mercoledì 16 novembre 2022

"Il camaleonte", di Gerardo Aluigi

 

Abbiamo già avuto modo di parlare della poesia di Gerardo Aluigi, autore che vive a Pagani, in provincia di Salerno (Transiti Poetici, 9/1/22), presentando il suo ultimo lavoro poetico dal titolo “Rebecca”, RPlibri, e sottolineando la sua vena di nostalgia nel riproporre, soprattutto a sé stesso, ricordi e memorie intrisi di un accorato sentimento di rimpianto.
Quella vena poetica si è un po’ attenuata, forse esaurita nel compendio di un’opera meritoria finalizzata a far emergere simili sentimenti, dando però maggiore enfasi a stati d’animo equilibrati e consapevoli, capaci di gestire al meglio, attraverso i corpi poetici, il dolore e la sensazione della fine. E in effetti è ciò che si può evincere leggendo i versi de Il camaleonte, l’ultima raccolta poetica del nostro autore, sempre edita da RPlibri, la pregevole casa editrice di San Giorgio del Sannio che annovera ormai, nel suo ricco catalogo, autori illustri ma soprattutto autori seri e impegnati, che amano la poesia, la seguono e la scrivono dedicandovi studio, ricerca e costante frequentazione.
Notiamo dunque in questi versi che, nonostante l’ordine sparso dei vari testi, essi costituiscono comunque un unicum complessivo e articolato; ma leggendo bene in filigrana, viene a nudo l’ansia e il timore della morte, forse ancora residui di un dolore che non è stato del tutto metabolizzato e che, come dicevo, appare in primo piano in Rebecca.
Sono immagini varie e riflessioni sul senso dell’esistenza, rapportato alla natura e al mondo circostante. Una poesia che emerge autentica dal profondo, maturata attraverso l’esperienza della vita e capace di suggerire, di proporre a tutti che, al di là delle mestizie, è ancora possibile cedere lo scettro all’alba perché rimanga mattina.
Così, come il camaleonte si adegua all’ambiente mimetizzandosi in esso a seconda delle circostante, il nostro Gerardo Aluigi cerca, con questi versi de Il camaleonte, di adattarsi, quasi di rassegnarsi alle situazioni emotive ancora derivanti dalle ferite e dalle esperienze di vita trascorsa.

 

Si vive

 

Vivi nell’abbandono

di quell’istante

quando il suo passo

frettoloso nasconde

il desiderio.

 

Ma ciò rimane

nell’aria come fuoco

nutre e divora

il tuo mondo.

 

Salirai i gradini

del cuore

e gli dirai di zittirsi

gli dirai

che è una follia

amarla.

 

 

***

 

Parla della purezza

 

Come la neve pallida

è il tuo viso

che cuce il vestito

sulla tua pelle

con un forte ricamo

della mano, della tua mano

che vuol far conoscere

il colore vissuto,

il bianco pudore, che scende

prima della morte.

Se è quando verrà

i tuoi occhi l’hanno

già vista

nel supremo dolore

del giorno.

Tu, strapperai dal petto

il tuo cuore

il tuo cuore di neve

di terra, di respiro.

Il tuo corpo vuoto

leggero nelle ali

sarà del cielo

ed è lì per te solo

tu, che sei appena nato.

Tu, divorato dal nostro tempo.

 

 

***

 

Nell’aria sciogliersi

 

Sciolgo le mie radici

dal lungo albero

che in me viveva.

 

Le sciolgo con pallide mani,

con tremanti mani

perché ogni ramo

è qualcosa appartenuta al tempo.

 

Furono gli anni che permisero

a quel legno di carne

di amare o odiare

essere

giardini proibiti

giardini bruciati

dal sole del cuore.

 

Ho radici, radici

vi stenderò sulla strada

che vi vide fiorire.

 

Vi stenderò come un carnefice

ammassandovi tutti insieme

per fare un falò

e quando le fiamme toccheranno

le dita del cielo

sarete aria fumosa

impazzita nebbia.

 

Il grigio del vecchio si smarrirà

nello spazio

osserverò le ultime scintille

color d’oro fermarsi

per un attimo

davanti ai miei occhi.

 

 

***

 

Dove andranno

 

Dove andranno le lacrime ora

dove andranno a posarsi?

Quale terra verrà bagnata

dai tuoi occhi?

E il cuore li seguirà?

Lui è folle senza te

lui è folle.

Dove andrà a cimentarsi

in quale arena?

In quale corpo

troverà rifugio

dove godrà?

Il piccolo cuore

il violento cuore

dove andrà?

Sarà temerario

ucciderà la solitudine.

Dimmi, dove andranno

lacrime e cuore?

 

 

***

 

Un giorno in riva al mare

 

La luna è una flebile luce

sulle acque buie del mare

polverose sono le onde

trascinano l’estate stancamente

verso un autunno frammentario

come i cocci trovati da mani inesperte

bambini, i bambini padroni della riva

infiniti gli occhi che osservano

quella mancanza.

Egli rigira il corpo nel gesto lento,

di spalle andrà lontano, lontano

nel suo tempo

donando le ossa al mare

per essere mistero

o colpo d’ala per dimorare nello spazio:

un’effimera gioia?

 

 

***

 

Io e la luna

 

L’aria di fine agosto

ingloba la notte sul filo del rasoio,

il riparo sorvola la noia

ti aggrappi al domani

sperando che non sia fumoso

d’asfalto.

 

Le rime nella testa

risuonano come ebrei erranti

che cercano la terra promessa.

 

Chiedi alla luna il sospirato riposo

la vedi nel suo kimono giallo limone

tagliata a metà dal tempo e dagli uomini

scontenti, sembra cadere nella sua luce.

 

Ultimo avviso al torrido agosto:

alla figlia alba cederà

lo scettro per rimanere mattina.

 

 

***

 

Fermeranno la vita?

 

La mia vita

i pensieri

sono sul muro

ghiacciato

degli indifferenti.

 

Come luoghi comuni

vanno e vengono

con strane culle

che dondolano

bambini

che moriranno,

questi non hanno tempo

non lo conoscono

hanno solo fame

dov’è la balia?

Il suo seno sconfina

solo nelle bocche d’oro.

 

Ella è dura come l’ora che passa,

ella è al soldo di chi paga,

paga.

Raderanno l’infanzia che corre

raderanno i sogni

raderanno il bambino

che ancora vive?


(Brani tratti da: Gerardo Aluigi, Il camaleonte, RPlibri, 2022)


Gerardo Aluigi è nato nel 1950 e vive a Pagani (SA). Appassionato di poesia ha pubblicato nel 2008 la raccolta Gli argini del silenzio, LietoColle; nel 2015 Nudi, come il dolore, Guida Edizioni e  nel 2021 Rebecca, RPlibri. È presente in alcune antologie poetiche nazionali. I suoi testi partono da una profonda ferita, così come lui stesso ama ribadire.

sabato 12 novembre 2022

"La vita in dissolvenza", di Lucianna Argentino

Tutti conoscono la celebre frase Panta rei, con la quale Eraclito con grande soavità e saggeza, suggeriva a tutti la rassegnata ineluttabilità del fluire di ogni cosa e quindi l’inanità di qualsiasi provvedimento umano e materiale capace di modificare o persino di arrestare questo scorrere continuo e irrefrenabile del tempo e della natura, direi del cosmo intero.
Le cose, il mondo, la vita stessa dell’uomo, dunque, lo sappiamo tutti, hanno un inizio, si evolvono, si sviluppano, per poi frantumarsi, smaterializzarsi, terminando la loro esistenza. Si tratta di una consapevolezza generale e generalizzata, che ognuno porta dentro di sé anche non pensandoci, non preoccupandosene, lasciando teorizzare il tutto agli scienziati ma principalmente ai filosofi ed eventualmente ai teologi. Ma qui rischiamo di addentrarci in un campo molto delicato e suscettibile di infinite discussioni, da affrontare in altre sedi. Quello che voglio dire è che il poeta ha sempre cercato, in genere, con la sua sensibilità ed esperienza, di trattare in tanti modi questo argomento per certi veri scabroso e impervio. Mi vengono in mente, ad esempio, alcuni versi di Giovanni Raboni, che dicono “Dammi tempo, non svanire, il tempo di chiudere i tanti conti vergognosi in sospeso con loro prima di stendermi al tuo fianco”… C’è urgenza quindi di recuperare ogni cosa, ogni bene, ricordi e valori, prima della “dissolvenza”, prima del finire perduti e dimenticati nel gran polverone della storia.
È così pure, per certi aspetti, l’aspettativa di Lucianna Argentino in questa sua ultima opera letteraria, La vita in dissolvenza. Ma c’è una peculiarità, in questo denso poema sulla vita e sulla morte, che lo contraddistingue in modo deciso, secondo me, e si tratta del fatto che l’autrice racconta, dice, il confine, il punto di congiunzione tra la vita che va dissolvendosi e l’inizio di un’altra realtà, da qualche altra parte, in qualche altra situazione: “La sento, sai la sento la forza che ci plasma / plasmare te nel mio utero / fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua / e tu, grappolo di vita, mora succosa, / aggrappato alla mia carne…” È il canto di una madre che non rinuncia al parto pur essendo consapevole della propria fine imminente causata dal cancro. Sono versi pregni di pathos, quelli del poema iniziale, Madre, dedicato alla storia di Rita Fedrizzi, una storia vera che Lucianna Argentino ha stigmatizzato con grande immedesimazione e trasporto poetico.
In effetti il libro si compone di 4 poemetti, strutturati come monologhi, (Madre, Gestazione dell’addio, 1941 e Aurora/Sara), tutti e quattro riferentesi a storie vere, che l’autrice traduce in versi ponendosi a fulcro, al cosiddetto punto di non ritorno, per accogliere da un lato la vicenda umana e psicologica, l’esistenza dei protagonisti di ciascuna delle quattro vicende che va ineluttabilmente verso la dissipazione, la morte, la “dissolvenza” appunto, ma che nello stesso tempo comincia a riscattarsi, a recuperare libertà e dignità risalendo l’impervia erta della riconoscenza e della giustizia. Abbiamo già accennato alla vicenda di Rita Fedrizzi, in Madre; analogamente, in Gestazione dell’addio la vicenda amara di Valentina Cavalli, seviziata e violentata, trova paradossale rifugio nel suicidio ma è messaggio forte all’umanità perché rifletta sulla gravità dell’abbandono: “Al mondo non c’è più una parola per me / una parola il cui peso di consonanti e vocali / sia remo e timone per me e-stremata, gettata lontano / senza più storie attraverso cui raggiungermi.” E in 1941 troviamo la congiunzione della fine suicida di due illustri poetesse, Virginia Woolf e Marina Cvetaeva, ambedue suicidatesi in quella fatidica data del '41, come se avvertissero già il tetro presagio della guerra. Anche loro, con la loro morte, simbolo di riscatto e di libertà da ogni tipo di oppressione.
Infine, in Aurora/Sara, l’ultimo poemetto, Lucianna Argentino si ispira alla vicenda umana di una compagna di scuola di sua figlia; una bambina nata prematura, che vive un’infanzia difficile e scabrosa, aggrappata comunque alla vita tramite la sua bambola orba, Aurora.
Un libro intenso, che parla di soprusi, di violenze, di ingiustizie, un libro che però mostra a tutti noi l’umanità e la tenacia, l’attaccamento alla vita ma soprattutto ai suoi valori anche con l’estremo sacrificio della morte, del suicidio, della dissolvenza di sé, per offrire a tutti un fiore e un’alba di speranza per un mondo migliore!

 

La sento, sai la sento la forza che ci plasma
plasmare te nel mio utero
fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua
e tu, grappolo di vita, mora succosa,
aggrappato alla mia carne
fatta falda di sangue per le tue radici. Radice io pure
eppure io albero da frutto, ponte da te edificato
dalla tua voce chimica inturgidita.
In me ti seppellisci, in me sprofondi
e mi faccio pasto, focaccia
per il tuo crescermi negli abiti, nei cromosomi,
per il tuo somigliare a tutti quelli della tua misura.
E tu fai me fuori misura, me donna sempre in fuoriuscita,
in spargimento di qua da te,
a prepararti un nome, a scavarti un luogo.

(Da "Madre")


***

Trovarla nella caduta perpendicolare
del sangue la parola giusta
che mi raschi dalla pelle tutto il male,
che mi scavi le ossa e mi faccia cava
per galleggiare almeno in quest’aria
che non riesco più a respirare.
trovarla negli otto minuti di travaglio
della luce ora che sto come il cielo
dismesso dalle rondini,
la verità dimenticata dall’ombra,
le lenzuola sui davanzali, al mattino,
prostrate in un rigurgito di buio.
trovarla la parola giusta e difficile
ora che il mondo è tutto e solo visibile,
la parola che è segreto e mistero
e luce all’esistenza, quella che dice l’amore
quella che m’è rimasta dentro muta
perché non ho più un te
e nemmeno un io e sono metallo gelido
bronzo che risuona
cembalo che tintinna*.


(*) da L’inno alla carità. 1 Corinzi 13,1-13

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, / ma non avessi
la carità, / sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.


(Da "Gestazione dell'addio")


***


Ecco settembre scalpitare irrequieto alla porta
ne sento l’odore, ne vedo il volto sfocato
laggiù lungo i confini dei campi che ardono aridi,
vedo i miei demoni galleggiare
sopra un mare calmo di luce e di afa
in agguato come una fiera
che mi fa preda e si nutre della mia anima.
Come una bambina serro le labbra, affamata rifiuto
questo tempo che mi consuma, fa di me pasto.
Un tempo estraneo ed estranea io dentro me stessa,
perso lo sguardo capace di penetrare le cose,
di scucire le apparenze, cogliere l’essenza.
Attonita mi brancola in braccio la luce,
il suo seme spento soffoca le promesse
per questo da mesi cerco un gancio,
un corrispondente esterno al gancio
che dentro batte sbatte al posto del mio cuore,
– zattera alla deriva approdata a questa trave di legno bruno
come le mie mani scurite dal continuo sbucciare patate
che non me le bacino più! ormai sono sconsacrate.
E con queste mani scrivo il mio ultimo canto
la mia morte verticale – volo d’allodola –
offro il collo all’addiaccio della corda,
l’avvolgo attorno al gancio, mi assicuro sia ben salda,
non ceda, non si sciolga, ma mi lanci di là come freccia
attraverso i sette cieli, senza bersaglio
lungo la linea dell’eternità.

(Da "1941")


***



Mia madre è una stronza
beve e grida alla nonna, a volte la picchia
a me no, a me non mi tocca
ma certe volte maledice il giorno in cui sono nata
e la sua voce mi imprigiona il cuore
che batte come un ramo contro una finestra
e intanto lotta con la tempesta.
Poi quando c’è lui mi manda via,
mi manda a dormire dalla nonna.
Mia nonna poveretta lei mi vuole bene
ma da sola con questa figlia e quell’altra morta
non ce la fa. Mio padre non so dove sia
e ogni giorno un poco me ne va via il ricordo,
l’odore che a volte mi sembra di sentire
non so cos’è che gli impedisce di tornare,
quale incantesimo lo tiene lontano
o se è perché non so essere figlia.
Come non sapevo che gli alberi
e i fiori e l’erba avessero radici sotto
a tenerli attaccati alla terra
e mi chiedevo com’è che non cadessero
che non se li portasse via il vento
come mi chiedo ora com’è che non volo via
se non sento radici sotto i miei piedi.

(Da "Aurora/Sara")

Lucianna Argentino, La vita in dissolvenza, Samuele Editore, 2022, prefazione di Sonia Caporossi.

Il libro è stato presentato nella Biblioteca di Bacoli (Na) il 11 novembre 2022, nell'ambito del secondo incontro della Rassegna "La Musa Flegrea", organizzata e condotta da Annamaria Varriale e Giuseppe Vetromile.

Lucianna Argentino è nata e vive a Roma. Dai primi anni novanta il suo amore per la poesia l’ha portata a occuparsene attivamente come organizzatrice di rassegne, di presentazioni di libri e con collaborazioni a diverse riviste del settore. Intensa è sta ed è la sua attività letteraria e poetica, con partecipazione a diverse importanti antologie, festival e rassegne poetiche. Numerosissimi i premi ricevuti e le pubblicazioni di raccolte poetiche con vari importanti editori nazionali. Ricordiamo le più recenti: Le stanze inquiete (Edizioni La vita Felice, 2016), L’ombra dell’attesa (Macabor Editore, 2018), Il volo dell’allodola (Edizioni Segno, 2019), In canto a te (Samuele Editore, 2019). Il suo ultimo lavoro poetico La vita in dissolvenza, Samuele Editore, (quattro monologhi al femminile) è stato musicato dal chitarrista Stefano Oliva e presentato in vari teatri, associazioni culturali e Festival.

Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà