Vanina Zaccaria, giovane poetessa napoletana, molto
impegnata nello studio dell'arte teatrale e nella ricerca poetica anche estera,
in particolare quella russa, ha un dettato poetico molto originale, basato
prevalentemente sul monologo. Un verso libero che però ha la sua giusta cadenza
e tonalità, la sua giusta musicalità. Volentieri ospitiamo qui un breve saggio
della sua poesia, che è forte, profonda, con immagini che richiamano
velatamente scenari russi, ma anche ellenici e classici. Si tratta a mio parere
di una poesia affascinante, che prende il lettore ma che è resa ancora meglio
quando è la stessa nostra autrice a declamarla, con la destrezza, la competenza
e la bravura di un'attrice di teatro quale essa, peraltro, è.
Una umanità ferita, dimenticata, il desiderio di
riscossa, il grido di dolore di un soldato: questi i temi fondamentali che
delineano, almeno in questi testi, la fisionomia poetica di Vanina Zaccaria.
Ma, come sempre, sarà l'amico lettore attento che vorrà aggiungere eventuali
altri graditissimi commenti su questo mondo poetico del tutto particolare e
certamente molto valido e interessante.
Gli occhi di Ivàn
Non esistono azzardi Isidora
è solamente il tempo che ci perisce
benché ci pensammo giunchi
irresponsabili sotto il peso dell’acqua.
Abbiamo corso sui gomiti, sui palmi delle mani
e sui ginocchi
una catechesi feroce tra noi e la strada
e lo sguardo di tua madre, a cui non si ebbe
accesso,
immacolato come un feretro cristiano.
Mi hai raccontato di Lui
che ebbe per te lo stesso peso di una morna
e lo cantasti e ricantasti, trasfigurato
come se non dovesse finire mai
l’azzurro nebuloso dei suoi occhi
che solo quello il ricordo salvò
il resto in pasto alle stagioni,
veloci come cani da slitta.
Te lo portasti dentro come una nenia,
tua madre non sapeva,
e ne amasti i tratti
con la solitaria passione dell’uccello feroce
destinato al suo esilio di rupi.
Non esistono azzardi mia bella
è solamente il tempo che ci monda
in questa irriducibile primavera
e ci consegna come ostie nelle bocche dei
credenti.
E ancora il ricordo tremendo
della sua pelle bianca
quando al confine con Palanga
si rinserrava austero nella piccola giubba.
Il
gioco del soldato
Ci acquartierammo in un sogno
per mancare la traiettoria della mitraglia
nell’estate fremente di San Martino,
quando venimmo a gemere presso la porta di casa.
Padre io non lo so, padre io non lo so
se fummo noi il reato o l’amnistia
nascosti com’eravamo nella nebbia.
Avemmo da credere al presentimento della resa
mentre rassomigliavi alle rive della città di
Pietro
che fonde il nero con gli ori quando la Sfinge,
al vespro,
china il suo corpo di animale nelle acque della
Neva.
Mentre rassomigliavi ai venditori di porcellane
che piegano verso oriente nelle mattine di neve
con occhi chiari e mani minute.
Percorremmo la strada dei viadotti
salendo a fatica l’aspra montagna
la sera, come una creatura nuda,
serrava vergognosa le ginocchia.
Padre non lo compresi
se fummo noi il delitto o la giustifica,
piegati com’eravamo nella nebbia
salmodiammo e ragliammo come l’agnello
nel giorno in cui gli
fendono la gola.
Con la dinamite legata alla schiena
provvedemmo a non morire,
mentre rassomigliavi alla pista di ghiaccio
che si dipana dal Ladoga
in vividi riflessi boreali
mentre, asserragliato nella notte,
rassomigliavi alle robuste erbe della steppa
pagane e bionde, aggrappate alla terra
quando il vento feroce
ne mina la bellezza.
Ti
ho estratta a mani nude dalla pietra
Ti ho estratta a mani nude dalla pietra
che gemevi nella sera composta, al verso di
animale della laguna
L’abito scolpito, corrotto dall’acqua salmastra
insisteva lamentoso nel vento
senza che tu potessi muovere un solo passo
Contratta ti vidi, col collo torto
e ti estrassi a mani nude dalla pietra
era l’ora barbara del mercato, l’uccello bianco
attendeva
scarti di interiora
Il cuore calmo declinava ogni invito
l’acqua scura cospargeva di bave le tue anche di
marmo
fosti informata dei fatti, dell’epoca remota
corrispondemmo coi morti per brevi istanti.
Ti ho estratta a mani vive dalla pietra
come la levatrice al grido nero
risposi segnando il lutto,
il tuo sguardo cieco fece un cenno di biasimo
e fummo a un passo dalla disfatta
Venimmo a decisioni feroci
e prima che il lume rivelasse il volto
seppi dell’occhio di Ciclope
che assumeva i tratti immondi della tua memoria
Fu l’uomo bruno, figlio degli achei
a mostrarti fremente la costa,
il tuo corpo di fiera
barcollò sull’acqua,
turgido di bruna.
Nessuno
dimora
Guaderemo il fiume, nel tempo severo del marzo
procedendo muti e senza espressione.
Mi dicesti
non c’è rimedio
e rivolgesti lo sguardo verso la pietra,
nessuna
attesa, e il tempo si mise di schiena.
E invece guaderemo il fiume, come animali
stanchi
passeremo il confine
mostrando il segno del morso dietro la schiena,
senza impietosire nessuno
senza che nessuno ne abbia misura
misura e coscienza
nel tempo severo del marzo
il marzo stanco, senza rimedio.
Ci duole la schiena, curvi alla foce
alla foce ventosa, scossa da uccelli
noi chini alla foce, scardinati dagli anni
minute figure, minute come l’aratro
e come il secchio
nella sconfinata campagna, oltre il confine
tornando dove ricordavamo casa,
la casa smarrita, contratta sotto le polveri.
Rammaricato alla finestra, tenuto alla fune,
come impiccato
il tuo vestito di lino
quello che indossasti per la festa, sbottonato
alla gola
per soffiare il clarino e l’armonica
prima del fiume, prima
del marzo.
E adesso che non credi più
a nemmeno una voce
e nemmeno ti volti a guardare
il nobile lino scolora
e nel paese estinto
se ne vanno i vecchi languidi
seguiti dal tempo che incensa le strade.
Vanina Zaccaria
vive e lavora a Napoli.
La sua attività si è
costantemente divisa tra il percorso artistico-letterario e l’impegno nel campo
della ricerca sociale e delle politiche sociali.
In ambito artistico si
è dedicata al teatro, sia portando in scena spettacoli come attrice, sia
collaborando come direttore artistico per l’associazione culturale Passiodea,
per la quale ha scritto e diretto performance teatrali.
I vari lavori
teatrali, di cui ha curato regia e sceneggiatura, hanno avuto sempre come
epicentro la letteratura e la poesia; del 2010 è il lavoro teatrale ‘Storie di
Tango’, performance che ha unito un concerto di tango per voce e chitarra
solista con un percorso nella poesia e nella letteratura argentina.
L’ultimo lavoro
teatrale come protagonista è stato il monologo ‘Un soffio tra i capelli’,
tratto dal racconto di Giovanna Castellano e portato in scena al Teatro Il
Primo di Napoli nel 2011.
Attualmente di
rassegna stampa internazionale e ricerca nel campo della storia e della
geopolitica.
Collabora con il
giornale in lingua italiana e russa Sussurri
e Grida come curatrice della
rubrica ‘Osservatorio Etico’, che si propone come spazio di libero pensiero e
riflessione intorno ai temi della politica contemporanea, usufruendo del
contributo delle scienze sociali.
La poesia, come costante
di ogni percorso, è stata un lavoro intimo che ha portato alla nascita di tre
raccolte: la prima ‘Senza
che gli altri ne sappiano niente’, dedicata ad Anna Achmatova e alle donne
della resistenza russa, ha i toni della prosa poetica e del racconto e subisce
le suggestioni di lunghi anni di viaggio; la seconda dal titolo ‘Il Novecento in calzamaglia’, dedicata
a Cesare Pavese, è una raccolta asciutta ed ermetica che diviene un dialogo
intimo sulla vita, pensata come teatro di guerra e di rinascita; l’ultima,
ancora incompiuta, è ‘Storie dei pesci
fischiatori’, nata e sviluppata a Venezia, meta reale e simbolica, luogo
epifanico e di confine, è la voce di innumerevoli personaggi che si
affastellano nell’immaginario di chi vive per la poesia e nella poesia.
L'andamento monologante di queste poesie evidenziano il bisogno di essere recitate, almeno lette a voce alta; la loro lirica non affontanelle viscere ma nella gola. Indubbiamente costituiscono una novità , piccoli poemetti su tranches de vie e sulla miseria e sulla fatica dell'uomo.
RispondiEliminaGiudico Vanina Zaccaria una delle voci più talentuose del panorama letterario contemporaneo. Meriterebbe spazio e soprattutto, proposte editoriali!
RispondiEliminaAmo particolarmente i suoi versi pastosi, colori ruvidi su un panno etico dalle trame larghe. Ha qualcosa che mi ricorda l'amarezza di Marquez, quel senso di storia sempre "generazionale"...complimenti a Vanina e un caro saluto all'amico Pino! Federica Giordano
Grazie carissima Federica per questo tuo pregevole commento. Sono d'accordo con te, Vanina merita maggiori attenzioni, e sicuramente arriveranno per lei momenti di gloria. Ma anche tu sei su questa strada che ti porterà sempre più in alto!...
RispondiEliminaBrani poetici nuovi, moderni, che dispongono il verso ad abbracci. Che dispongono stesure articolate, sovrasinattiche, e ipermetriche a contenere pensamenti di travagli e di fatiche umane. Umane nell'azzardo impellente a scavalcare il singolo (pur servendosi dello stesso) per proiettarsi al tutto. Per colmare la distanza fra l'immensità dell'ego e quella del fuori. Dare, poi, al foglio questa equazione non sempre risolta con l'ardore allusivo delle metafore, significa fare un poièin in cui ci ritroviamo tutti. E qui mi pare che gli approdi temporali si embrichino indissolubilmente, dando forma a risultanze poetiche assetate di spazi.
RispondiEliminaNazario Pardini
Evocativa e potente, ricca di sonorità che dialogano con l'Io e col mondo. D'ascoltare dalla voce recitante dell'Autrice per cogliere appieno le sfumature già mature del verso.
RispondiEliminaKetti Martino
Ho avuto il piacere di sentire Vanina stessa recitare un paio
RispondiEliminadelle sue poesie... devo dire che immediatamente mi hanno colpita
per la capacità di dare corpo al desiderio astratto, alla vertigine
che accompagna la scomparsa della dimora, di quell'ideale che fissa
il tempo presente nell'attesa o nel ricordo. Nella poesia di
Vanina il tempo è infatti il protagonista principale: nel suo
essere carnefice e vittima dell'uomo. L'uomo, la cui struttura
esistenziale altro non è che temporalizzazione, dove va a finire
l'uomo quando il tempo si annienta nelle stagioni ("il resto in
pasto alle stagioni"), nell'"irriducibile primavera", in quell'ordinario
e seriale succedersi di una linea temporale livellata (post classicità, entro il cristianesimo)?
Questa la domanda che scuote prepotente il lettore della poesia di Vanina.
Dice "è solamente il tempo che ci perisce", "è solamente il tempo che ci monda",
perché il tempo è l'essere dell'uomo, decide il suo essere, a seconda di come
noi decidiamo lui. Quale sconforto dunque, e quale nostalgia per la nostalgia stessa(!), se
è proprio il tempo che muore nel nostro procedere "muti e senza espressione", nel nostro
pietrificarci ("e rivolgesti lo sguardo verso la pietra").
Splendido a questo proposito il riferimento "giudiziario" all'ambito del crimine/colpa.
Anche lì, infatti, si annientano i criteri di valore, l'assiologia crolla e tutto quello che
resta all'uomo è l'assunzione di una universale colpevolezza nell'innocenza costitutiva del nichilismo russo
del "tutto è permesso" (quindi niente lo è): "Padre io non lo so, padre io non lo so
se fummo noi il reato o l’amnistia" - "Padre non lo compresi
se fummo noi il delitto o la giustifica").
La poesia di Vanina Zaccaria riflette sulla mineralizzazione dell'umano
ad opera di quello sguardo di medusa che diventa la coscienza l'attimo dopo
che ha distrutto i suoi idoli, abbandonato i feticci d'infanzia che avevano
rimpiazzato gli idoli stessi. Ecco perché è la poesia dell'uomo moderno
nella misura in cui, perduti i riferimenti assoluti, non ha ancora trovato
alcun relativo che possa decidergli il tempo.
Flavia Balsamo