Non il rimpianto di una umanità più buona e autentica, quando la
"natura si sacrificava paganamente sui roghi, nei forni e sulle corti, per
consegnarci i suoi profumi", non la denuncia più o meno velata di ingiustizie,
delle eterne ingiustizie che sconquassano il tessuto sacro della pace e della
collaborazione: ma un più veemente e vibrante canto, sebbene controllato con poetica
maestria, che possa costituire memoria fondamentale e patrimonio culturale per
proseguire consapevoli e giusti sulla strada evolutiva della storia. Questo, in
sintesi, è quello che si può trarre dai testi di Nazario Pardini, che qui di
seguito offriamo alla lettura attenta degli amici che ci seguono. Si tratta di
una poesia matura, forte, icastica, che si snoda con tonalità altamente
musicali, e che riverberano nell'animo del lettore affezioni e sensazioni
veramente intense.
Chiediamo agli amici
poeti di aggiungere qualche loro gradito commento o riflessione, perchè la
poesia di Nazario Pardini, con la sua musicalità e i suoi richiami, è
senz'altro punto di partenza per ulteriori scandagli nei nostri cuori e nelle
vicende del nostro mondo attuale.
Cantavamo
Cantavamo, paese, se
affogavi nel giallo dei granturchi.
Cantavamo sui
pavimenti
dove si stagliava la
luce del camino.
Cantavamo sopra gli
alari
arroventati dalle
pire delle potature
(la loro colpa era
quella di avere chiuso la stagione).
Cantavamo romanze,
i cui eroi vincevano
battaglie
che noi perdevamo ogni
giorno, ogni ora
(cavalli bianchi,
cavalieri e palafrenieri incorruttibili dal tempo).
Anche le madri
cantavano già vecchie trentenni
e muovevano le mani
gesticolando sui ritmi.
Mani tumide per le
umide terre delle prode.
Eppure ogni anno la
natura si sacrificava paganamente
sui roghi, nei forni
e sulle corti,
per consegnarci i
suoi profumi
(profumi che io
conobbi sempre eguali
e che sembravano non
soggetti a mutamenti).
Cantavamo romanze e
stornelli
coi vinelli freschi
del novembre.
Quando le botti ci
accompagnavano
coi loro vocalizzi
profumati,
rossi e iterati come
gli strappi delle roncole.
I padri coi riti
tramandati dagli aruspici etruschi
roteavano il primo
liquido nel vetro predicente
per misurarne il
corpo. Era la festa delle cantine,
la stessa festa che
più volte presso gli antichi
avrà veduto Bacco e
Cupido aggirarsi divertiti
al suono di zufoli e
litofoni.
Cantavamo preghiere
che Pan ci ispirava di ringraziamento
pei fulvi grani, pei
pampini rossicci o pei vermigli frutti;
preghiere che i
pagani
consegnarono pietosi
nelle mani
dei cristiani
facendosi santi.
Cantavamo senza
perché la madre eterna
potesse anche essere
ingiusta.
La pregavamo sulle
strisce d’oro dei tramonti;
se esplodeva nei
protervi affollamenti estivi;
se cadeva stanca
meritandosi la morte;
o se riposava sotto
i diluvi e le gelate.
E sembrava persino
ringraziarci
o chiederci perdono
per le siccità, per
le carestie o le morti precoci;
lo faceva turgida
coi crisantemi e gli asfodeli
sui suoi cimiteri
aperti al cielo
colle loro croci.
(Da "Radici". Edizioni
Giuseppe Laterza. Bari. 2000)
Giù per i sassi
Giù per i sassi
e in mezzo alle
rovine
zoppica il piede
incerto e vacillante;
la mente torna
su templi e mura
ardite,
su donne della Caria
di forme
trasparenti,
prospicienti i
fianchi.
Bianchi uccelli
stendono le ali
sopra i viali di una
tarda sera
e passeri su lastre
di millenni
beccano insetti su
scavati solchi
da carri tusci di
antenati antichi.
Vacilla il piede
sopra sassi austeri
e l’animo si turba
se la vista si
rivolge al cielo,
al giorno che
termina la sera.
Sassi di marmo
crepuscoli di fuoco
vita leggera satura
di morte:
corte le strade
della nostra gente
drizzano templi
sopra verdi mari
immensi altari per i
loro dèi.
(Da "Le voci della
sera". L’Autore Libri Firenze. 1995)
La fuga
Il rumore del popolo
vaniva
allo strèpere del
treno. Le madri,
i padri con i figli
si accalcavano
alle barche. Non
c’era più timore
tra di loro;
bramavano soltanto
penetrare sulle
luride zattere
adatte per i porci.
Si pestavano.
L’umanità spariva. I
genitori
premevano le braccia
sopra i corpi
indifesi dei figli.
Dalle bocche
usciva un po'
grigiastro (come quando
si agita il vento
nelle forre e porta
in alto il turbinio)
un fumo denso.
E si era aperto il
mare. Là accalcati
gemiti umani
defilati ai venti
zuppati di salmastri
e di miraggi.
Era il fiottìo
dell’onde ormai affidato
alle mani grecali.
La speranza
era la fuga. Si
pensava di certo
ad un paese nuovo
che offrisse quel
motivo sacrosanto
di vivere di pace e
di lavoro.
Lasciavano alle
spalle quei natali
d’odio e d’eccidio
di anni in cui il regime
aveva reso vano ogni
pur minimo
valore di esistenza.
Più la patria,
più la terra degli
avi o un solo lembo
di cielo, d’orto, o
di giardino che
ricordasse qualcosa
della verde
giovinezza o della
veneranda
vecchiaia,
permaneva. Solo brama
di fuga. Solamente
antiche voglie
di rinverdire
libertà sognate
anche a rischio di
morte o peggio ancora
di morte della
prole, li spingevano
su quel mare turbato
dalle grida
di speranza, di
dolore e di sgomento
su fuscelli di
legno. E venne terra.
Terra amara di
scogli dove le onde
divelsero le mani abbarbicate
alle livide sponde.
Dove i flutti,
con irruenza, spesso
si prendevano
solo i corpi di
carne. Ormai gli spiriti
avevano di già
varcato i limiti
tra sogno e realtà,
tra turbamento
e pace. Dai
relitti
si vide uscire un
volo di falcate.
Saranno stati
angeli.
Ma forse solamente
dei gabbiani
nelle sembianze
uguali a stormi d’anime.
(Da "Si aggirava nei
boschi una fanciulla". Casa Editrice ETS. Pisa. 2000)
Carso
Sopra i suoli
innevati dei declivi
del Carso, ci
apparve poi una donna
novantenne, coi
fiori nelle mani
tremolanti e
insicure. Tra la neve
(rossa neve di morte
fu il suo dire
del quale noi
restammo assai perplessi
e certamente avvinti)
rovistava
per dissodare un
varco. Poi si aprì
ai nostri occhi una
voragine di un
cunicolo di monte.
Sono tipiche,
in quei pianori
carsici, le foibe.
Pochi i raggi di
sole incastonati
in quei tepali brevi
di stagione
tra la neve
macchiata dal livore
delle rocce supreme.
Con la voce
rotta dall’emozione
volse l’occhio
al nascosto
strapiombo: “Inverne fosse
che contenete i
resti di mio figlio
in fondo al ventre
buio, ricevete
questi colori memori
di luce.
Fate che questi
sprazzi di giardino
che vide i nudi
piedi barcollanti
di lui che fu
bambino, gli ricoprano
i resti mescolati
assieme a tanti
di cui conosco i
nomi. Il solo cippo
al quale posso dire
una preghiera
è questa nuda
pietra, silenziosa
compagna di due legni
messi in croce
che solo io conobbi
e solo io
ne eressi
l’esistenza. Troppe voci
non si udirono più,
troppo potere
si scordò di quel
sangue”. La mia anima
si rivolse alla
donna che in silenzio
chiedeva
solamente
rispetto del dolore.
Ripeteva
le solite parole un
po' sconnesse
tra di sé. “Coi
camion, mi dicevano,
li portano al
lavoro.
Camion zeppi di
giovani e di vecchi.
Ma tornavano vuoti.
E vuoti ritornavano
dai lividi
sentieri. Mi
dicevano che i camion
li avrebbero portati
sul lavoro
in cima al monte. E
muti ritornavano,
ritornarono vuoti
verso il piano”.
(Da "Si aggirava nei boschi una fanciulla". Casa Editrice ETS. Pisa. 2000)
Da “Il canto di Saffo”
* * *
[…] Vorrei
vedere di Elena il barbaglio
sopra il suo viso chiaro, vorrei
scorgere
di Elena il portamento, il
femminile
incedere. Di ciò sono bramosa,
di questa libertà che provo
anch’io
nel fondo del mio seno. E questo
è umano,
è divino ed eccelso. Quest’amore
che strugge il mio sentire, la
mia carne.
Cola sudore, un tremito mi
preda,
mi faccio verde, più verde
dell’erba
mi vedo, che la morte così tanto
lontana poi non pare. Ed il tuo
trono
è vario e le tue trame sono
subdole
Afrodite. Raggiungimi,
raggiungimi.
Già un’altra volta ti giunse la
mia
voce distante. Tu l’esaudisti.
Avevi messo al giogo del tuo
carro
passeri lievi. Ed eri trascinata
sopra la terra bruna dal frullio
folto dell’ali. È questo il carro d’oro
che strugge la mia anima e
dattorno
alita canti, suoni e
incantamenti;
non di certo lo fanno i carri
lidi,
o il greve stridere bronzeo dei
fanti,
od il nitrire tetro delle
guerre. -
(Da "Il Canto di Saffo" in "Alla volta di Leucade". Baroni Editore.
Viareggio. 1997)
Ignoto
verso il mare
Il cielo è terso e il bianco della luna
quasi inneva i miei campi. I passerotti
rapinano il tepore delle piume
sui rami che sperano dal cielo
nuove buttate da donare ai nidi.
È febbraio. Non vedi per i campi
traccia di paesani; tutto è fermo.
Persino lo svolare
attende l’ora calda. Mi soffermo
sul prato più vicino a casa mia,
calpesto il suolo,
e il piede batte fesso sul tostato.
Ma è il mese che si avvia
a prometterci speranze; la mimosa
staglia il suo giallo sopra la campagna
e ricorda il colore di ginestra
che gonfierà l’estate. A te mi dono
mese di nostalgie! Di quando a sera
ci si accostava al fuoco con un animo
già pronto ad incontrare primavera:
il piede scalzo, le corse fra le vigne,
la sorpresa di un nido tra i filari.
E ti rivivo,
seppur la mia speranza
non cova rami in fiore;
e anche se negli spasimi
di due colombi sopra la grondaia
me la ricordo lesta,
ora è la voglia d’altro
che mi riporta a un fiume
e mi trascina ignoto verso il mare.
(Da "L’azzardo dei confini". BookSprint
Edizioni. Salerno. 2011)
Nazario
Pardini è nato ad Arena Metato (PI). Laureatosi prima in Letterature Comparate
e successivamente in Storia e filosofia all’Università di Pisa è inserito in
Antologie di un certo rilievo; per citarne alcune: “Delos” (Autori contemporanei di fine secolo) edita da G. Laterza,
Bari 1997; Antologie Scolastiche “Poeti e
Muse” edite da Lineacultura, Milano 1995, 1996; Antologie “Blu di Prussia”, di E. Rebecchi,
Piacenza 1997 e 1998; Antologia Poetica “Campana”
di P. Celentano, A. Malinconico, e Bàrberi Squarotti, Pagine, Roma 1999; G.
Nocentini, “Storia della letteratura
italiana del XX secolo”, S. Ramat - N. Bonifazi - G. Luti, Helicon, Arezzo
‘99; Dizionario Autori Italiani
Contemporanei, Guido Miano Editore, Milano 2001; Dizionario degli autori italiani del secondo novecento, a cura di
Ferruccio Ulivi, Neuro Bonifazi, Lia Bronzi, Edizioni Helicon 2002 e in
innumerevoli Antologie di Premi Letterari. (Docente di Letteratura Italiana),
ha pubblicato 22 opere di poesia, prosa e saggistica, fra cui : Alla
volta di Leucade, Mauro Baroni Editore, Viareggio 1999, con prefazione di
Vittorio Vettori, finalista al Premio Viareggio e vincitrice dei Premi
Letterari: “Violetta di Soragna”, Parma; “Mirabella Aeclanum”, Mirabella Eclano
(NA); “Tanzi”, Firenze; “Le Muse”, Pisa; “Paestum”, Pestum; “Il Forte”, Forte
dei Marmi; “Micheloni”, La Spezia. Radici,
Casa Editrice Giuseppe Laterza, Bari 2000, con prefazione di Aristide La Rocca,
vincitrice del Premio Letterario Paestum; Si
aggirava nei boschi una fanciulla, Casa
Editrice E.T.S., Pisa 2000 (Nella terna Mussapi, Pardini, Baudino, al Premio
Pisa 2000); Riccardo. Racconti brevi, Edizioni Booksprint, Buccino 2010,
vincitrice del Premio “San Maurelio”; L’azzardo
dei confini, Edizioni Booksprint, Buccino 2011, vincitrice del Premio
Letterario “Arti Letterarie”, Torino, del Premio “Aeclanum”, Mirabella Eclano,
del Premio “Pontremoli”, del Premio “Toscana in Poesia” e de Premio “Val di
Vara”. è critico e prefatore.
Molte delle sue opere sono state edite come vincitrici di Premi Editoriali. È
stato invitato dal direttore dell’Istituto di Cultura Italiana a New York a
presentare la sua attività letteraria. E’ stato tradotto in Francese, Inglese,
in Spagnolo.
La poesia di Nazario Pardini è così ricca di colori, sapori, umori e sentori da avvincere inesorabilmente il lettore con pervasiva affabulazione e quasi con dialogica complicità.
RispondiEliminaSi muovono le corde del cuore al canto ora lirico, ora quasi epico, in cui l'humanitas dell'autore si manifesta con accenti di acuta sensibilità e di partecipe solidarietà per la vicenda tutta umana della vita.
Nazario Pardini è senz'altro una delle voci più chiare della poesia contemporanea.
Pasqale Balestriere
Stupende poesie, di solida costruzione artigianale, come ogni vero poetare, capaci di spunti e aperture notevoli. Come sempre, grazie all'autore e a Pino Vetromile. Stelvio Di Spigno.
RispondiEliminaIn queste liriche Nazario Pardini ci propone un flashback illuminante che rimanda a momenti diversi del suo itinerario artistico. Potremmo dire che esse ci presentano tre diverse stagioni della vita.
RispondiEliminaNella prima (“Il canto di Saffo”, tratta dalla splendida raccolta “Alla volta di Leucade”), Saffo incarna la stagione della passione e dell’amore, dell’evasione e della libertà: è l’esplosione del sentimento, l’incendio dei sensi, la corsa incontro alla luce e al sogno.
Nella seconda, “ Giù per i sassi”, archiviato il furore dell’età giovanile, assistiamo ad una sorta di contrappasso: dal “carro d’oro” di Afrodite, librato in volo sopra la “terra bruna” dal “frullio folto dell’ali” di “passeri lievi”, il poeta è precipitato “in mezzo alle rovine” e a “sassi di marmo”, dove incede con “piede incerto e vacillante”.
E’ la stagione del conto consuntivo, quella inquieta e dolorosa in cui “…la vista si rivolge al cielo / al giorno che termina la sera”.
Nella terza, “In una immensità che ti rapina”, siamo come proiettati nel clima dell’ “Infinito”, e lì respiriamo tutta intera l’immensità e l’inquietudine leopardiana: stilemi e stati d’animo, la sensazione della precarietà e del nulla, l’ansia e il mistero dell’Assoluto (“… Mi prende il largo spazio: / sono nulla e il nulla si dilegua / nel vento salmastroso dell’immenso”).
Ed è, quest’ultima, la stagione che chiude il ciclo dell’esperienza e del contingente, per approdare ad un piano altro dalla conoscenza. E, come nell’ “Infinito”, anche nella lirica di Pardini si aprono scenari in cui la finitezza dell’uomo risulta irrimediabile e terribile.
Eppure, c’è un diverso finale di partita a differenziare l’esito delle due architetture esistenziali: infatti, a leggere in filigrana i versi di Pardini, non si fa fatica a scorgervi un respiro che abbraccia a più ampio raggio le ragioni dell’uomo: è quel filo che collega gli “antenati antichi” (non solo quelli della Tuscia e della Caria, i quali, ancorché cari al poeta, rappresentano pure semplificazioni nominalistiche) ai popoli di ogni tempo e di ogni luogo e ne accomuna il destino e le ragioni, dopo avere ancora una volta preso atto che, di fronte al mistero, non rimane che gettare il cuore oltre l’inconoscibile e, direi, kantianamente credere: “ corte le strade della nostra gente / drizzano templi / sopra verdi mari / immensi altari per i loro dèi”.
Umberto Vicaretti.
Piace, caro Nazario, andare per i tuoi versi sorgivi, incontrare figure femminili, genti, luoghi altri e ascoltare profonde emozioni sempre, innervate dal tuo amore per il mito e insieme per la vicenda umana. Un passato che così si avvicina, diviene anche nostro presente. E piace pure muoversi in spazi immensi del tuo presente che dicono sentimenti universi sull'attimo-spazio nostro di vita, e respirare in essi un senso di eterno che confonde e conforta l'anima. E tutto questo grazie alla tua scrittura limpida, coerente, come già ti dissi, modulata su registri linguistici colti, antichi e nuovi, su note di un'ormai calibrata musicalità che prende anima-corpo in immagini sempre diverse: sonanti (...o il greve stridere bronzeo dei fanti,/od il nitrire tetro delle guerre ) o leggere (...bianchi uccellli/stendono le ali/sopra i viali di una tarda sera...; ...il mare si avvicina e si allontana,/clessidra della vita...; ...portato sull'onda dall'ala leggera/del novembre ), ma sempre vibranti di riflessioni esistenziali, per ultimo ...la vita/è quel fuscello breve che dimena/in un'immensità che ti rapina. Una poesia, caro Nazario, senza tempo, pur adagiata su una trama di elementi naturalistici di ampio respiro ed innata armonia. Una poesia che mi è cara, intrisa del tuo amore per la vita, che si irradia spontaneo alle persone, a noi amici, e al creato.
RispondiEliminaMaria Luisa Daniele Toffanin
Leggendo queste poesie di Nazario Pardini in certi istanti il tempo si elveva a destino per l'umanità ".... Cantavamo senza perché la madre eterna potesse anche essere ingiusta. La pregavamo sulle strisce d’oro dei tramonti... E sembrava persino ringraziarci o chiederci perdono; (dalla poesia - Cantavamo - N. Pardini) qui, tutte le forze soccorritrici oserei dire - materne - si liberano dal passato e fanno corpo con il nostro presente Grazie anche a Giuseppe Vetromile favorevolmente seguirò questo passaggio sul blog "TRANSITI POETICI" . Miriam Binda
RispondiElimina"Anche le madri cantavano già vecchie trentenni...eppure ogni anno la natura si sacrificava paganamente sui roghi, nei forni e sulle corti,per consegnarci i suoi profumi"
RispondiEliminaNostalgia, tempi che 'forse' non torneranno più.
Il cuore di -Cantavamo- mi ha trasmesso tanta dolcezza. GRAZIE!
Tutte le poesie che ho letto sono dotate di una potenza descrittiva di cose e sentimenti che ricordano da vicino alcuni grandi del passato (tanto per fare un solo esempio Carducci) senza peraltro perdere la originalità che ne costituisce il fascino principale. Come canti omerici, o virgiliani descrivono, abbracciano, investono di situazioni affascinanti in cui si colgono non marginalmente i sentimenti dei protagonisti altrettanto bene di quelli dell'autore. Il sentimento del poeta emerge continuamente e fa di lui un autore per il quale situazioni più o meno antiche acquistano un valore attuale e completamente moderno. Nevio Nigro
RispondiEliminaUna poetica di vero spessore quella di Nazario Pardini, mi sono lasciata incantare dalla bellezza delle immagini e dalle atmosfere particolari che il poeta ha saputo magistralmente proporre. La natura è presenza costante, domina il verso, nel rispetto di antiche sonorità metriche.
RispondiEliminaIl "canto" riecheggia nel "tempo" . Tempo di memorie e di riflessioni, tempo ormai trascorso e per il quale vorremmo che si rinnovasse l'illusione. Difficile tratteggiare la poesia, perché essa ci sostiene nel pensiero e corrode le nostre circonvoluzioni cerebrali per fulminare idee e pensieri. Nazario Pardini riesce a incidere versi nel ritmo colorato della musica. La sua "speranza" riesce a raggiungere le bianche colombe per librarsi nel volo indefinibile e indefinito...
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaLa scelta dei testi operata, per "Transiti poetici", dall'amico Nazario è molto oculata. Lo affermo perché ho avuto il piacere e la fortuna di leggere tutti i libri da cui sono tratte le liriche, e credo di poter dire - con una certa sicurezza - che le poesie selezionate offrono uno spaccato significativo e non parziale della sua poetica. La musa è e resterà sempre, per lui, la Natura - è manifesto anche attraverso questa lettura - ma, qui, egli ha voluto umanizzarla in modo davvero "vibrante" (come Giuseppe, che saluto, ha sottolineato). E penso, in particolare, alla chiusa de "La fuga", che tanto mi ha fatto ricordare uno dei miei poeti preferiti: il Rilke delle "Elegie duinesi"; alle foibe del Carso ed alla richiesta di "rispetto del dolore" di una madre; a quella stessa "voglia d'altro" che "ignoto", ma mai privo di speranze, lo trascina al mare.
RispondiEliminaNaturalmente sono solo riflessioni ma in queste sei poesie ho visto molto, proprio molto di quell'animo puro che conosco.
Un caro saluto a lui e a Giuseppe, che ricorderà qualche nostro lontano incontro.
Sandro Angelucci
Certo che mi ricordo, carissimo Sandro! Se non sbaglio ci siamo incontrati anche ad Arcidosso, alcuni anni fa, in occasione di un premio. E ti ringrazio molto per questo tuo prezioso commento sulle poesie di Nazario, che mi onoro di ospitare in questi spazi.
EliminaSperando di incontrarti nuovamente e presto, un caro saluto.
Giuseppe Vetromile
“L’azzardo dei confini” o “la voglia d’altro” che trascina verso un mare ignoto, “l’amore che strugge la carne” e alita “suoni e incantamenti” oltre il grido “tetro delle guerre”. Suoli assolati o innevati declivi evocano nuove mani tremolanti e insicure di fanciulle che si aggirano in insidiosi boschi metropolitani, altre voragini di padri e madri con i figli accalcati ai barconi, umanità disperata che fugge con croci da sradicare in miraggi di cieli aperti.
RispondiEliminaPoesia fortemente lirica e partecipe, questa di Nazario Pardini, che da storie e sentimenti di un tempo della memoria rimanda echi di attuali disastri, immagini quotidiane dei telegiornali di esodi in cerca di approdi e speranze per riaffermare la vita oltre la tragedia di conflitti iniqui e carestie. Un canto appassionato, dunque, che non dimentica, e che si fa consapevole condivisione a immagine e somiglianza con le diversità del nostro millennio.
Complimenti vivissimi
Daniela Quieti
Poesie di ottima costruzione, cariche di immagini forti, ricche di spunti di riflessione e pathos. Poesie capaci di evocare in modo sapiente e suggestivo stati d'animo, paesaggi e momenti di vita personale, insieme a temi epici e tragedie sociali qui trattati con grande sensibilità e forza evocatica. Un saluto anche a Pino Ventromile e un grazie per averci presentato questa interessante vetrina.
EliminaDaniela Raimondi
Franco Campegiani – Trovo che il tema fondamentale delle liriche di Nazario qui presentate sia la contrapposizione tra il senso di appartenenza al mistero e la sua profanazione. Che è come dire la lotta fra Mito e Realtà, polarità divergenti e convergenti della identica natura umana/disumana. Ed è in fondo una poetica del giardino primordiale, presa nell’incanto della comunione edenica e nel disincanto della cacciata e della caduta. Felicità dell’Essere e tragedia del Divenire, l’una nell’altra fuse, perché non c’è l’una senza l’altra, anche se sembrano escludersi tra di loro. Sta qui l’amore per le radici, che è anche dolore per lo sradicamento, senza il quale non nasce il mito della terra promessa in cui porre nuove radici. Una poetica della terrestrità, dunque, quella di Nazario Pardini, dove la Grande Madre è dea e maestra di vita. Non un sasso gettato nello spazio a roteare, ma una fonte di intelligenza e di forza vitale, una vera e propria sorgente spirituale. Sta qui la religione della natura di cui il poeta si fa portatore. Natura e Sovranatura splendidamente allineate tra di loro. Una religio che non è panteismo, se con il termine si vuole indicare lo schiacciamento del divino sul piano materiale. Qui non c’è nulla di monistico e ciò che domina la scena è il senso di quella dualità misteriosa, capace di trascinare altrove, e comunque in alto, le aspettative più profonde della vita. Così a febbraio, nonostante l’attesa della primavera in fiore, il poeta si sente rapito in un mistero più grande: “… la mia speranza / non cova rami in fiore”, ed “ora è la voglia d’altro / che mi riporta a un fiume / e mi trascina ignoto verso il mare”. Franco Campegiani
RispondiEliminaDa "non addetta ai lavori", come ritengo necessario precisare sempre, mi accingo a commentare queste liriche del professor Pardini. Quello che mi ha subito colpita è che il poeta affronta argomenti molto forti, difficili da affrontarsi in poesia, pur scrivendo della "vera poesia". Eppure l'autore ci riesce e magistralmente, perché è il suo animo che racconta, che canta, che piange, che celebra qualunque sia l'argomento del suo sentire. E lo fa sempre con immagini nitide, colorate, quasi fotogrammi, ai quali fa da colonna sonora il suo sentire stesso.
RispondiEliminaE il poeta canta (in "Cantavamo" e in "Ignoto verso il mare") non solo un mondo che non c'è più ma, soprattutto, un atteggiamento, una predisposizione dell'animo che noi uomini del "terzo millennio" non abbiamo più, abbiamo irrimediabilmente perso; e il poeta con rimpianto ci mostra come i nostri avi, che a noi sembrano quasi sempliciotti da compatire, riuscivano, al contrario di noi, ad apprezzare i veri valori, quelli rappresentati dalle cose semplici e quotidiane; pur tuttavia, la poesia non rimane confinata ad un mondo, del poeta e nostro, passato, ché nei bellissimi versi "preghiere che i pagani consegnarono pietosi nelle mani dei cristiani facendosi santi", con poche parole, l'autore riassume il drammatico passaggio dal paganesimo al cristianesimo. E la poesia assume, quindi, un respiro universale. Il tutto come in un canto melanconico, eppure ricco di immagini così vivide che ci sembra quasi di essere anche noi davanti al camino col vino novello nel bicchiere. E prepotente, forte, passionale, viene fuori l'amore per la natura, per la "madre terra", alla quale sempre si elevavano inni di ringraziamento anche quando essa era, o sembrava,"ingiusta", come farebbero dei bravi figli verso una madre che è sempre e comunque fonte di vita.
E in "Giù per i sassi", dolcissimo, struggente, trasuda l'amore nostalgico per le civiltà passate fino al "turbamento dell'animo quando si rivolge al cielo, al giorno che termina la sera". E cos'è questa sera per l'autore? E' quella della sua vita o, forse, quella dell'umanità tutta e dei suoi valori? O forse entrambe?
Toccante, particolare, dolcissima e amara al contempo, per l'uso di termini "duri" è "La fuga". E come non pensare ai migranti che vengono a morire sulle nostre coste per la stessa "brama di fuga" che "rinverdisca libertà sognate" degli italiani di un tempo? Ed ecco che l'autore ha universalizzato il dramma dell'emigrazione che nei secoli continua a ripetersi in luoghi diversi ma con la stessa, dolorosa, immutata e quasi immutabile, direi, drammaticità. Sento moltissimo questo tema avendo io, nel mio piccolo, scritto molto sui migranti.
E in "Carso", il poeta ci fa rivivere la tragedia delle foibe, ma che è anche la tragedia dei campi di concentramento, è il dramma delle pulizie etniche delle contemporanee vicende storiche a cui noi abbiamo assistito e assistiamo quasi quotidianamente. E lo fa con un'immagine classica, quella della madre che piange il figlio strappatole, eppure nuova, perché rivisitata, perché vista con "gli occhi della sua anima". Entrambe sono "poesie di denuncia" eppure sono liriche che fanno vibrare le corde del cuore del lettore perché è il sentire del poeta che grida la denuncia con la forza dei suoi sentimenti!
E' un poetare a 360° quello del professor Pardini, per argomenti e periodi storici cantati; è un poetare che è capace di struggersi di malinconia e di vibrare di indignazione, di esprimere profonda e sincera compassione. E' un poetare che non lascia indifferente il lettore, quindi è vera poesia.
Ester Cecere
Già nel 2011, leggendo Alla volta di Leucade, del gentile e raffinato poeta ed amico Nazario Pardini, ero stata colpita dal suo coraggio nello scegliere, in modo "inattuale" (alla Nietzsche) un linguaggio e una tematica solo in apparenza conclusi nel solco della nostra più bella tradizione letteraria. Dico "in apparenza" perché niente è più vivo e moderno di questo impasto linguistico e sintattico in cui affiorano brividi di smarrimento panico, quasi un trasfigurarsi alcionico nel paesaggio del mito, un conforto e un antidoto rispetto alla nostra stressante alienazione metropolitana.
RispondiEliminaGrazie ancora, Pardini, per queste emozioni che ci sai così intensamente trasmettere in una cifra stilistica sapiente ed inconfondibile. (Luciana Tagle)
Dalla lettura delle poesie di Pardini postare sul blog di Antonio Spagnuolo (Il canto di Saffo, Giù per i sassi, In una immensità che ti rapina) emerge che gli affetti familiari, quelli ancestrali, quelli classico-umanistici, e quelli dell’uomo in generale, cosciente dei suoi limiti, ma arricchito del senso d’infinito sono i motivi ispiratori dell’autore. Le rappresentazioni di ambienti, di volti e di vicende in simbiosi con sprazzi naturalistici, offrono al lettore quadri icastico-metaforici di notevole spessore classicheggiante, resi fluenti, ritmici e musicali da uno stile di dolce afflato lirico. Il canto del poeta pisano è preziosa memoria di valori antichi e richiamo puntuale per l’uomo del nostro tempo. (Salvatore Tibaldi, Presidente del Premio Letterario Santa Maria in Castello, Vecchiano, Pisa)
RispondiEliminaNella poesia di Nazario Pardini, viaggio introspettivo alle radici del sentimento, vi si ritrova la consueta raffinata tessitura poetica che distingue il Poeta e che si eleva a canto armonico come a ricercare con costante tensione e alimentare con rinnovata linfa, i pensieri, le emozioni e le passioni sedimentate nel profondo dell’animo. E noi possiamo leggere l’uomo, che consapevole vive il senso della caducità, vive il tempo con il rischio dell’annullamento in una finitudine tragica, quasi riuscendo a sfiorare la nostalgia della sua nostalgia dove riaffiora infine la consolazione che può nascere dalla memoria degli affetti e delle cose. E che riesce ad aggrapparsi alla speranza di un ritorno dell’anima in fuga negli abissi….”Ritornerà in prigione nel suo corpo/... per pensare di nuovo che la vita/ è quel fuscello breve che dimena/in un’immensità che ti rapina…. (Rosanna Di Iorio)
RispondiEliminaLe poesie di Nazario Pardini testimoniano non soltanto momenti cronologicamente distinti della ricerca artistico-letteraria dell’autore e ne rivelano la maturazione stilistico-compositiva all’insegna di un possesso pieno e sicuro degli strumenti espressivi e di un’attenta elaborazione concettuale; è che i testi ospitati segnalano altresì alcuni fra i fondamentali nuclei d’interesse intellettuale-morale del poeta toscano: la rivisitazione originale e intensamente creativa del mito classico; il culto tenace eppur problematico delle tradizioni locali e dei valori storico-culturali della propria terra; il rapporto intimamente tonificante con l’universo naturale.
RispondiEliminaIl riferimento all’immensità del mare che attrae e “rapina” lo spirito del poeta focalizza una situazione tipicamente pardiniana, concepita e realizzata in una prospettiva cara a Pascal: l’anima dell’uomo, ad un tempo conscia del suo limite eppur capace di vibrazioni “infinite”, coniuga la fragile condizione del fuscello con il bisogno profondo e irrinunciabile di un’esaltante “fuga negli abissi”. (Floriano Romboli)
Liriche molto belle e sentite. L'Autore, a mio avviso, canta la nostalgia per un Mondo forse passato se confrontato alla vita frenetica e povera di valori attuale. Questo, sempre secondo il mio modesto punto di vista, è forse il compito del -Poeta-: far rivivere il tempo andato e non solo per farlo conoscere ed apprezzare ma per soffermarsi e fare un confronto, proprio come se ammirassimo un quadro nei suoi colori e nelle sue rappresentazioni. L'Autore ci riesce perfettamente. Sandra Carresi
RispondiEliminaLa poesia dell'amico Pardini mi ha sempre dato emozioni, il formidabile fremito che solo il canto di qualità sa dare. Rileggo versi che già conoscevo, e che per strana magia (nonostante lo scorrere del tempo) trovo straordinariamente più belli.
RispondiEliminaLuciano Nota
Le poesie di Nazario Pardini sono quadri, i quadri complessi, variopinti e straordinari nella loro auntenticità. Immagini forti e nello stesso momento limpidi del qui e ora trasmettono tutta complessità e raffinatezza del sentire il mondo del poeta. Quello che mi colpisce nelle poesie di Nazario Pardini è l'insuperabile padronanza dei mezzi artistici, parole-colori, una ricercata estetica e musicalità con cui riesce di esprimere ogni cosa, ogni sfumatura. Mi piacciono in particolar modo le sue poesie dedicate al Mare.
RispondiEliminaNina Amarando
Le parole scorrono sotto gli occhi mentre vengo trasportata in un altro mondo... di profumi, colori, ricordi. Le immagini richiamano momenti che putroppo non torneranno, il mondo di oggi non le conoscerà mai. Sono canti, allegrie, dolori, sono i valori dell'uomo, sono il nostro passato. Un piacere leggere questi scritti,pregni di sensibiltà ed attenzione, oltre ad una ottima qualità e competenza.Grazie Nazario per questo regalo.
RispondiEliminaAntonella Ronzulli
Una poesia suggestiva, questa di Nazario Pardini, con un ritmo incalzante e particolarissimo, un’alternanza del verso lungo con quello breve. C’è una continuità precisa dello stile e dell’uso della parola e della sua potenza armonica, nel corso del tempo. Il poeta delinea ed evoca momenti salienti della nostra storia: la guerra, la lenta rinascita che segue al suo terminare. Ma lo fa dipingendo quadri di storia umana, persone, ambienti e sapori e odori della terra. Che sembra di vedere leggendo. Mi ha colpito la figura della madre nella poesia “Carso”. Questa poesia dipinge i luoghi e i sentimenti al di là del tempo e della storia, suggerisce e fa vivere valori profondi del vivere umano: “……,/ora è la voglia d’altro/ che mi riporta a un fiume/e mi trascina ignoto verso il mare//. “ Sandra Evangelisti
RispondiEliminaCaro Nazario,
RispondiEliminaho avuto la fortuna di leggerla e il cuore ha perso colpi. Si sono spalancati universi ancestrali, edenici, lontani eppure vicinissimi. Le ho ascoltate 'le mamme che cantavano'... la forza della lotta interiore contro gli urti quotidiani, la dolcezza rabbiosa dei perdenti, che vincono ogni giorno, che non svendono mai il rispetto per se stessi, la dignità, il diritto ai sogni.
La sua mi è apparsa sì lirica della 'natura', ma anche e soprattutto affresco in note... melodiose le assonanze, i giochi di consonanti che vibrano tra i versi... del tempo che è stato e del bagaglio che ha lasciato. Lirica della valigia che è stata deposta sui binari del nostro vivere.
Lei invita a sollevarla, a trarre dal 'pozzo' del passato il
coraggio per salire sul treno e iniziare il delicato viaggio verso il domani.
Straordinaria la sua unicità. E' un Artista di Spessore altissimo!
La ringrazio per avermi concesso tanto dono. Maria Rizzi
ECCO IL MIO COMMENTO ALLE TUE STUPENDE POESIE........
RispondiEliminaaprirò un libro troverò midriadi e un mondo perduto in ritmi basici e tratteggi di spiccate proprietà medicamentose proprio là dove non esisteva cura.......voilà spero vada bene sappimi dire ciao Flavio Vacchetta
Caro Nazario, la tua poesia è come una partitura musicale in cui spiccano note alte che sanno dosare un linguaggio memorico della migliore qualità. Che dirti? Ineguagliabile, mi sembra il termine esatto. Mi ci vorrebbero pagine e pagine per mostrarti "nero su bianco" che il tuo simbolismo è palpabile, che la tua caratura è alta e possente, che possiedi dentro in interiore homini quella sigla inconfondibile che è la poesia vera, quando essa è vigile, sincronica, attenta alle ragioni del cuore, oltre che a quelle linguistiche e letterarie di alto rango. Auguri di cuore, con stima e amicizia affettuosa. Ninnj Di Stefano Busà
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