lunedì 30 marzo 2020

Vanina Zaccaria: Non si muore di notte


Se è vero che la Poesia è sogno, ma sogno che ci accopagna in ogni istante della nostra ricerca quotidiana, in una esistenza parallela ma niente affatto chimerica o favolosa, a maggior ragione possiamo dire che la poesia, tutta la poetica di Vanina Zaccaria, si concentra essenzialmente proprio in questo assioma. E si tratta di un sogno eccezionalmente vivido, completo e propositivo, come tutti i veri poeti riescono a costruire, partendo da presupposti importanti ed essenziali, come l'osservazione della realtà esterna ed interiore, che porta inevitabilmente l'artista a ri-creare forme, percorsi e idealità rinnovate e rinnovanti, estrapolate dalla contingenza. È un'operazione di rielaborazione che, attraverso le proprie esperienze e attitudini, attraverso la propria sensibilità, l'artista, e nella fattispecie il poeta, conclude (ma solo per il momento) la sua visione materializzandola in opera d'arte.
Si deve essere guardinghi e consapevoli della propria maturazione creativa e artistica, perché l'arte in genere, e in particolare proprio la poesia, presuppone responsabilità e serietà, mai pressapochismo o superficialità, altrimenti si rischia di sminuire la parte migliore dell'uomo, e cioè quella di essere in grado di riproporre, attraverso la materia a sua disposizione, le cose nuove, di rendere possibili e raggiungibili i sogni, le visioni, le teorie, i progetti. Vanina Zaccaria ne è ben  consapevole, per questo ha atteso il momento giusto, nella sua già ricca e variegata vita culturale che conduce, per generare l'atto creativo poetico, donandoci questo bellissimo libro di versi, nel quale si rispecchia anche ogni nostro sogno, ogni nostra storia.
È dunque da considerarsi un'opera completa, questa di Vanina, avendo lei stessa intuito e quindi realizzato un percorso che dalle prime già robuste proposte poetiche, che definisce "Primo Ciclo", approda ai versi più controllati e profondi del "Secondo Ciclo", dove il detatto si fa leggermente più stringato e il contenuto abbraccia temi fortemente più filosofici. Ma tornando al discorso della "completezza", vorrei precisare che non stiamo parlando qui di un termine specificatamente quantitativo, bensì solo temporale, in quanto i due "Cicli" poetici di Vanina in questo libro rappresentano una fase completa, sì, della sua esperienza letteraria, ma non un punto fermo, una stazione di capolinea: l'evoluzione artistica porterà la nostra autrice a sicuri altri orizzonti di prossime aspettative, e questo è naturalmente insito in ogni creativo che si rispetti.
Quindi, nonostante la completezza del progetto e l'intelligente "compattezza" dei due Cicli, la raccolta dà sicuramente adito a nuove aperture, a nuovi futuri e attesi sviluppi.
Ma avviciniamoci ancora un poco al libro. Il titolo, esplicativo, "Non si muore di notte", è tratto da una poesia del secondo Ciclo, per la precisione l'ultima, cioè proprio quella che in un certo senso vuole (apparentemente) chiudere o meglio fermare, completare (per il momento!) il progetto poetico insito in questo volume. "Non si muore di notte / in mezzo alle ombre / Si muore di giorno / sotto il fendente della luce / irrigiditi dalle forme / La clava, la giusta postura / la ruota / il segno del fratello sulla pietra / Tutte le cose / sono tutta la tua memoria  … " Ed è proprio in questi versi che Vanina Zaccaria riassume in modo sublime e perentorio la sua poetica fin qui: si tratta di una constatazione amara, che vede spegnersi la forza e la dignità dell'uomo non di "notte", nei momenti bui, bensì di "giorno", cioè consapevolmente sotto il fendente della luce; e questo perdura da sempre, fin dalle origini: l'umanità si è sempre ferita, offesa, straziata, usando ogni mezzo a disposizione, a partire dalla "clava". Una storia lunga, lunghissima, che si fa memoria e monito per le attuali generazioni. Ma a questo punto occorre tornare un momento indietro, ai componimenti del primo Ciclo, per cercare di individuare quel sottile filo logico-poetico che tiene insieme tutta la raccolta. Il primo Ciclo è costituito da brani intensi e fortemente evocativi, scritti dalla nostra brava autrice in un periodo di già grande consistenza letteraria e poetica. Si tratta di brani in cui il "sogno", o per meglio dire l'osservazione-riflessione si evidenzia in densi canti intrisi di memoria storica e financo di mito: "Evitammo l'Europa, fumosa e ripiegata / su metri di ferrovia / e ci perdemmo nella piccola Italia…", e ancora: "Ci acquartierammo nel sogno / per mancare la traiettoria della mitraglia / nell'estate fremente di San Martino / quando venimmo a gemere presso la porta di casa…". Ora questo "filo conduttore" storico/geografico/mitologico ci conduce fino ai componimenti del secondo Ciclo, dove si fa più pressante e immediato, fino alla conclusione prospettata nella lirica finale "Non si muore di notte". Direi anzi che proprio questa ultima lirica ribadisce e rafforza addirittura la prima del primo Ciclo ("Il deperimento delle cose / come una lebbra antica che passa e rovina… ", "… E così rimase Memoria / sguaiata e tiepida / come l'amore senza perdono"), combaciando quasi con i versi "…Tutte le cose / sono tutta la tua memoria".
È questa secondo me una possibile traccia da seguire leggendo le ottime liriche di Vanina in questo libro, dove si rimane davvero presi e sorpresi dalla sua intensità narrante, dal suo dettato profondo che conduce il lettore attraverso meandri e lacerti di miti, di storia, di sogni, di territori, di echi di grandi epopee mediterranee e classiche del nostro patrimonio culturale. Una poesia diversa dalla solita, che trae spunto da quei riverberi storico-mitologici del passato, ma che si attualizza anche nella ricerca e nella proposta di un mondo dove, finalmente, sia possibile rimanere a guardare la dolce Isabella, nell'inverno lucido, e sentirla cantare canzoni d'amore oltre ogni possibile linea d'ombra.
Gli amici che ci seguono, dopo aver letto con attenzione non solo i versi che qui proponiamo, ma l'intero libro, potranno aggiungere altri graditi commenti.


(Dal "Primo Ciclo)

Il deperimento delle cose
come una lebbra antica che passa e rovina
L'inverno furioso si scaraventa sulle balconate
ne muove i ferri come fossero banchi d'alghe

Ci perderemo, simili ai pensatori del deserto
che scavalcano staccionate di sabbia
pensando alle brillanti navi di Acapulco
disarmate e senza schiavi

Ho atteso per molte notti lo stesso sogno
era l'uomo magro con la valigia di cammello
che mi portava mercanzie importanti
Era l'uomo che aveva conosciuto il Pacifico
e visto muoversi donne flebili dietro le tende di Manila
sulla via tortuosa del commercio e della guerra

Ho atteso ogni notte lo stesso sogno
ma venne il sonno nero senza occhi
e la luce malevola della lanterna a olio del mercante d'armi
che immobile su una seggiola
lucidava il fianco di una spada
E così rimase Memoria
sguaiata e tiepida
come l'amore senza perdono


***

Evitammo l'Europa, fumosa e ripiegata
su metri di ferrovia
e ci perdemmo nella piccola Italia
ammassata su vie bianche o avvolta nelle nebbie
Il marinaio di Genova perse lo scandaglio, quando
con sguardo fosco
cercò il fondale presso il Tinetto
e si restò a guardare Venezia
piegarsi e rimanere bella
La processione sinistra della banda, nella tarda mattina
le gambe piene delle donne, strette in calze di seta
con la viola sotto il braccio, castigate in divise azzurrine
animavano le strade
Sulla sponda sinistra dell'Arno, Firenze
si copriva di ori e rassettava la veste
Lasciammo l'Europa, sguarnita di schiavi
e navigammo il Meridione imperturbabile
dove agitava un brandello di vela
nelle prime raffiche di settembre
dietro una scogliera ricoperta di gabbiani
impegnati in attese lunghissime
e brevi voli nell'aria


***

(Dal Secondo Ciclo)

C'è un vento che soffia sulle case questa notte
la mia patria desolata si smarrisce in esso
lascia che passi sotto gli usci, che spenga i candelabri
che spaventi e tormenti gli insonni
La mia patria si accascia, anch'essa mortale
mortale più di tutti quanti noi
tenuti assiema dal sangue, da un vizio trasmesso
da padre a padre
e da fratello a fratello.
C'è un vento animoso stanotte sulle chiese
le icone tremano tra i cardini e il legno
si fanno piccole piccolissime, mortali
e domani quando ci sveglieremo, nella piazza
ci attenderà un vento nero, pronto a latrare
e quel che rimane dei marmi sulla rocca
oscillerà lieve, alzando polveri gialle
Invecchieremo in una sola ora, tutti assieme
le madri coi figli, i figli con gli altri figli


***

È sempre la stessa cosa la guerra
la stessa macchia di sangue rappreso
l'identico grido di quando nascesti

L'anno che si chiude crepita,
nelle tue mani piccoline
il fuoco d'artificio che ti festeggia
e anche saluta
i natali dell'avvenire

Non badare alla tua guerra
al cinghiale ferito nella boscaglia,
tròvati una storia minore
cércati un avvento discreto


***

Non si muore di notte
in mezzo alle ombre
Si muore di giorno
sotto il fendente della luce
irrigiditi dalle forme
La clava, la giusta postura
la ruota
il segno del fratello sulla pietra
Tutte le cose
sono tutta la tua memoria

Non si muore di notte
quando anche la morte
somiglia al sonno
Si muore di giorno
nella luce che non finisce
e nemmeno ti asciuga
corpo di rana
che rimane umido
sotto le dita


Vanina Zaccaria, "Non si muore di notte", RPlibri, 2020. Con note di lettura di Edoardo Sant'Elia e Giovanni Ibello.

Vanina Zaccaria, nata nel 1982, vive e lavora a Napoli. La sua attività si è costantemente divisa tra il percorso artistico-letterario e l'impegno nel campo della ricerca storico-sociale.

Laureata in Servizio Sociale con una tesi di ricerca sul contributo etnografico dell'antropologo Ernesto de Martino, attualmente è Presidente della Fondazione Lermontov per la quale ha curato l'allestimento del Premio Internazionale Lermontov e la divulgazione dei volumi della Biblioteca Lermontov. Ha collaborato con il giornale in lingua italiana e russa Sussurri e Grida curando le rubriche di letteratura e geopolitica. Studiosa della cultura ellenica, ha collaborato con la Comunità Ellenica di Napoli e della Campania per la discussione e la divulgazione di saggi storico-politici.
In ambito artistico: per il Teatro è attrice e direttore artistico di spettacoli messi in scena da associazioni culturali del territorio campano.
Sue poesie sono inserite nelle antologie poetiche: Ifigenia siamo noi (Scuderi Editrice, 2014), Mare nostro quotidiano (Scuderi Editrice, 2018).
Membro della giuria per la sezione speciale "Autori esteri" del Concorso Nazionale di Poesia Città di Sant'Anastasia nel 2013, 2018 e 2019, ha ricevuto diversi riconoscimenti: Primo premio, sezione giovani . Premio Internazionale di Poesia e Narrativa Napoli Cultural Classic 2008, e il Secondo premio, poesia inedita, Premio di poesia nazionale Aoros – Valerio Castiello 2017.




sabato 28 marzo 2020

Una nota di Gerardo Santella su "La linea dei passi", di Enzo Rega


Accogliamo qui una interessante e dettagliata nota di lettura di Pasquale Gerardo Santella, sul recente libro di narrativa di Enzo Rega, intitolato "La linea dei passi".

Il titolo dell’ultimo lavoro di Enzo Rega, La linea dei passi. Prose sulle città e il viaggio (Edizioni Helicon, Poppi (AR) 2019) rinvia immediatamente al genere della letteratura di viaggio, di cui accoglie tutte le caratteristiche: l’incontro/confronto con realtà paesaggistiche e umane diverse, lo spaesamento, come strappo dal noto e dal familiare per consegnarsi all’estraneità,  il ritrovarsi in una realtà “altra”, l’esperienza interiore. Un viaggio che non è più solo ricerca e scoperta di nuove conoscenze, ma dal secondo Settecento con Laurence Stern è viaggio sentimentale, ricerca, nell’ interiorità della coscienza, della propria identità, che non si conquista all’interno di un sistema autoreferenziale.
E sul piano stilistico è una scrittura mai uniforme e monotona, ma costituita da una varietà di tipologie (il diario, la forma epistolare, il reportage, l’aforisma, il bozzetto, la riflessione critica) tenute insieme dal filo dialogico tra le figure dell’autore e del narratore in cui si sdoppia l’io e di registri espressivi (ora informativo, ora ironico, ora lirico, ora riflessivo, ora letterario), che si modellano a secondo delle variazioni del contesto, della coscienza e del sentimento del protagonista in rapporto agli  “oggetti” e alle persone con cui viene a contatto.
Intanto mi piace mettere in rilievo alcuni elementi che il lettore appassionato di letteratura di viaggio si aspetta e che qui ricorrono frequentemente, soddisfacendo le sue attese.

Anzitutto  I sensi del viaggio.
Il viaggio non avviene nella testa, non si può fare rimanendo a casa, ha bisogno di assorbire linfa attraverso i sensi: vedere toccare sentire odorare, attraverso l’immersione  in una dimensione multisensoriale.
Come, per fare qualche esempio, a Parigi, lungo la Senna, dove il viaggiatore viene investito da percezioni tattilo-visive:  quel cielo che il sole sembra non riscaldare, ma solo illuminare come una lastra di ghiaccio, trapassandola e riemergendone gelidamente sfocato oppure quando, seduto ad un bistrot, sono i suoni degli oggetti a riempire lo spazio della scena: il brusio, il tintinno dei bicchieri. E c’è uno sgabello che cade, uno scoppio di risa, lo schiocco di una carta vincente gettata sul tavolo, la scatarrata di risa dell’uomo soddisfatto.
E ancora a Mulhouse, dove la percezione olfattiva genera una condizione di straniamento: Acuto e diffuso, eppure misterioso e nascosto, l’aroma vegetale ristagna nella casa che mi ospita. Odore che fa tanto, dovunque, terra straniera e che, per primo viene incontro o piuttosto è lì ad aspettare. Una percezione confusa: frutta, verdure, spezie a noi sconosciute – qui, invece, la quotidianità.

L’intersecazione di spazio e tempo, di orizzontalità geografica e verticalità storica. Basta qui l’esempio della descrizione di una strada della città belga di Anversa: L’acciottolato della strada fiamminga risuonava a questi passi come un giorno, nel lontano Cinquecento, al passaggio di un mercante o di una tessitrice o di un grasso imprenditore che tra il grasso delle dite sgranellava untuose monete. Una rapida dissolvenza incrociata in cui il suono dei passi del viaggiatore sfuma dall’oggi nell’ieri, mentre sulla stessa strada egli stesso scompare per lasciare spazio (o per identificarsi? ) a due figure del tempo passato.

La con-fusione tra racconto e realtà, letteratura e vita.
È un topos letterario tipico. Spesso il viaggio si fa sulle orme di uno scrittore o di un’opera che riteniamo significativa per il nostro percorso di formazione umana e intellettuale. È una suggestione molto forte che non solo non si vuole rimuovere, anzi si desidera rivivere dopo l’emozione ricevuta sulla pagina scritta. Come anche incrociare luoghi reali a riferimenti letterari.
E qui gli esempi sono vari.
Talora il richiamo avviene per semplice analogia o memoria indotta.
Così a Parigi: lo spazzino nero del metrò non ha più esistenza di Madame Bovary, la quale poi, si sa, non è altri che Flaubert. E l’attraversamento della città di Torino, punteggiata dai richiami ad artisti, letterati, filosofi è un percorso alla ricerca dei personali compagni di viaggio dell’autore: Delle piazze (…) ho avvertito il sapore metafisico. De Chirico ovviamente (…) piazza Carlo Alberto, dove “impazzì” Nietzsche; l’Hotel Roma alla stazione dove si suicidò Pavese; Piazza Vittorio con il bar Elena di Gramsci e Gobetti. Ancora a Basilea: Sulla terrazza del lungofiume il sole disegna, a la maniere de Edvard Munch, il rettangolo della ringhiera, ma però meno favolistico, e meno allucinato.
Ma altrove l’autore raggiunge accenti di originalità, trasformando egli stesso edifici e monumenti della città in visioni letterarie.
Come nella descrizione della Piazza Grande di Bruxelles: una smisurata stanza incantata. Lo slancio delle guglie fiamminghe, vere lingue di fuoco levate verso l’alto o aghi confitti nel tessuto del cielo accoppiato alle rotondità spagnole degli edifici, trasporta in un mondo fiabesco che non sembra davvero esistere su questa terra.
Oppure nella minuziosa descrizione  di un complesso di edifici di Amsterdam. Le case che si affacciano sui canali con la fila di finestre al centro, i tetti ad angolo acuto sormontati da un piccolo timpano e l’argano del montacarico con il suo gancio sono viste dall’occhio esterno di una cinepresa. E ora appaiono sbilenche all’indietro ora pericolosamente sporte verso l’acqua a secondo del punto di vista da cui osservi, se “sia disteso a pancia all’aria sull’acqua del canale su cui si affacciano” oppure “se ne stia tranquillamente in piedi sull’acciottolato del lungo canale”. La scrittura si fa ripresa cinematografica e conferisce ancora una volta una straniante dinamicità agli oggetti messi in scena.
Ma c’è dell’altro in questi racconti, che sono contemporaneamente qualcosa di meno e di più di una codificata letteratura di viaggio.
Mancano, per dire, aneddoti divertenti e curiosi riferiti a personaggi o a famosi monumenti dei luoghi visitati. L’autore non cerca la meraviglia da descrivere all’attonito lettore né il fatto divertente che renda gradevole la sua scrittura.

Piuttosto sottolinea la corrispondenza di sensi tra il viaggiatore e la città. A Londra: Eccomi qui a vagare perduto in questa sconclusionata Londra all’indecifrabilità della metropoli fa fortunatamente da pendant la mia stessa, attuale, indefinibilità. È su questa onda disturbata che finiamo per incontrarci, la città ed io. O sulle Alpi valdostane: non si danno più montagne incantate se non come dimensione spaziale e temporale interiore: anche il senso esterno , dunque, diventa interno.
È in questo raffinato gioco dialogico e sentimentale, in queste intersezioni e correlazioni tra soggetto e oggetto, sguardo esteriore e interiore, sensazioni e riflessioni che è l’essenza di questi racconti.

Meta-letteratura e donne
L’autore-narrante interviene, anche se non frequentemente, all’interno del racconto, come in Frammento milanese, dove esprime riflessioni metanarrative sulla constatazione di essere rimasto senza  più storie da raccontare, consumate e digerite assieme al tempo che passa, alle speranze alle ambizioni della vita .
O come in Lettere dalla Germania dove ad Heidelberg, scrivendo una lettera destinata all’Amore mio, dice “Il viaggiatore è stanco. Ha inanellato città su città, e (…) desiste dal proseguire (…) Ed eccomi alla fine muto”. E in un’altra si chiede: “Non ruota questo libro intorno a due alternative. Viaggio come ricerca - viaggio come fuga? In entrambi i casi c’è una utilità del viaggio”. E nell’ultima. “Al di là dell’ultimo racconto, non c’è più bisogno di partire se a casa ci sono due occhi che ti aspettano”.
E questa ultima osservazione ci permette qualche nota conclusiva sulle donne, presenti in molti racconti, compagne di viaggio, di parole, di avventura, d’amore, o di occasionali incontri. Donne che non sono proiezioni letterarie, ma reali, carnali, con cui condividere assieme un tratto di strada, più o meno lungo, ma sempre interrotto. Per inerzia, stanchezza, forse inettitudine.
Amori filtrati, pensati, vissuti.
Donne belle, desiderate, inafferrabili come le  ragazze olandesi che passano come una folata di vento in bicicletta, ridendo nell’aria fresca di Amsterdam: “ I loro capelli, scomposti nel vento e sfuocati nella luce, diventano una svolazzante massa di sabbia dorata che, in un tempo senza tempo, non accenna più a ricadere al suolo”.
Amori sinceri, vissuti, che si manifestano nella varietà delle loro espressioni: ora come momentanea appagante felicità, ora come scambio di vissuti che si intrecciano in un dialogo, ora come incontro basato sulla condivisione ora come relazione mediata dal corpo; che, però, non si fanno compiutamente empatia, osmosi di universi diversi.
In fondo amore, viaggio, scrittura sono in relazione analogica tra di loro. Ci si allontana da uno spazio abituale mossi da una passione o da una ricerca di altro e si va all’ad-ventura, cioè si opera un avvicinamento, tra esperienze ora gratificanti ora deludenti, all’oggetto del desiderio. Non c’è un porto in cui quietamente approdare.
Il sale di ogni viaggio è l’imprevedibile. Il suo senso è nell’attraversamento (dello spazio e del tempo, della  pagina  bianca, della varietà dei sentimenti ), non nel raggiungimento della meta. Il libro, questo libro di Rega, in cui tutto è racchiuso, è solo un fugace approdo prima di riprendere subito la navigazione.


Pasquale Gerardo Santella

lunedì 16 marzo 2020

Carla De Angelis: Fra le dita una favilla sembra sole"


Abbiamo già avuto il piacere di ospitare la bravissima poetessa romana Carla De Angelis parlando del suo libro Mi fido del mare (Transiti Poetici https://transitipoetici.blogspot.com/2017/12/carla-de-angelis-mi-fido-del-mare.html), ed ora volentieri proponiamo altri brani tratti dal suo recente volume Fra le dita una favilla sembra sole, FaraEditore, opera votata al concorso Faraexcelsior 2019.
Come sempre, il titolo di una raccolta sintetizza l'intento poetico dell'autore, e mai come in questo caso ci sentiamo di confermare questa asserzione. Carla De Angelis, dopo aver affidato al mare il suo afflato poetico, la sua lungimiranza nel valutare e considerare il sentimento come forza inestinguibile che lega e collega l'uomo all'altro uomo, in una società sovente sciatta e distratta da altri meri e ingannevoli valori materiali, ritorna con i suoi versi a cantare l'amore del mondo e per il mondo, ponendosi in una centralità discreta, non ingombrante, ma serena e consapevole, da cui diramare il suo messaggio culturale e sentimentale a tutti.
La delicatezza dei suoi versi non nasconde una certa denuncia, rivolta nei confronti dell'uomo che trascura il bene prodotto dalla terra, dalla natura: sovente Carla torna con le sue poesie a considerare e ad indicarci la genuinità e l'autenticità di valori primari come il rispetto verso gli altri e verso gli elementi nei quali siamo immersi e dei quali non possiamo fare a meno: prima di tutto il mare, che anche qui assume un significato metaforico di immensità e di libertà, di generatore di vita; ma anche la terra, la campagna, il giardino, posti in cui meditare, riflettere sul senso vero ed escatologico dell'esistenza, perché è da lì che si origina tutto e da lì tutto tende all'amore: l'amore sempre!
E certamente l'amore torna sempre, si respira fragrante tra i versi dolci e decisi di Carla, la quale affida alla sua parola poetica il compito di diffonderlo, invitandoci a condividere con tutti questo sentimento, questo amore che permea la nostra quotidianità, la nostra vita. Così, se impariamo ad amare il mondo e gli uomini partendo dalle minime cose che ci circondano, anche una semplice favilla tra le dita potrà sembrarci immensa e potente come il sole.
Ecco dunque qui di seguito alcuni testi tratti da questa recente raccolta poetica di Carla De Angelis. I lettori che ci seguono sapranno aggiungere altri graditi commenti.




Se ho ripreso a scrivere parole
è perché ho il tuo sorriso
il tuo abbraccio
la tua ingenuità



***


Provo ancora, mi fanno male le dita
continuo a suonare per imparare tutte le note.
Non voglio colpire per fortuna, voglio due accordi
uno che scivoli come una carezza,
come la risacca che corteggia la riva
e un altro aspro e duro
come un racconto finito male,
come un'auto che sfreccia con il rosso.

Ho in mente tutti gli incroci
passerò quando il verde offrirà una speranza



***


Ciò che scrivo
è parallelo a quel ritmo
che spezza il fiato quando si lascia la strada
e si rincorre l'avventura.
Poi quel ritmo si frantuma in parole –
ne esco quando il sonno
diventa la mia terra d'origine
ritrovo il mio regno
mi giro e sorrido nel riconoscere
il tratto già percorso



***


Il nostro sangue è rosso

Siamo affidati a un numero di anni imprecisato
procediamo come l'acqua nel disgelo del fiume
lasciando tracce del nostro viaggio.

Non mi basta, voglio sapere delle strade
conoscere chi le vuole sbarrare.

Nella barca c'è un vuoto da colmare:
perché ci avete abbandonato?
Improvvisa si allaga
la disperazione: siamo migranti



***


È tempo di restare a casa.
Prendere la dovuta distanza
dai pensieri sparsi nel tic tac del pendolo
posare il silenzio in un angolo
e cantare insieme a
quel gocciolare d'acqua che non si arresta.
Osservare soddisfatti il disordine
ascoltare i passi del mondo
e di uno che arriva da lontano e bussa.

Che altro posso fare?
Aprire



***


Il sole è un cerchio, non offre appiglio

Poi il pensiero
si fa più tenero, spesso struggente
saluto ogni incontro
aspettando qualche segnale.

Fra le sponde del giorno
c'è un odore eccitante che scaccia
gli gnomi della notte.
Gli uccelli volano alto,
tengo stretti i giorni conquistati
le albe, i tramonti l'andirivieni del mare
l'amore sempre



***


Quando il giorno arriva sollevo piano il cuscino

per non perdere le parole
le sfilo come grani di caffè a colazione
per sentirne il profumo e
trattenere l'attimo.

Ecco il suono della sirena che chiama al lavoro
passa il primo treno
mentre la mimosa ruba il giallo al sole.

Poso sul tavolo il miele il pane il caffè e il latte.

Questa la mia preghiera


(Testi tratti da "Tra le dita una favilla sembra sole", Fara Editore, 2019)



Carla De Angelis è nata e vive a Roma. Suoi testi sono presenti in riviste e opere collettanee edite da Perrone, Estroverso, David & Matthaus, Limina Mentis, Delta3, Pagine, Aletti, Fara. Nel 1995 il Presidente della Repubblica le ha conferito l'onoreficenza di Cavaliere. Con Fara ha pubblicato il poesia: Salutami il mare (2006), A dieci minuti da Urano (2010), I giorni e le strade (2014). Nel 2011 esce Mi vestirei di mare (Progetto Cultura). Ha ideato e curato le antologie Corviale cerca poeti per la Biblioteca "Renato Nicolini" di Roma e, con Stefano Martello, i saggi Diversità apparenti (2007), Il resto (parziale) della storia (2008), Il valore dello scarto (2016). Nel 2017 ha pubblicato con Fara la pluripremiata raccolta Mi fido del mare.

mercoledì 11 marzo 2020

Le "incerte sospensioni" di Giovanna Visco


"Dopo la partenza / un arrivo incerto. / Ogni sguardo indiscreto / tra mucchi di passanti / è delusione. / Brividi di freddo. / Vaneggiante attesa." Iniziamo da qui la breve analisi del mondo poetico di Giovanna Visco in "Incerte sospensioni", edito da RPlibri; o almeno sarà un tentativo di interpretazione sulla base di quanto maggiormente ci coinvolge e ci impressiona: è noto infatti che la poesia, la vera e buona poesia, offre sempre spunti molteplici di riflessione, e piani diversi di lettura. Come accade in queste poesie, che, lette attentamente e con la massima predisposizione, propongono quadri diversi, per lo più inerenti a riflessioni intime sull'esistenza, sul modo di rapportarsi agli altri, sulla natura. Insomma, una sorta di punta di iceberg letterario e filosofico, da cui "indovinare" la complessità e la molteplicità sotterranea che vi è celata. Poche parole, pochi versi, di una indispensabile finestra poetica, alla quale affacciarsi per meglio interpretare il mondo di fuori, o anche interiore, se quella finestra è rivolta, come sovente può sembrare, verso se stessi, verso l'io narrante.
Come giustamente afferma Felice Casucci nella sua pregevole prefazione, la poesia di Giovanna Visco si connota per la sua capacità di apparire come una liturgia nel chiasso di altre parole, nella confusione babelica generata dai mercati del vivere quotidiano e nella dispersione dei valori autentici, nel mancato soffermarsi sui punti essenziali dell'esistenza causati dalla fretta e dal perseguire i falsi idoli del benessere materiale. È una poesia che arriva e riparte subito, ma lascia il suo segno, la sua impronta non leggera ma significativa, conferita dalla forza della parola, forza che compensa in qualche modo la brevità dei componimenti, come in Fontanelle (pag 70): "Nacqui da una folla di ossa." Un unico verso, ma un discorso immenso, che racchiude in sé la storia dell'umanità, la vita dell'umanità, concentrata in quell'immagine della fine che è la morte, simboleggiata magistralmente in questo verso dal leggendario Cimitero delle Fontanelle di Napoli.
Le "incerte sospensioni" danno dunque l'idea di una foglia in bilico sul suo ramo, in procinto di cadere ma nello stesso tempo ancora tenace; o di un sospiro appena trattenuto dinanzi alla meraviglia di un mondo in continua evoluzione. La parola poetica, come sempre, è l'antesignana di uno stato di grazia, un equilibrio incerto, una sospensione indeterminata e senza dimensioni sul dubbio, sulle domande senza risposte, sui rovelli interiori, ma anche sulla speranza verso cui pilotare la propria nave, la propria esistenza
Tutto ciò è comunque soltanto un rapido excursus nel mondo poetico di Giovanna Visco, e in particolare in questa sua raccolta. Raccolta dalla quale si evince la sua speciale predisposizione alla comunicazione rapida ed essenziale, precisa, da ottima giornalista, quale è la nostra autrice nella sua attività lavorativa.
E come sempre, i nostri lettori, leggendo i versi che qui proponiamo, tratti appunto dalla raccolta "Incerte sospensioni", sapranno aggiungere ulteriori graditi commenti.

Imbrunire

Lungo e lento
è l’incedere della sera.
Oscurità discendente
su solitudini allungate.
Veli sottili
come sudari
su volti cari
silenziosi,
su inesprimibili
strazianti
incerte
sospensioni.


***

Pensieri stanchi della sera

Pensieri stanchi della sera
affaticati
come braccianti dai campi.
Stordimento taciturno
nel ripetersi monotono
di ogni giorno.
Niente da raccontare,
la giornata è immemore.
E il tempo si consuma senza coscienza alcuna.


***

Insonnia

Lunga veglia a pensieri inquieti
che mentre arrivano
già si perdono.
Emozioni
acquattate
predano improvvise
quel che passa nella mente.
Si ritorna piccoli piccoli
sotto le coperte
che avvolgono
solitudine.


***

Tramonto

Aria e luce impastati
sfocano il sole
che declinante e disperato
riluce
ancora
ancora
e ancora
fino a tutto il suo possibile,
prima di annegare
nella oscurità del dopo,
che già avanza.
Se resto
nei miei occhi
sarà
senza inquietudine.
Ma per fugace tempo.


***

Sen de Pelegrin

Nell’aria immobile
una coperta di freddo
mi prende a sé.
Sono sospesa
in un lago di spazio.
Volteggio.
Rocce ardimentose
tra puntuti alberi
strapiombanti.
Su per i sentieri
la pioggia
mi spennella.
Sono dipinta in un quadro.
Ruderi di pietra
segnano
impervie salite
urlando negli occhi
quanti
a migliaia
più non furono.
Umanità
di carni straziate
mi richiami.


***

Accompagno la sera

Accompagno la sera
nella notte
con tempo lento
in dolcezza di vita
che riprende
verso
nuova alba.


***

Il pensiero

Il pensiero
che allarga la vita
travalica
piccoli mondi di nasi
si slancia
verso libere geometrie
in transito

nel puro spazio.


Giovanna Visco, "Incerte sospensioni", RPlibri, 2020; prefazione di Felice Casucci.

Giovanna Visco è una giornalista pubblicista che ha al suo attivo centinaia di articoli di economia dei trasporti e logistica. Napoletana, vive a Napoli ma lavora a Roma. Blogger di una pagina di geopolitica ed economia, si occupa professionalmente di comunicazione.
La poesia è il suo spazio espressivo interiore, che pratica da molti anni, popolato di suggestioni che le provengono da esperienze, persone e luoghi.
Incerte sospensioni segna il suo esordio nello spazio letterario pubblico.

Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà