sabato 22 febbraio 2025

Margherita Parrelli a "Poesia è... Rinascenza". Pollena, 21 febbraio 2025

La sensibilità e l’emotività per un poeta possono costituire un’arma a doppio taglio. Certamente sono qualità personali necessarie di base con le quali cominciare a costruire le proprie strutture poetiche, per indagare e riflettere su argomenti e situazioni diverse… Ma poi il tutto deve essere rielaborato, riformato e proposto in modo più ampio e generalizzato, e soprattutto con una propria originale impronta poetica. Altrimenti si rischia di cadere nel già detto mille volte, nell’ovvietà delle figurazioni e delle oggettivazioni descritte nei versi.
Non è certamente il caso di Margherita Parrelli, poeta di grande talento, con esperienze di viaggio e di soggiorni in altre nazioni (Germania, Inghilterra, Francia) che le hanno permesso di accrescere le sue conoscenze di vita sociale e culturale di quelle realtà.
E dunque non basta la sensibilità e il primo impeto creativo. Margherita Parrelli ne è pienamente consapevole, esprimendo infatti una poesia che attinge dal cuore dell’umanità, intesa qui come dimensione primaria e sacra, che ci contiene e ci unisce tutti, indipendentemente dal tempo e dalla geografia. È una poesia universale, dove il canto è il medesimo fluire del vento di giustizia sulle vicende dell’uomo. E perciò, sia che si tratti di tematiche inerenti la delicata e intricata situazione della donna attuale nella società, sia che si tratti del mai rassegnato problema della pace (come nella raccolta Tieni la pace in mano), e sia che si tratti di problemi affettivi più personali (come in A mani vuote), Margherita Parrelli ha il grande dono di sublimare il tema, elevandolo al di sopra del contingente e rendendolo così un valore da considerare universalmente. Con una narrazione poetica che è sempre adeguata all’argomento, epica, stentorea, o addirittura intima, a seconda del palpito emotivo che modula il tema.
Sensibilità e attenzione: prerogative importanti dunque, ma non sufficienti per un poeta che si rispetti. La delicatezza e la dolcezza di certe immagini, o anche viceversa le oscurità e i dolori, possono generare versi superficiali e ovvi non suggerendo nulla di nuovo. Margherita Parrelli supera questa generalizzazione omologante, scavando con coraggio e con assoluta consapevolezza del suo talento, nel groviglio informe della coscienza e del cuore, traendone le motivazioni più profonde, ma anche le verità negate, i dubbi, i fallimenti. A mani vuote si rimane alla fine, dopo aver percorso questo sentiero di memoria che avrebbe avuto altre possibilità di contatti affettivi – parliamo delle relazioni tra la nostra autrice e sua madre – ma che adesso sono ineluttabilmente perduti. Ed è qui che il coraggio e la determinazione nella ricerca della verità nei propri rapporti affettivi, superano la mera sensibilità del poeta, in qualche modo rasserenandoli e offrendoli al mondo come viatico per un possibile rinnovato sentimento d’amore.
Non ci rimane nulla, a mani vuote: così sembrerebbe. Ma in realtà la poesia, e quella di Margherita Parrelli è Poesia, lascia sempre una luce accesa dentro l’umanità, anche dopo una verità deludente e vuota: sono le stesse parole del poeta che rivivono in noi e alimentano i nuovi fuochi dell’essere.


È tanto che non prendo un treno

ne ho dimenticato il suono ritmato

le distanze d’amore che devo coprire

sono troppo ampie e il luogo da raggiungere

non ha rotaie. Mano nella mano

una lunga fila di saluti alcune fotografie

il passo incerto l’incontro del tuo sorriso.

Sono nata il giorno in cui tu sei nata

mi hai avuta in un intervallo

all’ombra del firmamento.

 

 

 

Nessun altro luogo è stato

così stralunato e silente

come la tua casa nell’ora meridiana.

I tanti quadri a guardare immobili

verso il riposo dei divani

i libri ben disposti sui tavolini

e i fiori finti i fiori secchi i fiori

di vaso in vaso di stanza in stanza.

Tu minuta rimpicciolita

incurvata lumaca sbucciavi il pensiero.

Nel raggio di sole che attraversa le finestre

incerti voli di polvere cittadina.


Brani tratti da A mani vuote, Macabor 2024, primo premio Vincenzo Pistocchi 2024 per la silloge inedita.

Il libro è stato presentato in occasione dell'incontro con Margherita Parrelli nell'ambito della Rassegna "Poesia è... Rinascenza" curata e condotta da Nelania Mollo e Giuseppe Vetromile, il 21 febbraio 2025 nella Congrega del SS. Sacramento, Pollena Trocchia (Na)



giovedì 13 febbraio 2025

Ennio Meloni e la sua poesia d'impegno in "La candela del minatore"

È certamente un’opera singolare, questa raccolta recentissima di Ennio Meloni, attento e valido poeta sardo, e coraggioso narratore di ambientazioni e periodi storici, lavorativi e politici della sua terra d’origine. Coraggioso, perché affrontare e descrivere con la poesia, e in poesia, temi particolarmente delicati come le problematiche dei lavoratori, dal punto di vista sociale, umano e persino sindacale e politico, è alquanto rischioso, potendo cadere nella mera narrazione documentaria priva di quella musicalità e di quelle aperture verso le altre significanze, che sono alcune delle caratteristiche peculiari di un testo poetico. Ma Ennio Meloni, consapevole di questo rischio, lo evita con la sua grande competenza letteraria, producendo dei versi generalmente lunghi, ma che conservano costante il tono e il ritmo, e fondando essenzialmente il suo dire sulla parola, sulla gravità della parola, che nel verso assume tutto il suo spessore e potenzialità di significati.

La candela del minatore è dunque un vero poema dedicato al mondo dei minatori, e in particolare al padre dell’autore, come afferma egli stesso nella sua introduzione, e per estensione a tutte quelle realtà del mondo del lavoro di quel periodo (anni cinquanta e sessanta del secolo scorso) che hanno interessato la regione sarda del Sulcis, innescando problematiche sociali e sindacali molto importanti. Ennio Meloni ne parla con cognizione di causa e con versi che entrano, come un minatore, nella profondità dell’animo del lavoratore, traendone riflessioni dure, i segreti patemi, le sofferenze e i disagi, ma anche mirando ad una natura selvaggia e aspra ma nello stesso tempo accogliente e benevola, materna.

A questo punto l’accostamento a un Rocco Scotellaro, il poeta contadino delle nostre terre lucane, troppe volte dimenticato, o ad un Vittorio Bodini, potrebbe essere opportuno, in questo caso. La poesia di Ennio Meloni, qui è infatti da considerarsi un pregevole recupero di quelle antiche identità lavorative e sociali che nobilitano da sempre, con la forza, la volontà, la passione e l’abnegazione, secoli di storia non solo sarda, ma meridionale e persino italiana. E la poesia, anche qui, è utile strumento di comunicazione e di educazione ai buoni e fondanti valori della vita.


Avviandomi per la tortuosa strada

sterrata che in salita si srotola,

tra rade macchie di cisto e fitti lentischi

punteggiati di euforbia e fragrante elicriso

accompagnato dal coro di mille cicale

sono infine arrivato sulle pietre ammucchiate

tra cespugli e macerie dove un tempo sorgeva

la casa che fu della mia adolescenza.

 

Davanti all’albero ombroso,

ove m’arrampicavo a sognare

di essere un grande pilota,

ho rivisto quegli anni ch’ero ancora bambino.

Come nuvolaglia che fugge in un cielo ventoso

son trascorse le ore di quel pomeriggio

nel villaggio che fu già degli Asproni.

In cima il padrone con la direzione

intorno vicino i fidati aiutanti

poi gli operai dispersi nell’agro

come fosse un castello di antica memoria.

Poi, m’è apparso al tramonto

oltre i colli che scendono al mare

sopra giubbe ormai lise e capelli arruffati

garrire rosse bandiere innalzate

nei lontani cortei di lotta e riscatto.

Ho pensato, un po’ triste,

ai mille poveri morti del lavoro in miniera.

A volte caduti per il cottimo assurdo

o uccisi più spesso dall’immondo profitto.

Il pensiero alle vedove, agli orfani implumi

alla fame immanente, al futuro negato.

E intanto, nel cielo si è alzato

il viso rotondo di una pallida luna,

e passa, tra le querce ed i lecci

la sparuta processione operaia

del turno di notte in miniera

punteggiata dalle guizzanti

fiammelle di candele a carburo.

Parlottano fitto dei bassi salari

imprecano allo spaccio che è esoso

ai partiti che, dicono, si sono venduti

ai sindacati che sono ogni volta divisi,

e progettano scioperi e lotte

rimandando a domani l’agognato riscatto.

Ora passano in fila altri operai

sono curvi e stremati

riemersi alla luce, dopo il turno notturno.

Indovino unghie orlate di terra

e mani callose appese alle braccia

curvate le schiene dal pesante lavoro.

Anche oggi è salva la vita

la mina non ha anticipato

e la roccia è franata in fornelli deserti

possono, esausti, tornare alle case

dormir poche ore ed attendere

un altro turno nel buio a raccogliere il pane

appesi alla tremolante fiammella

della fida candela a carburo.

Mi pare ancor di vedere

la dignitosa miseria delle case operaie,

sparuti grappoli di bimbi vocianti

che al rientro dei padri interrompono i giochi,

per sedere affamati intorno a minestre

condite con dignità premurosa

dalle eroiche mamme operaie

che tra un boccone ed un altro

parlano ai figli che ascoltano attenti

di un futuro migliore che ancor non arriva.

Poi nella notte ancor giovane,

mentre la luna di latte, che pareva

anche lei, pensare nostalgica

a quel mondo di un tempo,

mi mostrava ogni fosso, ogni sasso, ogni spina,

mi sono avviato pensoso sulla strada di casa

mentre qui e là qualche grillo nascosto

tra gli asfodeli ormai secchi

innalzava il suo canto a corteggiare la luna.

Sono quasi sull’uscio di casa:

un cane randagio abbaia alla notte

ed un altro rovista tra rifiuti di cibo

nell’affannosa ricerca d’un prezioso boccone.

Un uomo minuto che mi par di conoscere

s’avvicina un po’ incerto, poi con un bastone

scaccia il cane lontano, e prende,

guardingo, il suo posto a cercare.

La luna, mi accorgo, si è nascosta

indignata dietro una nuvola spessa

mentre dalla casa vicina un giornale notturno

annuncia con tono neutrale

che vorrebbe sembrar persuasivo

“Duecento migranti sono oggi annegati,

a due passi da terra, nel Mar di Sicilia.

I morti dell’anno son già più di mille

annegati, per le incoscienti avventure

che prendono avvio dalle sponde Africane”.

Vedo intanto in uno spicchio di cielo

sgretolarsi le dodici stelle e l’Europa

precipitare nel Mar di Sicilia

annegata dal suo stesso egoismo.

Intravvedo nella sera un’alta figura,

mio padre che s’alza dai neri cipressi

e come un tempo mi spinge

a cercare e trovar le parole

per difender chi è debole e vinto

chi è senza diritti e sfruttato.

E penso all’amaro destino

dei tanti fratelli e sorelle

che oggi annegano in mare

cercando una vita più giusta, più umana,

sono compagni di viaggio e di lotte

d’ogni uomo che arranca per la sua libertà,

(il migrante che annega in un pozzo di sale

è un minatore che cade per tempesta da frana)

e vedo ad oriente bagliori di bombe,

mamme che piangono i figli

bambini che piangon le mamme

morti privati di nome, di foto, di tomba

morti senza storia che macchiano la Storia

e feriti storpiati dall’odio

che pregano un dio che pare

parlare una lingua straniera

e macerie su macerie ove ancora iersera

c’erano scuole, ospedali, chiese, moschee.

È buia la notte e pare molto lontana

persino irraggiungibile

la pallida luce dell’alba.

 

 ***

 

Questo tempo malato

 

Ci sono

ormai sempre più spesso

giorni in cui vorresti

arrampicarti su, nel cielo

tra le alte nuvole leggere

per guardare da lontano

le misere lotte tra gli uomini

per qualche metro quadro

da occupare o liberare

di quella che con enfasi

definiscono “mia patria”

pensando, pare incredibile,

che qualche dio di comodo

gliela abbia destinata.

 

 ***

 

Nostalgia

 

Il sole sta calando

sulla strada ora asfaltata

che sale fino alle miniere

tra vecchi impianti diroccati

e nuovi arbusti rigogliosi.

Solo le corolle

del tarassaco e del cisto

mostrano al passo stanco

i colori sfavillanti

del tempo dell’infanzia.


Brani tratti da:

Ennio Meloni, La candela del minatore, RPlibri, 2025. Postfazione di Ottavo Olita


Ennio Meloni nasce a San Vito a metà del secolo scorso. Figlio di un minatore, vive da tempo a Gonnesa, al centro del bacino minerario del Sulcis Iglesiente dove ha fondato e presiede la Associazione culturale “Radici e ali” e un premio annuale di poesia “Le strade della poesia”. Socio volontario della Cooperativa sociale “Casa Emmaus”, ha fatto parte per parecchi anni, a titolo gratuito, del suo CDA. Appassionato lettore di Neruda, Hikmet e Brecht è arrivato alla scrittura solo con la piena maturità. Ha pubblicato due raccolte di poesia: Centellino amore, LietoColle Editore 2009 e Davanti al mare, RPlibri 2023. Sue poesie sono state pubblicate su raccolte e riviste. Ha pubblicato qualche racconto breve.

Le poesie di questa raccolta sono del periodo 2015-2024 salvo due che sono del periodo precedente e sono tratte dalla raccolta Centellino amore pubblicato nel 2009.

mercoledì 29 gennaio 2025

La presentazione del libro "Repertorio del perdurare" di Ketti Martino. Libreria Mancini, Napoli

Ketti Martino è voce poetica possente, riconosciuta in ambito nazionale e meritevole di essere annoverata tra i poeti più importanti e significativi, in quanto ha una sua propria originale linea di dettato poetico, sia per contenuti che per forma espressiva.
Dopo la pubblicazione di notevoli raccolte poetiche, con case editrici ben note come La Vita Felice e Oedipus, ora giunge a questa interessante raccolta dal titolo emblematico, Repertorio del perdurare, con la quale, a mio parere, riprende in qualche modo il suo discorso filosofico ed esistenziale sulle difficoltà, i disagi e i compromessi che la vita, nell’odierna società, ci mostra.
Ovunque noi siamo, è il sottotitolo della raccolta, che bene individua e sottolinea queste forze negative che in qualche modo sembrano condizionare l’ego, costringendolo a ritornare sui suoi passi, a riconsiderare pedissequamente l’esistenza, a cercare disperatamente nuove strade e nuove soluzioni di vita. La felicità e la realizzazione di sé non sembra siano proprio dietro l’angolo. Questa sofferenza, questo disagio, ovunque noi siamo, è iscritto nel nostro diario quotidiano, nel nostro repertorio di vita, e perdurano all’infinito, senza accennare a un disvelamento, ad una chiarità all’orizzonte.
Abbiamo mandato a mente tutti i doveri: / la commozione per la voce che ci chiama / la condanna dell’età crudele / il disordine della mutevolezza. Così afferma la nostra autrice in una sua poesia iniziale, ed è qui, a mio parere, che si concentra il suo progetto poetico che poi prende man mano forma e significato in tutta la raccolta. Noi viviamo incasellati in una società che, per vari motivi ma soprattutto per ordinare e regolare i nostri comportamenti e il nostro agire in seno al consesso civile, inevitabilmente ci condiziona e ci limita; ciò naturalmente è necessario e accettabile, dal punto di vista del vivere in comunità e nel rispetto dei regolamenti e delle leggi, ma a volte contrasta l’intima aspirazione del tutto personale ad uscire fuori, ad evadere da questi inscatolamenti. È possibile questa fuga dalla monotonia e dalla ripetitività dell’esistenza, con l’esplicitazione della poesia, che qui è indicazione, denuncia e confutazione allo stesso tempo, di uno stato d’essere incompleto, limitato, circoscritto. La poesia di Ketti Martino è qui cartina al tornasole di questo stato: è consapevolezza delle negatività che ci affliggono ogni giorno, nel loro incessante perdurare. Ma è anche un invito ad una possibile redenzione, laddove la sincerità e la schiettezza dell’uomo, veicolate necessariamente dall’arte e dalla poesia, potranno liberarlo da ogni schema prefissato, da ogni falso stereotipo.
In effetti, la poetica di Ketti Martino in questa raccolta, è l’amara constatazione che l’uomo rivolge principalmente le sue attenzioni alle cose minime e routinarie della quotidianità, in un repertorio di azioni e di comportamenti fin troppo aderenti ad una schematizzazione omologata e stereotipata che la società impone, trascurando o sottovalutando invece le meraviglie della vita e del creato, tutto ciò che può emozionarci e che ci possa ricondurre alla nostra vera umanità!
Il libro di Ketti Martino, suddiviso in tre sezioni, è anche un viaggio nei ricordi e nei sentimenti, nelle impressioni suscitate da altri panorami, altre realtà sociali e dai viaggi compiuti in altre città.
Un repertorio dove permane, perdura e si evidenzia, il suo grande afflato per la vita e per la poesia che ne è portavoce perenne!


 

Abbiamo mandato a mente tutti i doveri:

la commozione per la voce che ci chiama

la condanna dell’età crudele

il disordine della mutevolezza.

Abbiamo visto quanto è umiliante

stare in piedi, soli,

senza ripari

e quanto convenga invece ripensarsi

in una tranquilla ombra, con la gente

che ci scorre accanto

(i passi come un gioco):

in una piazza grigia

i piccioni in ritirata

e nessuno a godere di questa amputata vita

in cui manca sempre una voce a ricordarci

che non amiamo inutilmente

anche quando ce ne andiamo

 

 ***

 

Fingiamo di parlare di fioriture,

di galassie e di metafore.

Non ci accorgiamo delle città dorate

che affondano come irrisolti enigmi

non ci accorgiamo che non c’è ferocia più possente

della parola dimezzata che ci attraversa

che ci ricrea fragili, disarmati eroi di fronte alle rovine

col filo di saliva che riluce sulle labbra.

E anche ora, sventrati nei sogni e in ogni fibra,

non chiediamo dell’inciampo, del vortice senza confine,

del crepaccio che non riusciamo a risalire.

 

(senza merce di scambio che non noi stessi

non esiste assoluzione: in terra nuova si vive

senza grazia e conoscenza)

 

*** 

 

 

Stamattina una voce di novembre

innaturale

è arrivata a dire lo sconforto.

Dagli occhi di una finestra vuota

anche le foglie - in manto - mi hanno ricordato

che non ci rivedremo

che non risorgeremo più

tra i libri

sotto la pioggia

sotto un ponte illuminato a neve

a commentare la luce che tra le crepe sbianca.

Nel frastuono della stanza, l’attesa

si raccoglie dietro i denti e nella gola

dove la lingua avvolge il nome

mentre io muoio

ancora una volta

infinite volte

muoio.

 

 ***

 

È arrivata la luce e ha bucato le pesanti tende;

i rumori della strada non ci hanno mai lasciati;

in bilico, dove il mare è dimenticata traccia

e il fiume è fedele alla paura,

accade che si pratichi un esercizio antico,

un’arte del fare veloci le cose

veloci quel tanto ché ognuno si salvi

a un passo dal vuoto.

 

La pace, qui, è onda di oceano,

azzardo in un cimitero di notte

in un parco senza gioia

in un taxi qualunque dove si tace

per discrezione

per disinteresse

per abitudine.

 

Londra

 

Ketti Martino, Repertorio del perdurare, Controluna Edizioni, 2024

Il libro è stato presentato nella Cartolibreria Mancini di Napoli, il 27 gennaio 2025, nell'ambito della Rassegna "Un caffè da Mancini", ideata e condotta da Gennaro Guaccio e Giuseppe Vetromile.

Ketti Martino è nata a Napoli. Laureata in Filosofia e abilitata in Psicologia Sociale, ha insegnato nella scuola pubblica. Ha pubblicato raccolte poetiche tra cui ricordiamo I poeti hanno unghie luride; Del distacco e altre impermanenze; Il ramo più preciso del tempo. Ha curato l’antologia poetica La poesia è una città. Suoi testi sono stati tradotti in inglese e spagnolo e inseriti in riviste internazionali.

 


 


martedì 28 gennaio 2025

Gli "esercizi di poesia" di Doris Bellomusto in "A corpo libero"

Come ci suggerisce Marina Maggi all’inizio della sua puntuale prefazione a questo nuovo libro di Doris Bellomusto, un corpo libero è quello che spunta nella luce come una carne musicale, in attesa della sua ombra tradita. Concordo pienamente con la bravissima prefatrice, perché credo che sia proprio in questa sua dotta riflessione il nocciolo poetico della nuova opera letteraria della nostra Autrice (della quale già parlammo in Transiti Poetici a proposito di “Ti abbtaccio, Teheran”: https://transitipoetici.blogspot.com/2023/12/ti-abbraccio-teheran.html).
Qui la nostra poetessa utilizza la metafora del “corpo libero” per svincolarsi da tutti quei conformismi, impacci, legami materiali, strutture e quant’altro possa in qualche modo reprimere o costringere l’anima, e il cuore, in schemi e moduli che la società normalmente, e purtroppo necessariamente, impone. Non si tratta di denuncia o di rinuncia, bensì di scelta “virtuale” di una dimensione altra, quasi eterea o trascendentale, in cui ritrovarsi nella pienezza dei propri afflati emotivi. Non per nulla il sottotitolo, Esercizi di poesia, è quanto mai indovinato, in questo caso. Infatti, è proprio con la poesia, con la sua frequentazione ed esplicitazione, che in larga misura è possibile indagare e addentrarsi in queste dimensioni altre, dove l’entità, lo spirito o l’anima che dir si voglia, può considerarsi corpo libero che appare alla luce della verità con tutta la sua armonia e la sua schiettezza.
Doris Bellomusto elabora dunque, in questa raccolta, una sorta di scissione dalla fisicità del mondo, ricercandone tra questa la dimensione parallela nella quale è più forte e più grande l’anelito verso la verità del cuore e dei sentimenti: sviscerare il cuore, seguire il vento, annusare nell’aria le stagioni. È questa l’operazione che, costantemente e alla luce della propria poesia, l’autrice, e di conseguenza il lettore, riesce ad innalzarsi al di sopra della mera staticità materiale delle cose e della vita.
E come in un esercizio a corpo libero, la poesia allena la mente e il cuore a ricercare questa intima personale verità.


Propositi

 

Sviscerare il cuore.

Seguire il vento.

Accarezzare il profilo

delle cose.

Annusare nell’aria

le stagioni.

Aprire il cuore come si apre

all’alba una finestra.

Respirare il cielo.

 

 ***

 

Pomeriggi d’Aprile

 

Si dilata il tempo,

scivola

oltre la sua unità di misura

nei pomeriggi d’Aprile.

Raccolgo

con lo sguardo

cose umili e marginali,

le custodisco in seno

come la terra

custodisce i semi.

E mai mi stanco

di continuare a cercare

il quadrifoglio.

 

 ***

 

L’ora delle cose impossibili

 

Se mi cercate,

sono nascosta

fra le lettere del mio nome.

Sono nel vento che asciuga capelli e lenzuola;

nella mia fantasia infeltrita,

sulla punta della lingua,

pronta a sciogliermi

in baci e parola

per chiedere alle nuvole che ora è.

 

È l’ora delle cose impossibili.

 

 ***

 

A latere

 

Vivo al margine del foglio

a latere.

Al mio nome risponde nello specchio

un corpo di lettere e parole.

Do il buongiorno alle ortensie

e non so come annunciare

al giardino la mia partenza.

Vado a capo.

Scendo a sud.

A pie’ di pagina

sarò una breve nota

per un po’.

Al confine del mio tempo

dimenticherò le rose e il gelsomino

la passiflora e le ortensie

la salvia e il rosmarino

il glicine, i gerani

le ore e i minuti

le chiavi appese all’ingresso

la casa e tutto il futuro che contiene.

Vado a vivere nel tempo sommerso dell’amore.

 

 ***

 

Miserere

 

Alle tre del pomeriggio

aleggia tremula

l’inquieta attesa

della foglia

che non sa cadere

e chiede al vento

Miserere.

 

La morte

quasi mai è puntuale

si aggrappa

al tempo lieve dei minuti

e bianco è il lutto delle ore

se l’aria è ferma e nevica silenzio.

 

 *** 

 

Fotografia

 

Se chiudo gli occhi

se mi schiudo al vento

se raccolgo tutto

il tempo nascosto

fra le rughe

se accolgo le premure

di mia madre

se perdono a mio padre

l’eccesso di allegria

avuto in dono

se imparo dal mio gatto

a chiedere l’amore

mordendo le caviglie

se sto così

come qui

stasera sarò salva.


Doris Bellomusto, A corpo libero (Esercizi di poesia), Edizioni Le Pecore Nere, Rosario, Argentina, 2024. Prefazione di Marina Maggi

sabato 25 gennaio 2025

Presentazione del libro "La luce degli osceni" di Cesare Cuscianna

 

L’introspezione conduce ciascuno di noi nei più reconditi angoli della coscienza, per un tentativo di dare un senso al groviglio di sensazioni, di emozioni, di pensieri che urgono e non ci danno pace. La scienza medica, la psicologia e la psicoanalisi certamente aiutano e guidano questo processo di auto-interrogazione, ma a volte anche l’attività creativa, e in particolare la poesia, può essere utile strumento. Il poeta, con la sua sensibilità, può infatti immergersi nella propria intimità, sondare il buio dell’anima e cercare di far emergere alla superficie quei lacerti di disagio interiore che adombrano la quotidianità: una sorta di terapia o un processo di filtraggio e addirittura di confutazione delle negatività che ci portiamo dentro. Confutare la morte, confutare il male, confutare le oscenità.

Ma cosa sono queste oscenità che il nostro autore, poeta e scrittore Cesare Cuscianna, va elencando, diciamo così, in questa sua nuova raccolta dal titolo veramente singolare? La luce degli osceni. In verità sappiamo tutti che le oscenità, volendo dare una definizione superficiale del termine per semplificare le cose, sono quelle che in qualche modo offendono il nostro senso di pudore, quelle cose o quei fatti che deviano dalla normale etica quotidiana, del bene, del bello e del buono che generalmente tutti condividiamo.

Ma Cesare Cuscianna va oltre. La sua poesia scava in profondità, fino a ricercare quelle oscenità che vanno ben al di là dei meri comportamenti scandalosi o delle mere apparenze superficiali delle persone che possano turbare il nostro senso di perbenismo, di normalità e di formalità. La poesia di Cesare Cuscianna individua l’oscenità della morte, l’oscenità dell’ineluttabilità della morte, l’oscenità della rassegnazione e della consapevolezza che il viaggio della vita è breve, che la morte è un tuono e che la luce del sole è arrogante perché pretende di durare oltre la notte, cioè di sovrastare l’oscurità metaforica della morte. Cosa impossibile, naturalmente. Ma la poesia è indovinato viatico per procedere in queste oscenità, è luce sugli osceni, dove osceni diventiamo noi stessi, l’umanità, sottoposta alle leggi della natura che pretendono la nostra fine al termine del giro della vita.

La poesia è coraggio e determinazione. È opera d’arte che non teme di sembrare spietata, inflessibile, perché dice la verità. La verità che l’uomo nella sua quotidianità cerca di sottovalutare, di ignorare, preso da altri mille impegni. Ma un senso da dare all’esistenza è latente in ciascuno di noi, e la poesia è utile strumento di scavo per questo, è luce sugli osceni, per meglio capire e chiarire. E la poesia di Cesare Cuscianna è adeguata a questo scopo, è necessariamente incisiva, stentorea, non dà tregua, utilizza termini forti e sconvolgenti. È una poesia che aiuta a meditare sulle vere questioni esistenziali e a comprenderne, in qualche modo, le negatività, o meglio le oscenità, che ci adombrano e ci avviliscono.

 

Ogni morte è tuono

 

poi, il primo sole

rullo suadente

d’acciaio nel cielo

 

e arriva la sua folle luce

la pretesa di durare oltre la notte.

 

 ***

 

Si muore come si piange

da bambini il capo chino

il braccio levato a nascondersi

 

quanto vi ho amato

non lo saprà nessuno

al riparo dai vostri occhi

 

fin nell’acqua fonda

il verde ci illumini

tu, luce degli osceni

 

parli come parlano i morti

col rumore dei sassi

spianati dalle parole.

 

*** 

 

Anch’io ho ucciso

senza colpa, senza sangue

il cadavere interrato in me

nel fianco della coscienza

dente di drago crudamente duole

la pagherò così

 

legacci ai polsi, ferri alle caviglie

nelle vene maldestre moltitudini

la trasparente rassegnazione

del pesce issato a bordo

l’occhio a fissare il pescatore

finalmente scorgendo Iddio.

 

 ***

 

Poesia all’inizio

è sempre uno spurgo di caos

una macchia di vomito giallastro

nel linguaggio denso degli schiavi

 

poi costruisco una geometria d’acciaio

la massa fremente del convoglio

arrestato in piena corsa sui binari

 

e prima che precipiti nel vuoto

stringo forte i denti,

così che il mondo scricchioli.

 

 ***

 

Sono un abito a rovescio

vesto deliqui, mancamenti della ragione

la fuga dei pensieri da ogni appiglio

 

molte voci abitano la mia bocce

ma quanto amo quelle linfe rattrappite

pronte a svanire come fantasmi

 

nel linguaggio dello sguardo

inutilmente chiedo

una bruma evidente aspiro

 

così vivo di me stesso

pianta di frutti rivolti all’interno

per meglio tenersi viva, o marcire.


Cesare Cuscianna, La luce degli osceni, Edizioni Montag, 2024

(Dalla presentazione del 24 gennaio 2025, nell'ambito della rassegna "Sulla rotta del mito", Biblioteca Comunale di Bacoli).





Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà