arte, e in questo caso la Poesia, può essere valido strumento, o se vogliamo linea comunicativa, almeno per evidenziare e descrivere con tutte le nervature del caso, la complessità di certe situazioni e di certi rapporti. Tutto questo, afferma ancora giustamente Marelli, senza peraltro cadere (e facilmente ciò accade nel fare poesia) in prospettive eccessivamente melodrammatiche o scontate o banalmente pietose. E qui entra in gioco la forza, la potenza della parola e del verso, che “dice” ad alta voce la verità fino in fondo, fino al più doloroso recesso del cuore e dell’anima, senza peraltro scendere nel privato e nel personale. Ed è proprio questa luminosa veemenza della parola (e in questo libro è del tutto evidente!), che in qualche modo l’autrice riesce a confutare il dramma e il dolore, fino a far intravedere un equilibrio di accettabilità, non di rassegnazione, ma di acquisizione, di appropriamento, di integrazione. Non a caso, infatti, alla fine del libro, nel penultimo testo, Rita Pacilio afferma: “Non giudicarmi colpevole / se provo a rianimarla. Pensi mai al parto delle api, / alle mani giunte dei gelsomini in fiore? / Se sento l’allegrezza delle cose che crescono / forse è tutto: / sono troppo vecchia per odiare il mondo”.
La poesia, si sa, può anche scaturire da moti dell’anima, prendere spunto, diciamo così, da certe situazioni difficili e precarie, nell’ambito sociale e familiare, ma questa è solo una giusta partenza per generalizzare, rendere condivisibile per tutti il tema, l’argomento, rielaborandolo tecnicamente e rendendolo esteticamente fruibile. In Quasi madre ritroviamo questo principio di base, che con grande competenza letteraria e poetica, la nostra autrice applica nel porgere il suo dettato lirico inerente al rapporto con la madre. Ed è un lungo dialogo, un continuo e articolatissimo colloquio con lei, ma in definitiva anche con sé stessa, laddove riflette, ama, soffre, si dispera, odia, e mille altri sentimenti contrastanti si agitano nel cuore dell’autrice.
La grandezza, la bontà di questo lungo spinoso viaggio nel mondo materno, disallineato e distorto dalla malattia, sta a mio avviso nell’aver saputo tradurre in forma altamente poetica l’arduo e complesso sistema di relazioni tra madre e figlia. Sembra a volte che le due figure siano intimamente e osmoticamente connesse, compenetrate l’una nell’altra, senza un margine netto che le possa distinguere, pervase da un affetto umanissimo quanto ancestrale, e quel quasi madre è un tentativo, almeno per un attimo, di riconoscere nella genitrice quel legame forte e indissolubile che normalmente si stabilisce. Ma è solo un attimo, poi tutto si distanzia, si incattivisce, si ammalora, e la sofferenza riprende il sopravvento.
Una scrittura compatta, a volte trafelata, a volte serena (ma non gioiosa), che rispecchia in pieno la complessità di sentimenti, di pensieri, di intendimenti e di stati d’animo che caratterizzano nella realtà sociale, familiare e umana, questa dolorosa situazione, fin nei minimi particolari.
La poesia di Rita Pacilio è talmente alta e forte, che riesce a trattare questi argomenti (vedi anche la tematica di Gli imperfetti sono gente bizzarra, o di Quel grido raggrumato), che ruotano attorno all’universo dei deboli, della violenza sulle donne e di genere, dei pregiudizi e delle ingiustizie, con un tocco lirico vibrante e veemente, di grande resa, ma anche con una delicatezza eccezionale e con un dettato poetico aderentissimo ai contenuti, che sa essere nello stesso tempo amaro e dolce, crudo e soave, intimo e graffiante, a seconda delle situazioni, ma sempre colto, intelligente, originale: peculiarità, queste, che ritroviamo necessariamente in ogni strutturazione del buon dire e fare poetico.

Proponiamo qui di seguito alcuni brani tratti dal suo libro:

Hai messo gli occhiali scuri per non guardarmi.

Là dove sei si sciolgono parole

non ti scomodare, non devi volermi bene.

È così semplice trovare una scusa

bastano tre secondi per chiudere la bocca

centenaria. Per incapacità di amare

inciampi ancora nella calunnia

ti guardo con commozione, allungo la mano

mentre dentro di te tutte le lupe

gridano a raffica impaurite di saperti

senza pietà.

 

 ***


Lasciata nel riflesso come un filo

legato a una vertigine

sfrangiata da piccole pieghe

lei

si adorna di sogni avvampati.

Mia madre riflette cicli di giorni

e notti rimestando dialoghi

platonici, i silenzi del destino.

Se la verità non avesse segreti

avrebbe la tua limpida voce,

giardini fioriti, la porta aperta.

La senti? Ha detto qualcosa?

La divinazione è nel lampo,

nel morso di un ultimo bacio.

 

 ***


Esco dalla porta di dietro

sembro un ragno impigliato nella tasca

di un uccello.

In mano la paura della morte

tre parole balbuzienti e tutti i rumori

che fa con i denti.

L’ho lasciata nella bestemmia

lottare con il verme solitario della veglia:

Qui non dormo, non dormo.

Tremano vetri e palpebre tatuate

lei si gira piegata sul bastone

aeroplani da guerra i capelli

sulla nuca qualcuno è rimasto ucciso

picchiato a sangue.

Luisa le dà il braccio: lunedì ti porto

le caramelle.

Di colpo tutto si fa pianura e nebbia.

 

 ***

 

Ha nascosto i panni in una busta

l’infermiera si ferma più avanti

e lascia fare: Portali a casa,

qui non devono stare!

Si sente l’eco cristallina verso l’alto

qualcuno chiede la bambola per dormire

piega il colletto della camicia

come una vena rotta e mi guarda

quasi madre

disabitata con la testa curva, aspra

disperata.

Dunque tocca a me tornare all’origine

affrontare la barriera dell’orgoglio

scongiurare che lo squalo mesto e sordo

possa ingoiarmi intera.

 

*** 

 

Dalla finestra ti vedo curva, bianca

e alta

scesa dal cielo come chiara rugiada

tra me e te c’è il passato difficile

un timone spezzato senza meta.

 

Oggi ti stringerei forte!

 

Vivessi a lungo amerei la promessa

la malizia velata e incerta

perché in amore accade così.

 

Nemmeno per un attimo insieme

tu mi dici.

 

 ***

 

Mamma ti ho portato le caramelle

per rinsecchire il nodo che ho in gola,

lo faccio per me come le bianche preghiere

in cui deposito sconfitte e le cose vane

ti racconto che sto male, l’aorta, la tosse

gongoli nel tuo inferno maledetto

e non mi vedi, non mi vedi.

Sento ribollire la vendetta, aspetto

unoduetre minuti le parole che stai

pensando accuratamente. Sai spezzare

ogni ferro con la lingua, ti sale la vampata

della rabbia e dici: Maledetto il giorno

che ti ho messo al mondo.

 

 ***

 

La montagna in fiamme il giorno prima

dispera

l’ultimo lungo sospiro di sconforto

ma un merlo fischia sulle arance

perdonando il fumo delle piume nere;

non dirmi che la terra è vedova

e finita

non giudicarmi colpevole

se provo a rianimarla. Pensi mai al parto delle api,

alle mani giunte dei gelsomini in fiore?

Se sento l’allegrezza delle cose che crescono

forse è tutto:

sono troppo vecchia per odiare il mondo.


(Da: Quasi madre, di Rita Pacilio, PeQuod Edizioni, 2022; postfazione di Piero Marelli).

Rita Pacilio è nata a Benevento, vive ed opera a San Giorgio del Sannio (Bn). È sociologa di formazione e mediatrice familiare di professione; da oltre un ventennio si occupa di poesia, narrativa, letteratura per l’infanzia, saggistica e critica letteraria. È presidente dell’Associazione “Arte e Saperi”, con la quale promuove la cultura letteraria ed artistica ed organizza eventi, rassegne ed incontri letterari. È direttrice del marchio editoriale RPlibri. È l’ideatrice del Festival della Poesia lungo la viaun altro modo per dire la poesia, che cura con la collaborazione di Giuseppe Vetromile. È stata tradotta in nove lingue. Sue recenti pubblicazioni in poesia sono: Gli imperfetti sono gente bizzarra, Quel grido raggrumato, Il suono per obbedienza, Prima di andare, L’amore casomai, la venatura della viola.



lunedì 5 settembre 2022

Il "Nero crescente" di Patrizia Baglione

Dopo La mia voce (Quid Edizioni, 2019) e Malinconia delle nuvole (Kimerik, 2020), Patrizia Baglione, poetessa di Veroli (Fr) molto impegnata ed esperta operatrice culturale, presenta questa nuova raccolta poetica, Nero crescente, edita da RPlibri con una prefazione di Antonio Bux. Un passo in avanti, non c’è dubbio, e con grande merito; del resto, già ne avevamo pronosticato l’avvio verso la notorietà, parlandone in una nota su Transiti Poetici dello scorso anno.
Titolo alquanto impegnativo e, direi, drastico, il “Nero crescente” di Patrizia vuole forse sintetizzare, con un canto poetico a volte laconico, spiccio, confidenziale, ma sempre diretto e profondo, una lunga esperienza amorosa e sentimentale, che d’altra parte pur scuotendo e in qualche modo sconvolgendo la sua quotidianità, ha dato l’opportunità all’autrice di soffermarsi su alcuni importanti aspetti del senso dell’esistere, quali appunto l’amore, i sentimenti, la solitudine, gli abbandoni, e poi la morte. E non a caso Patrizia cita in esergo alla sua raccolta dei versi della Dickinson, affermando che la morte accomuna grandezze fondamentali dell’esistenza, quali la Bellezza e la Verità!
Ma perché Nero crescente? Sembra che i versi di Patrizia Baglione, in questa sua nuova raccolta, vogliano precipitarsi verso un fondo oscuro e inerte, forse la morte, intesa come lenimento da ogni tipo di sofferenza, specialmente amorosa, o in modo più semplice e blando, come stato/luogo di dimenticanza, dove appunto sia possibile livellare e appianare i sentimenti forti, rintuzzarli quasi, fino alla rassegnazione. E in effetti, leggendo questi versi, sembra di procedere via via verso uno stato di pacata accettazione delle cose e dei fatti vissuti: “cosa me ne faccio delle stelle / se poi / vivo solo di occhi / e appena te ne vai / torna buia questa stanza”. In realtà si tratta di un’avvenuta, anche se molto sofferta, maturazione, che porta l’autrice a constatare quasi con freddezza, ma sempre con l’impeto poetico che è di sua propria natura, che la fine di un sentimento forte come l’amore, può essere humus creativo fertile per rigenerare nuova vita. Le si aprono così orizzonti più vasti, fino a farla declamare, con larghi e solenni respiri: “Siamo fuoco e scintille ardenti / tempesta viva / sotto un cielo stellato. Siamo mare. / Metamorfosi continue / alla ricerca di disperata bellezza / mutevolezza lenta / ma radicata. Siamo anche coraggio!”… Ecco: siamo in effetti forme umane dotate di coraggio, bisogna esserlo, per affrontare con serenità e consapevolezza le negatività della vita, le delusioni, gli abbandoni, gli amori fuggiti, tutti aspetti della vita che tendono ad affossarci, a considerare la morte quasi come una liberazione: “Ci accompagna / questa notte / senza tante pretese, attende / con molta pazienza / quasi con aria discreta / ma è freddo / e buio / questa notte fa paura / a giovani e vecchi / che aspettano di morire / su una nera altalena”.
Una poetica intelligente, che pur trattando esperienze personali, non cede al rischio del mero racconto personale, anzi, offre a noi tutti motivi di riflessioni e spunti sociologici, in un contesto esistenziale travagliato e altalenante. La Poesia deve in qualche modo sublimare i fatti e i sentimenti, non riportarli direttamente, ed è così anche la poesia della nostra autrice.
Proponiamo ora qui di seguito alcuni brani tratti dal libro:


A che serve un cielo di stelle

quando già nel tuo ventre

riesco a vedere aurore

e udire

con note angeliche

voci di fate. Dimmi

 

cosa me ne faccio delle stelle

se poi

vivo solo di occhi

e appena te ne vai

torna buia questa stanza.

 

 ***

 

Sono stata già amata

(un po’ come i vecchi rami)

a mio tempo però

ho dato anch’io

 

ora sono qui che navigo

tra le acque del fi ume

e continuo a emanare

odore di ciliegio in aprile.

 

 ***

 

Nessuno mi ha ferita più di te

persino un taglio

copioso e profondo

farebbe meno male

 

hai solcato la mia esistenza

come lo spazio bianco

attraversato da mille storni.

 

Nessuno mi è stato più intimo di te

né lo specchio

o la mia solitudine

sono stati mai tanto capaci

 

il mio spazio

un tempo immacolato

ora

è totalmente ricoperto di polvere

e stracci.

 

 ***

 

Chissà dove vanno

quelli che muoiono

forse in un limbo, tra

il celeste e il rosa delle nuvole

 

se ne stanno lì

fermi e buoni, ad attendere

un segnale d’accesso per il cielo.

 

O forse esausti

a ripetizione si dicono – potevo

fare molto di più

e piangono in loro tutti i giorni.

 

 ***

 

 Siamo fuoco e scintille ardenti

tempesta viva

sotto un cielo stellato. Siamo mare.

Metamorfosi continue

alla ricerca di disperata bellezza

mutevolezza lenta

ma radicata. Siamo anche coraggio!

Desiderio che resti

costante la gioia

anziché, qualche sprazzo di luce

di tanto in tanto, qui e là.

Inevitabilmente si sa

scende anche il sipario.

Pervasi così

da uno stato confusionale

come vecchi ubriachi 

distratti dal mondo.

Pregare il ritorno di un tempo migliore

restando svegli per ore la notte. Ma

prima che ogni speranza sia andata

dietro la lunga coltre di fumo

un timido uomo si è fatto giorno.

Non nel parto

ma nella vita stessa

si nasce.

 

 ***

 

Ecco che arriva la notte vera

simile

a quella dei poveri per le strade

con pochissima luce dietro.

 

Ci accompagna

questa notte

senza tante pretese, attende

con molta pazienza

quasi con aria discreta

 

ma è freddo

e buio

questa notte fa paura

a giovani e vecchi

che aspettano di morire

su una nera altalena.

 

Patrizia Baglione, Nero crescente, Edizioni RPlibri 2022, prefazione di Antonio Bux


Patrizia Baglione è nata ad Arpino, in provincia di Frosinone, nel 1994. Diplomata in “Tecnico della Grafica Pubblicitaria” nel 2013. La mia voce, edito da Quid Edizioni nel 2019, è il suo libro di esordio. Nel febbraio del 2020 pubblica con la Casa Editice Kimerik Malinconia delle nuvole. Quest’ultima raccolta è stata presentata anche sulla nota radio Nazionale “RAI Radio Live”. Ha vinto il Premio alla Cultura al “KALOS 2020 - Premio Internazionale di Arte e Letteratura”, a cura del Prof. Massimo Pasqualone. Da quasi tre anni si dedica anche alla pittura, creando una serie di dipinti in stile moderno denominata "Collezione di bambole". Ha avuto modo di esporre in diverse personali e collettive, tra queste la “Venice Art Gallery” di Venezia a cura del Prof. Giorgio Grasso. Con il dipinto Jole, ha vinto il Premio Creatività, Palermo Artexpo 2020. Personale della Collezione nel marzo 2021 all'interno del “Centro Culturale Meridian” a Mosca, in Russia. Trofeo Leone d'oro per le Arti Visive, Venezia 2021. Giurata del Concorso artistico letterario "Autori italiani 2021", a cura del giornalista Fiore Sansalone. Cura e organizza incontri letterari.




giovedì 1 settembre 2022

La poesia diretta di Francesco Vitale

Nel vasto mare della poesia italiana contemporanea, capita a volte di approdare su qualche isola che subito mostra il suo rigoglio discreto, celato da falesie e arbusti nodosi. L’interno è però ricco di buoni frutti poetici. E dunque ecco il nostro giovane Francesco Vitale, cosentino ma residente a Roma per i suoi impegni lavorativi: una vera isola poetica, che sa farsi distinguere tra la miriade di scogli scabrosi e isolotti aridi che sovente si incrociano lungo le rotte del fare poesia.
Non ci troviamo di fronte alla solita e frequente autoreferenzialità, né alle mere e superficiali descrizioni di albe e tramonti che, per quanto possano essere carichi di pathos e di sentimentalismi accentuati, rimangono sempre narrazioni in versi piuttosto blande e stereotipe. Qui, al contrario, ritroviamo una potenzialità forse ancora da migliorare e da affinare, ma è già evidente l’impianto poetico significativo, determinato e originale sia nel contenuto che nella forma. L’entrata in argomento senza titoli, senza oziosi perifrasi o giro di parole, ma andando direttamente al nocciolo dell’assunto, dimostra che il nostro giovane autore ha già raggiunto una padronanza del verso veramente buona, un verso che procede seghettato, inquadrando bene come in varie illuminazioni consecutive, il discorso poetico complessivo. Una poesia del dubbio, della ricerca, del rispetto: “Guardo un punto fisso / e tocco le stelle / e il silenzio mi insegna a contemplare / l’infinito vuoto / che nel rumore / cerca la parola”. Una sintesi quasi perfetta di quella affannosa e interminabile ricerca che ogni creativo compie dentro di sé, interrogandosi e lacerandosi, e che poi giunge ad identificare in quella parola poetica che, totalmente, possa esprimere a sé stesso e agli altri, il vero senso dell’esistenza. In un rumore di fondo che distrae e distoglie.
Francesco Vitale è poeta autentico, laddove la poesia è fatta di parole che tendono all’infinito, in uno spazio esiguo e breve nel tempo, e in un silenzio rumoroso che confonde e banalizza ogni cosa.
Leggiamolo ancora in questi versi che qui propone.


E poi qui 

nella dimensione del fare 

continuo a stare nella vita.

Traccio le linee

che circoscrivono la mia penombra 

e il presente si inabissa 

nel cerchio della consuetudine.

Guardo un punto fisso 

e tocco le stelle

e il silenzio mi insegna a contemplare 

l’infinito vuoto

che nel rumore

cerca la parola. 

 

*

 

Scrolla il mondo 

e il patto si fa chiaro 

con le sorelle cose.

Le pietre in letargo 

aspettano il passo dell’uomo.

Tutto si fa tutto 

e aspetta che procede sensato 

nel fare della terra 

e nel palmo del cosmo 

dove continua la vita. 

 

*

 

Il mio silenzio è d’oro. 

Ho ventiquattro karati di silenzio 

per cento per cento per cento.

Il mio silenzio sta

sul tempo della lievitazione 

è fatto di pane e farina

è grano è pagliuzze 

e cuoce a fuoco lento. 

Ha l’odore della lentezza 

il mio silenzio 

e del piano piano che calma. 

Au Au Au chiama, 

ogni tanto,

ma sempre in silenzio.

 

*

 

Plano sui miei affanni 

e ne faccio 

musica compatta

ne faccio 

suono composto 

di respiro e di soffio 

che rigenera la vita.

Voglio vita nuova 

ogni giorno, che sia gioia 

per il mio essere al mondo

per lo stare ancorato 

sulla terra 

ed essere grato 

sottilmente e lieto.

 

*

 

C’è tempo d’attesa 

tempo di grandine 

e silenzio 

nel respiro del mondo.

C’è mistero di pace 

fiamma che arde 

nel ventre universale 

e ci tiene nel nome 

nel peso singolare 

che si fa corpo. 

 

*

 

Canto il corpo che rinasce

amplifico la misericordia 

nella costituzione del verbo

che si fa pulsante 

si fa clima dolce 

per la mietitura del bene. 

Canto la vita intera 

che sta tutta nei vestiti che indosso

nelle infinite parti 

che la rendono linfa 

di un urrà festoso 

preghiera costante

di gioia fertile. 

 

Francesco Vitale si è laureato nella magistrale di Cinema, televisione e produzione multimediale all’Università Roma Tre. Ha pubblicato Una storia dei giorni che passano (Coessenza, Cosenza 2015) e Varchi attivi (Edizioni Erranti, Cosenza 2020). Alcune sue poesie sono state tradotte in spagnolo nel volume argentino Fragmentos de Humanidad (Le Pecore Nere Editorial, Rosario 2018). I suoi testi sono apparsi su siti e riviste. 

Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà