domenica 15 luglio 2012

L'Umano vibrante nella poesia di Nazario Pardini


Non il rimpianto di una umanità più buona e autentica, quando la "natura si sacrificava paganamente sui roghi, nei forni e sulle corti, per consegnarci i suoi profumi", non la denuncia più o meno velata di ingiustizie, delle eterne ingiustizie che sconquassano il tessuto sacro della pace e della collaborazione: ma un più veemente e vibrante canto, sebbene controllato con poetica maestria, che possa costituire memoria fondamentale e patrimonio culturale per proseguire consapevoli e giusti sulla strada evolutiva della storia. Questo, in sintesi, è quello che si può trarre dai testi di Nazario Pardini, che qui di seguito offriamo alla lettura attenta degli amici che ci seguono. Si tratta di una poesia matura, forte, icastica, che si snoda con tonalità altamente musicali, e che riverberano nell'animo del lettore affezioni e sensazioni veramente intense.
Chiediamo agli amici poeti di aggiungere qualche loro gradito commento o riflessione, perchè la poesia di Nazario Pardini, con la sua musicalità e i suoi richiami, è senz'altro punto di partenza per ulteriori scandagli nei nostri cuori e nelle vicende del nostro mondo attuale.





Cantavamo
 
Cantavamo, paese, se affogavi nel giallo dei granturchi.                           
Cantavamo sui pavimenti
dove si stagliava la luce del camino.
Cantavamo sopra gli alari
arroventati dalle pire delle potature
(la loro colpa era quella di avere chiuso la stagione).
Cantavamo romanze,
i cui eroi vincevano battaglie
che noi perdevamo ogni giorno, ogni ora
(cavalli bianchi, cavalieri e palafrenieri incorruttibili dal tempo).
Anche le madri cantavano già vecchie trentenni
e muovevano le mani gesticolando sui ritmi.
Mani tumide per le umide terre delle prode.
Eppure ogni anno la natura si sacrificava paganamente
sui roghi, nei forni e sulle corti,
per consegnarci i suoi profumi
(profumi che io conobbi sempre eguali
e che sembravano non soggetti a mutamenti).
Cantavamo romanze e stornelli
coi vinelli freschi del novembre.
Quando le botti ci accompagnavano
coi loro vocalizzi profumati,
rossi e iterati come gli strappi delle roncole.
I padri coi riti tramandati dagli aruspici etruschi
roteavano il primo liquido nel vetro predicente                           
per misurarne il corpo. Era la festa delle cantine,
la stessa festa che più volte presso gli antichi
avrà veduto Bacco e Cupido aggirarsi divertiti
al suono di zufoli e litofoni.
Cantavamo preghiere che Pan ci ispirava di ringraziamento
pei fulvi grani, pei pampini rossicci o pei vermigli frutti;
preghiere che i pagani
consegnarono pietosi nelle mani
dei cristiani facendosi santi.
Cantavamo senza perché la madre eterna
potesse anche essere ingiusta.
La pregavamo sulle strisce d’oro dei tramonti;
se esplodeva nei protervi affollamenti estivi;
se cadeva stanca meritandosi la morte;
o se riposava sotto i diluvi e le gelate.
E sembrava persino ringraziarci
o chiederci perdono
per le siccità, per le carestie o le morti precoci;
lo faceva turgida coi crisantemi e gli asfodeli
sui  suoi cimiteri
aperti al cielo colle loro croci.

(Da "Radici". Edizioni Giuseppe Laterza. Bari. 2000)


Giù per i sassi 

Giù per i sassi
e in mezzo alle rovine
zoppica il piede incerto e vacillante;
la mente torna
su templi e mura ardite,
su donne della Caria
di forme trasparenti,
prospicienti i fianchi.
                                       
Bianchi uccelli
stendono le ali
sopra i viali di una tarda sera
e passeri su lastre di millenni
beccano insetti su scavati solchi
da carri tusci di antenati antichi.

Vacilla il piede sopra sassi austeri
e l’animo si turba
se la vista si rivolge al cielo,
al giorno che termina la sera.

Sassi di marmo
crepuscoli di fuoco
vita leggera satura di morte:
corte le strade della nostra gente
drizzano templi
sopra verdi mari
immensi altari per i loro dèi.

(Da "Le voci della sera". L’Autore Libri Firenze. 1995) 


La fuga

Il rumore del popolo vaniva
allo strèpere del treno. Le madri,                                     
i padri con i figli si accalcavano
alle barche. Non c’era più timore
tra di loro; bramavano soltanto
penetrare sulle luride zattere            
adatte per i porci. Si pestavano.
L’umanità spariva. I genitori
premevano le braccia sopra i corpi
indifesi dei figli. Dalle bocche
usciva un po' grigiastro (come quando
si agita il vento nelle forre e porta
in alto il turbinio) un fumo denso.
E si era aperto il mare. Là accalcati
gemiti umani defilati ai venti
zuppati di salmastri e di miraggi.
Era il fiottìo dell’onde ormai affidato
alle mani grecali. La speranza
era la fuga. Si pensava di certo
ad un paese nuovo
che offrisse quel motivo sacrosanto
di vivere di pace e di lavoro.
Lasciavano alle spalle quei natali
d’odio e d’eccidio di anni in cui il regime
aveva reso vano ogni pur minimo
valore di esistenza. Più la patria,
più la terra degli avi o un solo lembo
di cielo, d’orto, o di giardino che
ricordasse qualcosa della verde
giovinezza o della veneranda
vecchiaia, permaneva. Solo brama
di fuga. Solamente antiche voglie
di rinverdire libertà sognate
anche a rischio di morte o peggio ancora
di morte della prole, li spingevano
su quel mare turbato dalle grida
di speranza, di dolore e di sgomento
su fuscelli di legno. E venne terra.
Terra amara di scogli dove le onde
divelsero le mani abbarbicate
alle livide sponde. Dove i flutti,                                       
con irruenza, spesso si prendevano                                                               
solo i corpi di carne. Ormai gli spiriti
avevano di già varcato i limiti
tra sogno e realtà, tra turbamento
e pace. Dai relitti                                                                
si vide uscire un volo di falcate.      
Saranno stati angeli.                                                                          
Ma forse solamente dei gabbiani
nelle sembianze uguali a stormi d’anime.

(Da "Si aggirava nei boschi una fanciulla". Casa Editrice ETS. Pisa. 2000) 

Carso

Sopra i suoli innevati dei declivi                                                    
del Carso, ci apparve poi una donna                                             
novantenne, coi fiori nelle mani
tremolanti e insicure. Tra la neve                    
(rossa neve di morte fu il suo dire
del quale noi restammo assai perplessi
e certamente avvinti) rovistava                       
per dissodare un varco. Poi si aprì
ai nostri occhi una voragine di un
cunicolo di monte. Sono tipiche,
in quei pianori carsici, le foibe.
Pochi i raggi di sole incastonati
in quei tepali brevi di stagione
tra la neve macchiata  dal livore
delle rocce supreme. Con la voce
rotta dall’emozione volse l’occhio                  
al nascosto strapiombo: “Inverne fosse
che contenete i resti di mio figlio
in fondo al ventre buio, ricevete
questi colori memori di luce.
Fate che questi sprazzi di giardino
che vide i nudi piedi barcollanti
di lui che fu bambino, gli ricoprano
i resti mescolati assieme a tanti
di cui conosco i nomi. Il solo cippo
al quale posso dire una preghiera
è questa nuda pietra, silenziosa
compagna di due legni messi in croce
che solo io conobbi e solo io
ne eressi l’esistenza. Troppe voci
non si udirono più, troppo potere
si scordò di quel sangue”. La mia anima
si rivolse alla donna che in silenzio                                
chiedeva solamente                                                                                                                          
rispetto del dolore. Ripeteva
le solite parole un po' sconnesse
tra di sé. “Coi camion, mi dicevano,                               
li portano al lavoro.
Camion zeppi di giovani e di vecchi.
Ma tornavano vuoti.
E vuoti ritornavano dai lividi
sentieri. Mi dicevano che i camion
li avrebbero portati sul lavoro
in cima al monte. E muti ritornavano,
ritornarono vuoti verso il piano”.

(Da "Si aggirava nei boschi una fanciulla". Casa Editrice ETS. Pisa. 2000) 



Da “Il canto di Saffo”

* * *
[…] Vorrei vedere di Elena il barbaglio
sopra il suo viso chiaro, vorrei scorgere
di Elena il portamento, il femminile
incedere. Di ciò sono bramosa,
di questa libertà che provo anch’io
nel fondo del mio seno. E questo è umano,
è divino ed eccelso. Quest’amore
che strugge il mio sentire, la mia carne.
Cola sudore, un tremito mi preda,
mi faccio verde, più verde dell’erba
mi vedo, che la morte così tanto
lontana poi non pare. Ed il tuo trono
è vario e le tue trame sono subdole
Afrodite. Raggiungimi, raggiungimi.
Già un’altra volta ti giunse la mia
voce distante. Tu l’esaudisti.
Avevi messo al giogo del tuo carro
passeri lievi. Ed eri trascinata
sopra la terra bruna dal frullio
folto dell’ali. È questo il carro d’oro
che strugge la mia anima e dattorno
alita canti, suoni e incantamenti;
non di certo lo fanno i carri lidi,
o il greve stridere bronzeo dei fanti,
od il nitrire tetro delle guerre. -

(Da "Il Canto di Saffo" in "Alla volta di Leucade". Baroni Editore. Viareggio. 1997)

Ignoto verso il mare

Il cielo è terso e il bianco della luna
quasi inneva i miei campi. I passerotti
rapinano il tepore delle piume
sui rami che sperano dal cielo
nuove buttate da donare ai nidi.
È febbraio. Non vedi per i campi
traccia di paesani; tutto è fermo.
Persino lo svolare
attende l’ora calda. Mi soffermo
sul prato più vicino a casa mia,
calpesto il suolo,
e il piede batte fesso sul tostato.
Ma è il mese che si avvia
a prometterci speranze; la mimosa
staglia il suo giallo sopra la campagna
e ricorda il colore di ginestra
che gonfierà l’estate. A te mi dono
mese di nostalgie! Di quando a sera
ci si accostava al fuoco con un animo
già pronto ad incontrare primavera:
il piede scalzo, le corse fra le vigne,
la sorpresa di un nido tra i filari.
E ti rivivo,
seppur la mia speranza
non cova rami in fiore;
e anche se negli spasimi
di due colombi sopra la grondaia
me la ricordo lesta,
ora è la voglia d’altro
che mi riporta a un fiume
e mi trascina ignoto verso il mare.

(Da "L’azzardo dei confini". BookSprint Edizioni. Salerno. 2011)

Nazario Pardini è nato ad Arena Metato (PI). Laureatosi prima in Letterature Comparate e successivamente in Storia e filosofia all’Università di Pisa è inserito in Antologie di un certo rilievo; per citarne alcune: “Delos” (Autori contemporanei di fine secolo) edita da G. Laterza, Bari 1997; Antologie Scolastiche “Poeti e Muse” edite da Lineacultura, Milano 1995, 1996; Antologie “Blu di Prussia”, di E. Rebecchi, Piacenza 1997 e 1998; Antologia Poetica “Campana” di P. Celentano, A. Malinconico, e Bàrberi Squarotti, Pagine, Roma 1999; G. Nocentini, “Storia della letteratura italiana del XX secolo”, S. Ramat - N. Bonifazi - G. Luti, Helicon, Arezzo ‘99; Dizionario Autori Italiani Contemporanei, Guido Miano Editore, Milano 2001; Dizionario degli autori italiani del secondo novecento, a cura di Ferruccio Ulivi, Neuro Bonifazi, Lia Bronzi, Edizioni Helicon 2002 e in innumerevoli Antologie di Premi Letterari. (Docente di Letteratura Italiana), ha pubblicato 22 opere di poesia, prosa e saggistica, fra cui :  Alla volta di Leucade, Mauro Baroni Editore, Viareggio 1999, con prefazione di Vittorio Vettori, finalista al Premio Viareggio e vincitrice dei Premi Letterari: “Violetta di Soragna”, Parma; “Mirabella Aeclanum”, Mirabella Eclano (NA); “Tanzi”, Firenze; “Le Muse”, Pisa; “Paestum”, Pestum; “Il Forte”, Forte dei Marmi; “Micheloni”, La Spezia. Radici, Casa Editrice Giuseppe Laterza, Bari 2000, con prefazione di Aristide La Rocca, vincitrice del Premio Letterario Paestum; Si aggirava nei boschi una fanciulla, Casa Editrice E.T.S., Pisa 2000 (Nella terna Mussapi, Pardini, Baudino, al Premio Pisa 2000);  Riccardo. Racconti brevi, Edizioni Booksprint, Buccino 2010, vincitrice del Premio “San Maurelio”; L’azzardo dei confini, Edizioni Booksprint, Buccino 2011, vincitrice del Premio Letterario “Arti Letterarie”, Torino, del Premio “Aeclanum”, Mirabella Eclano, del Premio “Pontremoli”, del Premio “Toscana in Poesia” e de Premio “Val di Vara”. è critico e prefatore. Molte delle sue opere sono state edite come vincitrici di Premi Editoriali. È stato invitato dal direttore dell’Istituto di Cultura Italiana a New York a presentare la sua attività letteraria. E’ stato tradotto in Francese, Inglese, in Spagnolo.

28 commenti:

  1. La poesia di Nazario Pardini è così ricca di colori, sapori, umori e sentori da avvincere inesorabilmente il lettore con pervasiva affabulazione e quasi con dialogica complicità.
    Si muovono le corde del cuore al canto ora lirico, ora quasi epico, in cui l'humanitas dell'autore si manifesta con accenti di acuta sensibilità e di partecipe solidarietà per la vicenda tutta umana della vita.
    Nazario Pardini è senz'altro una delle voci più chiare della poesia contemporanea.
    Pasqale Balestriere

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  2. Stupende poesie, di solida costruzione artigianale, come ogni vero poetare, capaci di spunti e aperture notevoli. Come sempre, grazie all'autore e a Pino Vetromile. Stelvio Di Spigno.

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  3. In queste liriche Nazario Pardini ci propone un flashback illuminante che rimanda a momenti diversi del suo itinerario artistico. Potremmo dire che esse ci presentano tre diverse stagioni della vita.
    Nella prima (“Il canto di Saffo”, tratta dalla splendida raccolta “Alla volta di Leucade”), Saffo incarna la stagione della passione e dell’amore, dell’evasione e della libertà: è l’esplosione del sentimento, l’incendio dei sensi, la corsa incontro alla luce e al sogno.
    Nella seconda, “ Giù per i sassi”, archiviato il furore dell’età giovanile, assistiamo ad una sorta di contrappasso: dal “carro d’oro” di Afrodite, librato in volo sopra la “terra bruna” dal “frullio folto dell’ali” di “passeri lievi”, il poeta è precipitato “in mezzo alle rovine” e a “sassi di marmo”, dove incede con “piede incerto e vacillante”.
    E’ la stagione del conto consuntivo, quella inquieta e dolorosa in cui “…la vista si rivolge al cielo / al giorno che termina la sera”.
    Nella terza, “In una immensità che ti rapina”, siamo come proiettati nel clima dell’ “Infinito”, e lì respiriamo tutta intera l’immensità e l’inquietudine leopardiana: stilemi e stati d’animo, la sensazione della precarietà e del nulla, l’ansia e il mistero dell’Assoluto (“… Mi prende il largo spazio: / sono nulla e il nulla si dilegua / nel vento salmastroso dell’immenso”).
    Ed è, quest’ultima, la stagione che chiude il ciclo dell’esperienza e del contingente, per approdare ad un piano altro dalla conoscenza. E, come nell’ “Infinito”, anche nella lirica di Pardini si aprono scenari in cui la finitezza dell’uomo risulta irrimediabile e terribile.
    Eppure, c’è un diverso finale di partita a differenziare l’esito delle due architetture esistenziali: infatti, a leggere in filigrana i versi di Pardini, non si fa fatica a scorgervi un respiro che abbraccia a più ampio raggio le ragioni dell’uomo: è quel filo che collega gli “antenati antichi” (non solo quelli della Tuscia e della Caria, i quali, ancorché cari al poeta, rappresentano pure semplificazioni nominalistiche) ai popoli di ogni tempo e di ogni luogo e ne accomuna il destino e le ragioni, dopo avere ancora una volta preso atto che, di fronte al mistero, non rimane che gettare il cuore oltre l’inconoscibile e, direi, kantianamente credere: “ corte le strade della nostra gente / drizzano templi / sopra verdi mari / immensi altari per i loro dèi”.

    Umberto Vicaretti.

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  4. Piace, caro Nazario, andare per i tuoi versi sorgivi, incontrare figure femminili, genti, luoghi altri e ascoltare profonde emozioni sempre, innervate dal tuo amore per il mito e insieme per la vicenda umana. Un passato che così si avvicina, diviene anche nostro presente. E piace pure muoversi in spazi immensi del tuo presente che dicono sentimenti universi sull'attimo-spazio nostro di vita, e respirare in essi un senso di eterno che confonde e conforta l'anima. E tutto questo grazie alla tua scrittura limpida, coerente, come già ti dissi, modulata su registri linguistici colti, antichi e nuovi, su note di un'ormai calibrata musicalità che prende anima-corpo in immagini sempre diverse: sonanti (...o il greve stridere bronzeo dei fanti,/od il nitrire tetro delle guerre ) o leggere (...bianchi uccellli/stendono le ali/sopra i viali di una tarda sera...; ...il mare si avvicina e si allontana,/clessidra della vita...; ...portato sull'onda dall'ala leggera/del novembre ), ma sempre vibranti di riflessioni esistenziali, per ultimo ...la vita/è quel fuscello breve che dimena/in un'immensità che ti rapina. Una poesia, caro Nazario, senza tempo, pur adagiata su una trama di elementi naturalistici di ampio respiro ed innata armonia. Una poesia che mi è cara, intrisa del tuo amore per la vita, che si irradia spontaneo alle persone, a noi amici, e al creato.

    Maria Luisa Daniele Toffanin

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  5. Leggendo queste poesie di Nazario Pardini in certi istanti il tempo si elveva a destino per l'umanità ".... Cantavamo senza perché la madre eterna potesse anche essere ingiusta. La pregavamo sulle strisce d’oro dei tramonti... E sembrava persino ringraziarci o chiederci perdono; (dalla poesia - Cantavamo - N. Pardini) qui, tutte le forze soccorritrici oserei dire - materne - si liberano dal passato e fanno corpo con il nostro presente Grazie anche a Giuseppe Vetromile favorevolmente seguirò questo passaggio sul blog "TRANSITI POETICI" . Miriam Binda

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  6. "Anche le madri cantavano già vecchie trentenni...eppure ogni anno la natura si sacrificava paganamente sui roghi, nei forni e sulle corti,per consegnarci i suoi profumi"
    Nostalgia, tempi che 'forse' non torneranno più.
    Il cuore di -Cantavamo- mi ha trasmesso tanta dolcezza. GRAZIE!

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  7. Tutte le poesie che ho letto sono dotate di una potenza descrittiva di cose e sentimenti che ricordano da vicino alcuni grandi del passato (tanto per fare un solo esempio Carducci) senza peraltro perdere la originalità che ne costituisce il fascino principale. Come canti omerici, o virgiliani descrivono, abbracciano, investono di situazioni affascinanti in cui si colgono non marginalmente i sentimenti dei protagonisti altrettanto bene di quelli dell'autore. Il sentimento del poeta emerge continuamente e fa di lui un autore per il quale situazioni più o meno antiche acquistano un valore attuale e completamente moderno. Nevio Nigro

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  8. Una poetica di vero spessore quella di Nazario Pardini, mi sono lasciata incantare dalla bellezza delle immagini e dalle atmosfere particolari che il poeta ha saputo magistralmente proporre. La natura è presenza costante, domina il verso, nel rispetto di antiche sonorità metriche.

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  9. Il "canto" riecheggia nel "tempo" . Tempo di memorie e di riflessioni, tempo ormai trascorso e per il quale vorremmo che si rinnovasse l'illusione. Difficile tratteggiare la poesia, perché essa ci sostiene nel pensiero e corrode le nostre circonvoluzioni cerebrali per fulminare idee e pensieri. Nazario Pardini riesce a incidere versi nel ritmo colorato della musica. La sua "speranza" riesce a raggiungere le bianche colombe per librarsi nel volo indefinibile e indefinito...

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  10. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  11. La scelta dei testi operata, per "Transiti poetici", dall'amico Nazario è molto oculata. Lo affermo perché ho avuto il piacere e la fortuna di leggere tutti i libri da cui sono tratte le liriche, e credo di poter dire - con una certa sicurezza - che le poesie selezionate offrono uno spaccato significativo e non parziale della sua poetica. La musa è e resterà sempre, per lui, la Natura - è manifesto anche attraverso questa lettura - ma, qui, egli ha voluto umanizzarla in modo davvero "vibrante" (come Giuseppe, che saluto, ha sottolineato). E penso, in particolare, alla chiusa de "La fuga", che tanto mi ha fatto ricordare uno dei miei poeti preferiti: il Rilke delle "Elegie duinesi"; alle foibe del Carso ed alla richiesta di "rispetto del dolore" di una madre; a quella stessa "voglia d'altro" che "ignoto", ma mai privo di speranze, lo trascina al mare.
    Naturalmente sono solo riflessioni ma in queste sei poesie ho visto molto, proprio molto di quell'animo puro che conosco.
    Un caro saluto a lui e a Giuseppe, che ricorderà qualche nostro lontano incontro.

    Sandro Angelucci

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    1. Certo che mi ricordo, carissimo Sandro! Se non sbaglio ci siamo incontrati anche ad Arcidosso, alcuni anni fa, in occasione di un premio. E ti ringrazio molto per questo tuo prezioso commento sulle poesie di Nazario, che mi onoro di ospitare in questi spazi.
      Sperando di incontrarti nuovamente e presto, un caro saluto.
      Giuseppe Vetromile

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  12. “L’azzardo dei confini” o “la voglia d’altro” che trascina verso un mare ignoto, “l’amore che strugge la carne” e alita “suoni e incantamenti” oltre il grido “tetro delle guerre”. Suoli assolati o innevati declivi evocano nuove mani tremolanti e insicure di fanciulle che si aggirano in insidiosi boschi metropolitani, altre voragini di padri e madri con i figli accalcati ai barconi, umanità disperata che fugge con croci da sradicare in miraggi di cieli aperti.
    Poesia fortemente lirica e partecipe, questa di Nazario Pardini, che da storie e sentimenti di un tempo della memoria rimanda echi di attuali disastri, immagini quotidiane dei telegiornali di esodi in cerca di approdi e speranze per riaffermare la vita oltre la tragedia di conflitti iniqui e carestie. Un canto appassionato, dunque, che non dimentica, e che si fa consapevole condivisione a immagine e somiglianza con le diversità del nostro millennio.
    Complimenti vivissimi

    Daniela Quieti

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    1. Poesie di ottima costruzione, cariche di immagini forti, ricche di spunti di riflessione e pathos. Poesie capaci di evocare in modo sapiente e suggestivo stati d'animo, paesaggi e momenti di vita personale, insieme a temi epici e tragedie sociali qui trattati con grande sensibilità e forza evocatica. Un saluto anche a Pino Ventromile e un grazie per averci presentato questa interessante vetrina.
      Daniela Raimondi

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  13. Franco Campegiani – Trovo che il tema fondamentale delle liriche di Nazario qui presentate sia la contrapposizione tra il senso di appartenenza al mistero e la sua profanazione. Che è come dire la lotta fra Mito e Realtà, polarità divergenti e convergenti della identica natura umana/disumana. Ed è in fondo una poetica del giardino primordiale, presa nell’incanto della comunione edenica e nel disincanto della cacciata e della caduta. Felicità dell’Essere e tragedia del Divenire, l’una nell’altra fuse, perché non c’è l’una senza l’altra, anche se sembrano escludersi tra di loro. Sta qui l’amore per le radici, che è anche dolore per lo sradicamento, senza il quale non nasce il mito della terra promessa in cui porre nuove radici. Una poetica della terrestrità, dunque, quella di Nazario Pardini, dove la Grande Madre è dea e maestra di vita. Non un sasso gettato nello spazio a roteare, ma una fonte di intelligenza e di forza vitale, una vera e propria sorgente spirituale. Sta qui la religione della natura di cui il poeta si fa portatore. Natura e Sovranatura splendidamente allineate tra di loro. Una religio che non è panteismo, se con il termine si vuole indicare lo schiacciamento del divino sul piano materiale. Qui non c’è nulla di monistico e ciò che domina la scena è il senso di quella dualità misteriosa, capace di trascinare altrove, e comunque in alto, le aspettative più profonde della vita. Così a febbraio, nonostante l’attesa della primavera in fiore, il poeta si sente rapito in un mistero più grande: “… la mia speranza / non cova rami in fiore”, ed “ora è la voglia d’altro / che mi riporta a un fiume / e mi trascina ignoto verso il mare”. Franco Campegiani

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  14. Da "non addetta ai lavori", come ritengo necessario precisare sempre, mi accingo a commentare queste liriche del professor Pardini. Quello che mi ha subito colpita è che il poeta affronta argomenti molto forti, difficili da affrontarsi in poesia, pur scrivendo della "vera poesia". Eppure l'autore ci riesce e magistralmente, perché è il suo animo che racconta, che canta, che piange, che celebra qualunque sia l'argomento del suo sentire. E lo fa sempre con immagini nitide, colorate, quasi fotogrammi, ai quali fa da colonna sonora il suo sentire stesso.
    E il poeta canta (in "Cantavamo" e in "Ignoto verso il mare") non solo un mondo che non c'è più ma, soprattutto, un atteggiamento, una predisposizione dell'animo che noi uomini del "terzo millennio" non abbiamo più, abbiamo irrimediabilmente perso; e il poeta con rimpianto ci mostra come i nostri avi, che a noi sembrano quasi sempliciotti da compatire, riuscivano, al contrario di noi, ad apprezzare i veri valori, quelli rappresentati dalle cose semplici e quotidiane; pur tuttavia, la poesia non rimane confinata ad un mondo, del poeta e nostro, passato, ché nei bellissimi versi "preghiere che i pagani consegnarono pietosi nelle mani dei cristiani facendosi santi", con poche parole, l'autore riassume il drammatico passaggio dal paganesimo al cristianesimo. E la poesia assume, quindi, un respiro universale. Il tutto come in un canto melanconico, eppure ricco di immagini così vivide che ci sembra quasi di essere anche noi davanti al camino col vino novello nel bicchiere. E prepotente, forte, passionale, viene fuori l'amore per la natura, per la "madre terra", alla quale sempre si elevavano inni di ringraziamento anche quando essa era, o sembrava,"ingiusta", come farebbero dei bravi figli verso una madre che è sempre e comunque fonte di vita.
    E in "Giù per i sassi", dolcissimo, struggente, trasuda l'amore nostalgico per le civiltà passate fino al "turbamento dell'animo quando si rivolge al cielo, al giorno che termina la sera". E cos'è questa sera per l'autore? E' quella della sua vita o, forse, quella dell'umanità tutta e dei suoi valori? O forse entrambe?
    Toccante, particolare, dolcissima e amara al contempo, per l'uso di termini "duri" è "La fuga". E come non pensare ai migranti che vengono a morire sulle nostre coste per la stessa "brama di fuga" che "rinverdisca libertà sognate" degli italiani di un tempo? Ed ecco che l'autore ha universalizzato il dramma dell'emigrazione che nei secoli continua a ripetersi in luoghi diversi ma con la stessa, dolorosa, immutata e quasi immutabile, direi, drammaticità. Sento moltissimo questo tema avendo io, nel mio piccolo, scritto molto sui migranti.
    E in "Carso", il poeta ci fa rivivere la tragedia delle foibe, ma che è anche la tragedia dei campi di concentramento, è il dramma delle pulizie etniche delle contemporanee vicende storiche a cui noi abbiamo assistito e assistiamo quasi quotidianamente. E lo fa con un'immagine classica, quella della madre che piange il figlio strappatole, eppure nuova, perché rivisitata, perché vista con "gli occhi della sua anima". Entrambe sono "poesie di denuncia" eppure sono liriche che fanno vibrare le corde del cuore del lettore perché è il sentire del poeta che grida la denuncia con la forza dei suoi sentimenti!
    E' un poetare a 360° quello del professor Pardini, per argomenti e periodi storici cantati; è un poetare che è capace di struggersi di malinconia e di vibrare di indignazione, di esprimere profonda e sincera compassione. E' un poetare che non lascia indifferente il lettore, quindi è vera poesia.
    Ester Cecere

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  15. Già nel 2011, leggendo Alla volta di Leucade, del gentile e raffinato poeta ed amico Nazario Pardini, ero stata colpita dal suo coraggio nello scegliere, in modo "inattuale" (alla Nietzsche) un linguaggio e una tematica solo in apparenza conclusi nel solco della nostra più bella tradizione letteraria. Dico "in apparenza" perché niente è più vivo e moderno di questo impasto linguistico e sintattico in cui affiorano brividi di smarrimento panico, quasi un trasfigurarsi alcionico nel paesaggio del mito, un conforto e un antidoto rispetto alla nostra stressante alienazione metropolitana.
    Grazie ancora, Pardini, per queste emozioni che ci sai così intensamente trasmettere in una cifra stilistica sapiente ed inconfondibile. (Luciana Tagle)

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  16. Dalla lettura delle poesie di Pardini postare sul blog di Antonio Spagnuolo (Il canto di Saffo, Giù per i sassi, In una immensità che ti rapina) emerge che gli affetti familiari, quelli ancestrali, quelli classico-umanistici, e quelli dell’uomo in generale, cosciente dei suoi limiti, ma arricchito del senso d’infinito sono i motivi ispiratori dell’autore. Le rappresentazioni di ambienti, di volti e di vicende in simbiosi con sprazzi naturalistici, offrono al lettore quadri icastico-metaforici di notevole spessore classicheggiante, resi fluenti, ritmici e musicali da uno stile di dolce afflato lirico. Il canto del poeta pisano è preziosa memoria di valori antichi e richiamo puntuale per l’uomo del nostro tempo. (Salvatore Tibaldi, Presidente del Premio Letterario Santa Maria in Castello, Vecchiano, Pisa)

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  17. Nella poesia di Nazario Pardini, viaggio introspettivo alle radici del sentimento, vi si ritrova la consueta raffinata tessitura poetica che distingue il Poeta e che si eleva a canto armonico come a ricercare con costante tensione e alimentare con rinnovata linfa, i pensieri, le emozioni e le passioni sedimentate nel profondo dell’animo. E noi possiamo leggere l’uomo, che consapevole vive il senso della caducità, vive il tempo con il rischio dell’annullamento in una finitudine tragica, quasi riuscendo a sfiorare la nostalgia della sua nostalgia dove riaffiora infine la consolazione che può nascere dalla memoria degli affetti e delle cose. E che riesce ad aggrapparsi alla speranza di un ritorno dell’anima in fuga negli abissi….”Ritornerà in prigione nel suo corpo/... per pensare di nuovo che la vita/ è quel fuscello breve che dimena/in un’immensità che ti rapina…. (Rosanna Di Iorio)

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  18. Le poesie di Nazario Pardini testimoniano non soltanto momenti cronologicamente distinti della ricerca artistico-letteraria dell’autore e ne rivelano la maturazione stilistico-compositiva all’insegna di un possesso pieno e sicuro degli strumenti espressivi e di un’attenta elaborazione concettuale; è che i testi ospitati segnalano altresì alcuni fra i fondamentali nuclei d’interesse intellettuale-morale del poeta toscano: la rivisitazione originale e intensamente creativa del mito classico; il culto tenace eppur problematico delle tradizioni locali e dei valori storico-culturali della propria terra; il rapporto intimamente tonificante con l’universo naturale.
    Il riferimento all’immensità del mare che attrae e “rapina” lo spirito del poeta focalizza una situazione tipicamente pardiniana, concepita e realizzata in una prospettiva cara a Pascal: l’anima dell’uomo, ad un tempo conscia del suo limite eppur capace di vibrazioni “infinite”, coniuga la fragile condizione del fuscello con il bisogno profondo e irrinunciabile di un’esaltante “fuga negli abissi”. (Floriano Romboli)

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  19. Liriche molto belle e sentite. L'Autore, a mio avviso, canta la nostalgia per un Mondo forse passato se confrontato alla vita frenetica e povera di valori attuale. Questo, sempre secondo il mio modesto punto di vista, è forse il compito del -Poeta-: far rivivere il tempo andato e non solo per farlo conoscere ed apprezzare ma per soffermarsi e fare un confronto, proprio come se ammirassimo un quadro nei suoi colori e nelle sue rappresentazioni. L'Autore ci riesce perfettamente. Sandra Carresi

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  20. La poesia dell'amico Pardini mi ha sempre dato emozioni, il formidabile fremito che solo il canto di qualità sa dare. Rileggo versi che già conoscevo, e che per strana magia (nonostante lo scorrere del tempo) trovo straordinariamente più belli.

    Luciano Nota

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  21. Le poesie di Nazario Pardini sono quadri, i quadri complessi, variopinti e straordinari nella loro auntenticità. Immagini forti e nello stesso momento limpidi del qui e ora trasmettono tutta complessità e raffinatezza del sentire il mondo del poeta. Quello che mi colpisce nelle poesie di Nazario Pardini è l'insuperabile padronanza dei mezzi artistici, parole-colori, una ricercata estetica e musicalità con cui riesce di esprimere ogni cosa, ogni sfumatura. Mi piacciono in particolar modo le sue poesie dedicate al Mare.
    Nina Amarando

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  22. Le parole scorrono sotto gli occhi mentre vengo trasportata in un altro mondo... di profumi, colori, ricordi. Le immagini richiamano momenti che putroppo non torneranno, il mondo di oggi non le conoscerà mai. Sono canti, allegrie, dolori, sono i valori dell'uomo, sono il nostro passato. Un piacere leggere questi scritti,pregni di sensibiltà ed attenzione, oltre ad una ottima qualità e competenza.Grazie Nazario per questo regalo.
    Antonella Ronzulli

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  23. Una poesia suggestiva, questa di Nazario Pardini, con un ritmo incalzante e particolarissimo, un’alternanza del verso lungo con quello breve. C’è una continuità precisa dello stile e dell’uso della parola e della sua potenza armonica, nel corso del tempo. Il poeta delinea ed evoca momenti salienti della nostra storia: la guerra, la lenta rinascita che segue al suo terminare. Ma lo fa dipingendo quadri di storia umana, persone, ambienti e sapori e odori della terra. Che sembra di vedere leggendo. Mi ha colpito la figura della madre nella poesia “Carso”. Questa poesia dipinge i luoghi e i sentimenti al di là del tempo e della storia, suggerisce e fa vivere valori profondi del vivere umano: “……,/ora è la voglia d’altro/ che mi riporta a un fiume/e mi trascina ignoto verso il mare//. “ Sandra Evangelisti

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  24. Caro Nazario,
    ho avuto la fortuna di leggerla e il cuore ha perso colpi. Si sono spalancati universi ancestrali, edenici, lontani eppure vicinissimi. Le ho ascoltate 'le mamme che cantavano'... la forza della lotta interiore contro gli urti quotidiani, la dolcezza rabbiosa dei perdenti, che vincono ogni giorno, che non svendono mai il rispetto per se stessi, la dignità, il diritto ai sogni.
    La sua mi è apparsa sì lirica della 'natura', ma anche e soprattutto affresco in note... melodiose le assonanze, i giochi di consonanti che vibrano tra i versi... del tempo che è stato e del bagaglio che ha lasciato. Lirica della valigia che è stata deposta sui binari del nostro vivere.
    Lei invita a sollevarla, a trarre dal 'pozzo' del passato il
    coraggio per salire sul treno e iniziare il delicato viaggio verso il domani.
    Straordinaria la sua unicità. E' un Artista di Spessore altissimo!
    La ringrazio per avermi concesso tanto dono. Maria Rizzi

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  25. ECCO IL MIO COMMENTO ALLE TUE STUPENDE POESIE........
    aprirò un libro troverò midriadi e un mondo perduto in ritmi basici e tratteggi di spiccate proprietà medicamentose proprio là dove non esisteva cura.......voilà spero vada bene sappimi dire ciao Flavio Vacchetta

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  26. Caro Nazario, la tua poesia è come una partitura musicale in cui spiccano note alte che sanno dosare un linguaggio memorico della migliore qualità. Che dirti? Ineguagliabile, mi sembra il termine esatto. Mi ci vorrebbero pagine e pagine per mostrarti "nero su bianco" che il tuo simbolismo è palpabile, che la tua caratura è alta e possente, che possiedi dentro in interiore homini quella sigla inconfondibile che è la poesia vera, quando essa è vigile, sincronica, attenta alle ragioni del cuore, oltre che a quelle linguistiche e letterarie di alto rango. Auguri di cuore, con stima e amicizia affettuosa. Ninnj Di Stefano Busà

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Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà