sabato 14 settembre 2024

La "Mater" di Laura Pierdicchi

La figura della madre è stato sempre un tema importante in poesia, trattato ampiamente dalla maggior parte dei poeti, dai minori a quelli più noti, in tutti i tempi. “Lettera alla madre” di Quasimodo, o “A mia madre” di Montale, bastino a darne un esempio più che fulgente.
Anche Laura Pierdicchi, valente poetessa veneziana, autrice di diverse pubblicazioni, non si sottrae a questo argomento, avendo da poco pubblicato con le ottime edizioni "La Valle del Tempo", una raccolta omogenea dedicata alla madre, dal titolo schietto e diretto “Mater”. Ad arricchire la sua pubblicazione, una dettagliata e colta prefazione di Antonio Spagnuolo, illustre poeta napoletano e Direttore della Collana editoriale de “La Valle del Tempo”.
Premesso che il tema della madre, generalmente e ampiamente riferito da tanti, può dar adito a sconfinamenti, a sdolcinature, ovvietà e superficialità (come del resto qualsiasi altro argomento che investe la sfera sentimentale, come l’amore, l’amicizia, la bellezza, eccetera), bisogna dire che l’attenzione nel trattarlo deve essere massima e l’originalità, lo stile e le altre modalità di scrittura poetica devono essere convincenti ed avvincenti. Laura Pierdicchi, da poetessa esperta, illuminata e competente, è consapevole di tutto questo e quindi ben si allontana dal baratro dell’inconcludenza e della banalità, costruendo, è il caso di dirlo, un edificio poetico ben strutturato, sia nella modalità espressiva e sia per il contenuto; contenuto, cioè Mater, la madre, che riempie le pagine con un afflato, un’eleganza del dire, stringata ma decisa, essenziale, eccezionale e singolare. I testi non hanno titolo, giusto per dare continuità alla raccolta, e pur essendo significativamente autonomi, completano un mosaico armonioso, dove la madre è al centro del concetto creativo dell’autrice. Il suo è un dire poetico lungo, articolato, ma mai monotono e ripetitivo, giacché le figurazioni, i ricordi, gli stati d’animo, i paragoni con e nella quotidianità con il senso generico della mancanza, dell’abbandono, della solitudine e della morte, vengono declamati da svariate angolazioni e situazioni. Sicché la madre, Mater, risulta figura di riferimento attorno alla quale ruota la vita dell’autrice, e in definitiva la vita di ognuno di noi, con tutti i suoi problemi esistenziali, i dubbi, i sensi di colpa, le nostalgie, ma soprattutto gli affetti, i bei ricordi, i valori di un tempo. Tempo che sembra fuggire (“Il tempo ormai è un fremito / che scuote la mente / come un vento continuo”…), e che l’autrice tenta di recuperare attraverso il ricordo della madre, per poter affrontare il domani con rinnovato vigore, frantumando l’incapacità di reagire alla scomparsa della madre, ovvero alla morte! C’è dunque un senso di rispetto ma anche di devozione, di solennità, in queste poesie, che tra l’altro lo stesso titolo in latino, “Mater” sembra senz’altro evidenziare, proprio per riconfermare, per ricalcare quella grandezza, quella centralità classica che un mero termine attuale, madre, poco avrebbe potuto indicare. Ma non è tutto qui. Mater è anche una sorta di diario, nel quale l’autrice va annotando giorno dopo giorno riflessioni ed emozioni che, a partire dalla scomparsa della genitrice, confluiscono nel suo animo, contribuendo ad una nuova visione dell’esistenza e della realtà umana, maturata e arricchita dall’esperienza affettiva e filiare. Una esperienza amara, ma lucida e necessaria per affrontare il futuro partendo dall'ineluttabilità della morte: “Non è possibile esprimere un prima / e un dopo poiché tutto succede / in seguito a quello che è accaduto”… Una esperienza dunque che le offrirà le giuste speranze “aggiungendo al mio passo il tuo passo d’aria / per continuare a camminare assieme”…
È un libro commovente, ma anche rincuorante. Accanto alla ricchezza del tema, c’è un dettato poetico che fluisce e incide profondamente nell’anima del lettore.


Il tempo ormai è un fremito

che scuote la mente

come un vento continuo –

tra le stanze

un costante fruscio di ombre

in successione.

Solo il mio respiro

solo il mio corpo

sola l’energia che trabocca

in pensieri – pensieri – pensieri

e ricordi.

 

Mai avrei creduto – mai capito

la tortura dell’assoluto nonsenso

e il desiderio di tornare indietro.

 

 

***

 

Non è possibile esprimere un prima

e un dopo poiché tutto succede

in seguito a quello che è accaduto

 

è difficile concepire una realtà

che accarezza solo la parte fisica

privata della radice – svuotata

che chiama e insiste a chiamare

quella radice ora nell’invisibile –

 

per una sperata conversione

per contemplare un nuovo giorno

per frantumare

l’incapacità di reagire.

 

 

***

 

 

Tu non sei più

tu sei tra i più

 

qui tutto scolora nelle ore

passate in memoria

e mi chiedo

se rimanere qui senza scopo

possa accendere ancora splendore

 

oppure se devo aggiungere

al mio passo il tuo passo d’aria

per continuare a camminare assieme

 

                        tu mia radice madre

 

 

***

 

 

Agito la clessidra del tempo

affinché quello che è accaduto

si fonda con il divenire

e tutto possa variare

 

possa crearsi una nuova forma

una nuova vita –

come caleidoscopio

dalle multiple riflessioni

 

     ricominciare

 

davanti a uno schermo bianco

vergine d’intenti e di emozioni.

 

 

 

***

 

 

È finito.

 

L’evento ha dipinto di nero

la pagina del passato.

 

Separarsi

è l’obbligo – l’abbandono

consuma e supera

la misura del comprendere.

 

 

***

 


Seduta in poltrona

le spalle curve

le braccia in grembo

le piccole mani incrociate

(che si perdevano

nella maestosità del corpo)

sembravi un ritratto di Gauguin.

 

Con gli occhi lucidi

mesta parlavi del tempo

che ha corso

più in fretta di noi.

 

Ormai anche tu

hai il cuore nell’aria.


I brani sopra riportati sono tratti dal libro:

Laura Pierdicchi, Mater, Edizioni La Valle del Tempo, 2024; prefazione di Antonio Spagnuolo.

Laura Pierdicchi è nata a Venezia e vive a Mestre. Ha pubblicato quattordici volumi di poesia e un libro di racconti. Cura recensioni e articoli per riviste e quotidiani con argomenti di letteratura e di cultura varia.



giovedì 5 settembre 2024

Guglielmo Aprile: Quando gli alberi erano miei fratelli

Di Guglielmo Aprile, valente poeta napoletano, e meritevole secondo me di una sempre maggiore attenzione da parte dei lettori e dei critici, già ci occupammo tempo fa, avendolo inserito nel Volume XXXI dell’Antologia “Transiti poetici” (https://antologieditransiti.blogspot.com/2021/12/volume-xxxi.html) che curo da anni e che, al momento, è giunta al numero 46. Per cui ben volentieri ne parlo ancora, in occasione dell’uscita nel corrente anno del suo nuovo libro “Quando gli alberi erano miei fratelli”, per le Edizioni Tabula fati, e in considerazione del suo grande e serio impegno nel campo delle lettere.
Credo che la qualità di un poeta si esprima anche attraverso la sua ricerca “silenziosa” di quell’inafferrabile e sovente indeterminabile senso di incompletezza che ci angustia e spesso ci mette a disagio, ben osservando e cercando di interpretare i segnali più o meno chiari che la realtà circostante ci rilascia. Lavorare in silenzio, in umiltà, consapevoli dei propri limiti, ma nonostante ciò, essere tenaci e perseverare nella ricerca, all’interno dei tessuti sfilacciati della società e di un mondo ormai, ahimé, in probabile declino sotto tutti gli aspetti.
Guglielmo Aprile è, come dicevo, uno di questi poeti, laddove per poeta intendo una persona creativa capace di ascoltare il “silenzio”, mi si lasci passare l’ossimoro, o perlomeno desumere dai rumori e dal garbuglio esterno, quel segreto, quel nocciolo di verità di ungarettiana memoria: quel qualcosa che nobiliti e che addirittura salvi l’uomo e l’umanità dalla stoltezza, dall’incapacità di amare e di vivere in armonia con tutti e con la natura stessa. Perciò, ad un certo punto, il poeta si rivolge a questa stessa natura, tradita e vilipesa specialmente in questi tempi così balordi. Quando gli alberi erano miei fratelli: il desiderio, direi utopico, di ogni uomo di pace e sano di mente e di cuore. Il desiderio di un creativo, di un artista, di un poeta.
La raccolta di cui qui parliamo si presenta in modo davvero omogeneo: il tema evidente è l’albero, visto e pensato in tutte le sue prospettive, dalla descrizione in quanto elemento importante della natura, al rapporto con l’uomo, alle sottili interconnessioni emozionali e sensazionali, ai legami affettivi tra questo ricco mondo vegetale e l’umanità stessa. Insomma, è un canto nei confronti di questa realtà verde che, in un modo o nell’altro, è una necessaria presenza nella nostra vita.
Guglielmo Aprile affronta dunque questa realtà verde, e ne parla con rispetto e ammirazione, sovente immedesimandosi in essa, fin quasi a pensare che, forse, tutta la raccolta possa essere, nel pensiero creativo e illuminato dell’autore, una grande metafora dell’umanità, laddove l’albero, visto come un antico fratello, non è altro che l’uomo, uomo che oggi ha perso o sta perdendo quella sua linfa, quel suo vigore, quella sua tenacia e nello stesso tempo quella sua “accoglienza”, quella sua bontà nei confronti del prossimo. Ma la speranza, che è anche una virtù del poeta, è sempre all’orizzonte. Così, come l’olivo magro e scheletrito, anche l’uomo potrà mantenere integra la sua umanità, soffrendo ma alzando le sue braccia preganti al cielo!
Un libro che, come dicevo, merita di essere letto e meditato, per i suoi versi convincenti e ben strutturati, fluidi come la linfa che eternamente fluisce negli alberi e che li rinnova, diretti e saldi come le radici che li tengono in essere.

Proponiamo qui di seguito alcuni brani tratti dal suo libro, affinché i lettori possano contribuire aggiungendo eventuali altri graditi commenti.


LA FORZA DELL’OLIVO (I)

 

Guardalo, questo olivo: così magro,

tenere le sue braccia, da fanciullo,

eppure salde, che sembrano tese

al cielo a tenerlo su, loro sole.

 

E le radici, con quale tenacia

avvinghiate alla roccia, che nemmeno

una piena del fiume, una burrasca

le disarcionerebbe dal terreno.

 

E il seme è duro, paziente, sopporta

gelate e siccità, con la fierezza

di un martire: lo sa, prima o poi il tempo

verrà di aprirsi, basta solo attendere.

 

Appare delicato, quasi fragile;

ma c’è una forza nascosta in ogni albero,

la stessa che nel grembo oscuro dorme

che genera i vulcani, i fortunali;

 

e una linfa indomabile attraversa

le sue vene e cavalca lungo il tronco:

quella che nutre anche i fiori d’argento

sparpagliati nei prati bui del cielo.

 

 ***

 

BIBBIA DI FOGLIE

 

Pagine di un poema le vostre, alberi,

che la pioggia con le sue molte dita

ha diritto a sfiorare, ma non l’uomo,

 

parole che solo il vento conosce

e sfogliando libri di foglie legge

e a memoria ripete e poi disperde,

 

rune scolpite nei tronchi, parabole

inaccesse se non alle sibille

che in pepli d’ali e piume profetizzano,

 

saghe di cui è depositario il bosco,

favole che potrebbero narrarci

i rami se la lingua ne intendessimo,

 

intrico delle labbra vegetali

che balbettano una rivelazione

appena udibile, su noi e sul cosmo:

 

rotoli sigillati, ancora intatti,

codici d’erba e pietra d’acque e nuvole,

papiri solo da aprire, ancestrali.

 

(Dalla sezione “Un albero mi ha parlato”)

 

 ***

 

CONFIDENZA CON GLI ALBERI

 

Sussurra il pioppo il suo segreto al cielo

e il cielo è chino su di lui in ascolto;

ogni creatura con le altre comunica

ma in un codice non intellegibile

dai nostri sensi, se non per pochi attimi

privilegiati, in cui ci fanno parte

gli alberi della loro confidenza

e in cui non più inerti e muti ma vivi

crediamo i loro volti, di persone

anche se non umane, e ci accorgiamo

che c’è fra loro un accordo, una sorta

di sintonia sottile anche se tacita,

una complicità ma sottintesa;

e quasi, mentre sembrano guardarci,

una condiscendenza intenerita

verso di noi, una pietà indulgente.

 

(Dalla sezione “La via degli Eremiti”)

 

 ***

 

IL VENTO È UNA PROMESSA

 

Esiliato in un bosco, è come se

mi fossi agli occhi del mondo nascosto

in un angolo della più lontana

galassia; nessuno sa in questo istante

dove io sia né quali echi sottili

dal folto delle balze si diffondano

e mi chiamino, verdi melodie

sull’arpa tesa tra opposti crinali;

narratori di favole, benevoli

gli alberi mi accompagnano mi indicano

un luogo a loro soli noto, in fondo

a un sentiero dove l’oblio elargisce

una fonte a chi attinga alle sue acque;

e il fiume sa a memoria ogni mio passo

e nel suono che fanno le sue labbra

contro la pietra colgo una sommessa

esortazione a spingermi più avanti;

e c’è nel vento una verde promessa.

 

(Dalla sezione “Orme nel bosco”)

 

 ***

 

PROFEZIA DELL’ACACIA

 

Acacia in fiore, insegnami a sperare!

Genitrice di ogni primavera

e del dio che dalle ombre fa ritorno,

hai per corona un intrico di rami

ispidi e duri, ma di nuovo è marzo

non più aculei la fronte ti trafiggono,

ma frecce bianche e dritte, che l’arciere

del cielo scocca in ogni direzione:

ma raggi della ruota d’oro e fuoco

del carro che attraversa l’equatore

e annuncia che un qualche risveglio è prossimo;

a miriadi i tuoi petali minuti

ne sono anche quest’anno testimoni.

 

(Dalla sezione “Teofanie silvestri”)

 

 ***

 

PERCHÉ PIÙ NON PARLATE?

 

Un delirio gentile mi fa credere

che ognuno di questi alberi (ne ignoro

anche il nome, se siano forse larici

oppure lecci, eppure riconosco

esseri a me fraterni in tutti loro),

abbiano al pari degli uomini un cuore

che sa che sono estasi e abbandono,

che sa provare turbamenti e incanto,

che conosce malinconia e letizia

in base a come l’ombra delle nuvole

di passaggio sopra le loro fronti

ora si allunga ed ora si ritira;

eppure non confidano né a noi

né al vento la loro intima vicenda,

il vento dalle lunghe dita tenere

che ne accarezza le ciocche ora crespe

ora fluenti, ne sfiora la guancia

perché come bambini si addormentino,

ma stanno assorti in un riserbo altero

che un qualche loro oracolo protegge

terribile o magnifico chissà,

troppo grande perché lo condividano

con chi quasi senza guardarli passa

distratto, sotto i portici e le volte

che i loro corpi fingono sull’argine.

 

(Dalla sezione “Il silenzio degli alberi”)

 

 Brani tratti da: 

Guglielmo Aprile, Quando gli alberi erano miei fratelli, Edizioni Tabula fati, 2024

Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive ad Ischia, dove si è trasferito per lavoro. È stato autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali Il dio che vaga col vento (Puntoacapo Editrice, 2008), Nessun mattino sarà mai l’ultimo (Zone, 2008), L’assedio di Famagosta (Lietocolle, 2015); Il talento dell’equi librista (Ladolfi, 2018); Elleboro (Terra d’ulivi, 2019); Il giardiniere cieco (Transeuropa, 2019); Falò di carnevale (Fara, opera 1ª classificata al concorso Narrapoetando 2021); Il sentiero del polline (Kanaga, opera 1ª classificata al premio “Arcore 2021); Thanatophobia (Progetto Cultura, opera 1ª classificata al premio “Mangiaparole” 2021); per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che sulla poesia del Novecento.




Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà