martedì 24 giugno 2025

Monica Messa e la sua "pistola al Luna Park"

È una poesia immediata, quella di Monica Messa in Una pistola al Luna Park, recente sua raccolta edita da RPlibri e con puntuale introduzione critica di Antonio Bux. Una poesia immediata e rapida, capace di fluire da un’immagine all’altra, da un quadro all’altro, mantenendo integro il ritmo e l’armonia nonostante il dettato diretto e scarno. Forse la società moderna, convulsa nel suo procedere lungo la monotonia dei giorni tutti uguali, forse il pressapochismo e la superficialità del modus vivendi attuale, in cui è primaria la necessità del sopravvivere, e forse anche la diminuzione di valori forti e la mancanza o l’affievolimento delle speranze e dei sogni; forse tutto questo condiziona in qualche modo il sentire e il fare poesia oggi, e la stessa poesia veste i panni dell’urgenza, della necessità di dire tutto in fretta, subito, in un concentrato di emozioni e di immagini che il lettore attento dovrà poi decifrare e tradurre, per assaporarne e goderne appieno la luce di verità e di onestà descrittiva che ne emerge. Ma si sa, la poesia è stata sempre cartina al tornasole degli scenari storici, culturali ed emotivi delle varie situazioni sociali in cui vive, riassumendo e interpretando in modo artistico i lacerti, gli spaccati, gli sbalzi e gli echi umorali che in essa e da essa si manifestano. La vita, specialmente quella della società attuale, è verosimilmente un grande Lunapark, se vogliamo inteso amaramente, perché è un divertimento allegorico o addirittura alternativo, per coprire o almeno alleggerire le punte drammatiche e impegnative di un’esistenza precaria sotto tanti punti di vista, difficile da condurre e che offre poco spazio alla gioia e alla serenità.
Detto questo, anche la poesia di Monica Messa, in questa raccolta, segue intuitivamente il filone di spaesamento della società attuale, con descrizioni appropriate e ricche di metafore di una realtà contingente adusa ai salti repentini di umore a seconda del momento più o meno favorevole, più o meno corrispondente al proprio sentire. Una realtà, quella descritta da Monica Messa, che appare in contemporanea pur essendo composta da tasselli diversi e dislocati qui e là, verosimilmente scollegati ma comunque tenuti insieme da una poesia che, proprio in questo caso, è il collante necessario, è il punto di vista orizzontale e verticale in grado di dare un senso al tutto, fino all’orizzonte. La poesia di Monica Messa, oltre a ricostruire il puzzle di una società distaccata, ne è anche sottile denuncia, laddove con il suo canto stentoreo richiama alla nostra attenzione l’autenticità dell’esistenza, e di quei valori fortemente ad essa legati e che sovente trascuriamo. Umanità, senso della storia, la meraviglia per il nostro creato, dal più vicino paese (dove tanti vengono a suicidarsi – e qui è maestra l’autrice nell’esprimersi con un’amara ironia), al più lontano dei confini (“Troppo grande questo mondo / per le tue mani, bambina, / bastano appena appena per spingere / barchette di giornale”...). E dunque, a concludere come afferma Antonio Bux nella sua dotta introduzione, è un Lunapark il mondo descritto da Monica Messa, in cui è difficile non premere il grilletto, davanti al baraccone del tiro a segno: la poesia della nostra autrice può essere l’alternativa giusta, il modo artistico per generare e offrire consapevolezza di una realtà più profonda.
Seguiamola in questi brani tratti dalla sua raccolta.

Il gatto marmorizzato

dietro l’angolo sonnecchia.

Un cielo plumbago azzurro

ha inondato il lato sud.

“Occhipinti aglio e menta

al tavolo ventidue!”.

Muta la zultanite

sull’anello di Samir.

Tiri fuori

un piccolo seme dalla tasca.

Bustrofedico procedi. Sogni

idromele e mescalina.

 

 ***

 

Ai bordi della città diorama,

Samir beve vino

e ingoia bignè.

Sulla barba ha dodici stelle

di miglio perlato.

 

Il fumido chiasso della stazione

ti chiama.

Il cieco canta.

Le mosche banchettano

su ciarpame e mani.

 

Un pugno diretto

un coltello mancino,

cade la sigaretta.

Samir sorride, non capisce,

ha sangue fra le dita.

 

Solo ricordi

come fiorisce in fretta

una ferita.

 

*** 

 

Sedici anni il prossimo dicembre.

Distesa al buio nel granaio,

fuochi d’artificio

sulle palpebre schiacciate,

le scarpe di vernice nuove,

i talloni scorticati,

ridevi alle sue battute sconce.

– È vietato baciare la Regina!

sussurravi.

 

La Luna del Cervo era alta,

alta la tua scollatura,

il mascara calato.

 

Rosa di Spagna ti chiamava

tua madre, ma avevi un’anima

di pan bagnato, Geremina

e l’oro dei campi più non ti si addice.

 

Come magma la dose nelle vene.

Ti arrendesti sognando un lieto fine.

 

(Ho tagliato la testa

ai miei gelsomini

questa mattina,

è da un po’ di tempo

che non mi parlano più).

 

*** 

 

Trasformati, trasformati

in poesia

rabbia bastarda,

con la stessa potenza

prima che mi consumi,

prima che mi consumi.

 

Trasformati

ragazzina scalza

prendi ossigeno e brucia,

brucia.

 

 ***

 

Troppo grande questo mondo

per le tue mani, bambina,

bastano appena appena per spingere

barchette di giornale.

 

Un passo, dall’asfalto alla sabbia.

Sorridi in debito di luce,

capelli nuovi di chemio

e il libero arbitrio in una falange.

 

 ***

 

La carpa è nel castello.

Ripeto, la carpa è nel castello.

La turbata libertà degli incanti.

Il movimento.

Il motore poetico, la motrice.

La materia.

Oscura, vischiosa, radioattiva.

Trama dell’universo.

Il dolore pulsante e cieco.

Il gioco e la candela.

Il Greco. Alfa, beta, gamma.

La cassetta degli attrezzi.

Tutti gli attrezzi.

Un davanzale.

Quegli scalini a scendere.

Un inciampo, una battigia.

Una feritoia nel buio

muschio umido fluorescente.

E il mare che batte, batte.

Urla.

 

 ***

 

Una lapide stretta

sul ciglio della strada,

la foto di un ragazzo pelle e ossa,

tulipani di seta blu.

 

Dicono che

nei primi trenta secondi

dopo la morte

il cervello sogni.

 

Margherite e urina l’ultimo odore

e nel sogno il ricordo

di un amore piccolo piccolo.

 

*** 

 

Nel mio paese c’è un binario

e un passaggio a livello fra i ciliegi.

Vengono dalla città

e dai paesi limitrofi

a suicidarsi.

 

Perché un paese ci vuole,

un paese per morire da soli.


Brani tratti da:

Monica Messa, Una pistola al Luna Park, RPlibri, 2024. Introduzione di Antonio Bux.

Monica Messa è nata nel 1974 a Monopoli. Ha esordito nel 2018 con Poesiole, una raccolta di poesie su vari temi, scritte nell’arco di trent’anni. Ha poi pubblicato Seppie Ripiene – Poesie per poche lire (2018) e Il Logorio della vita moderna (2021). A settembre 2022 ha pubblicato la plaquette /imagine: l’universo è nato dall’immaginazione, dove accanto ad alcune poesie edite propone delle immagini generate mediante l’applicazione della IA Midjourney. Ha partecipato a diversi Festival. Alcune poesie sono state pubblicate in blog, riviste cartacee e online, in antologie nazionali e internazionali e nella rubrica “La Bottega della Poesia” di Repubblica – Bari. È stata nelle redazioni delle riviste di poesia “La Vallisa” e “La Confraternita Letteraria”. Alcune poesie sono state tradotte in albanese e in spagnolo. Cura, inoltre, un blog e una pagina Facebook.



lunedì 23 giugno 2025

Una recensione di Raffaele Urraro per "Scrigno" di Rosaria Di Donato

 

Poesia del sentimento, poesia della realtà tragica dell’universo in cui siamo destinati ad abitare e vivere, poesia della natura e delle sue mille epifanie. Poesia varia e molteplice, dunque, quella della Di Donato, come è varia e molteplice la natura dell’uomo: c’est la vie, sì, è la vita che spinge il poeta a leggere nelle cose, in tutte le cose, e a costruire il proprio scrigno di pensieri ed emozioni, di sofferenze ed illusioni, ma anche uno scrigno di parole, che non sono le parole comuni, consumate dall’uso e sostanzialmente inservibili, ma le parole della poesia, le parole che servono per dire il senso della vita e delle cose, la ricchezza del nostro animo e la fragilità del nostro essere.  

   Proprio di qui vogliamo partire per questo breve viaggio in compagnia della poesia di Rosaria Di Donato, poetessa nella mente e nell’animo: non riposa l’estro / del poeta e dall’antro / gelido della parola / evoca il nuovo / l’inconsutile suono / che il tempo rischiara (pag. 39): parole che danno chiaro e pieno il senso del lavoro poetico, che è un lavoro a tempo pieno, perché il poeta è sempre proteso a far parlare le parole anche al di là del loro significato apparente, quello cosiddetto convenzionale, quindi anche al di là del suono dei loro significanti, sicché le tira fuori dal loro antro gelido, dove le parole sono destinate a marcire e morire nella loro “insignificanza” se non vengono salvate e rifatte, quasi riverniciate e portate a nuova vita, e le dispone in fila per farle parlare e dire tutta la loro verità, che è poi la verità del poeta. E quest’ordine è la misura del dettato poetico. A questo punto, se les mots font l’amour, come dice André Breton, il prodotto artistico sarà di alto valore poetico, perché esse debbono essere accostate tra loro in un sistema di empatica corrispondenza, o di chimica associazione. Ma se non “fanno l’amore”, se vengono inserite in una struttura caotica perché male ordinate, esse non sanno parlare, e se parlano, non hanno che dire.

   Rosaria è poetessa consapevole del lavoro che richiede il fare poetico: vagando in questo mare di parole / sovente indugio sui significati / paga non mai del senso letterale / smonto compongo lemmi iopoeta (pag. 40): lavoro che richiede acutezza d’ingegno per portare le parole dal loro uso normale ad una sorta di verginità semantica, perché solo così invento uno spazio parallelo / ove s’incontrano futuro novità / non mai termini logori scontati (pag. 40). Il titolo dato al testo da cui sono tratti questi versi, scintilla celeste, ci riporta al Leopardi, che proprio con quella espressione ha definito la natura del fare poetico, volendo metterne in rilievo la genesi particolare come una luce che abbaglia e accende nel poeta il suo spirito creativo, conducendolo alla costruzione di un mondo alternativo a quello reale. Perché?

   Perché è pur vero che Rosaria sente l’urgenza costrittiva della memoria che la porta a rivivere gli anni dell’innocenza, quelli della fanciullezza e dell’adolescenza, nell’Abruzzo, sua terra di origine, anni caratterizzati  da una sorta di vita campagnola a diretto contatto con la natura, con il fiorito ramo di melo (pag. 19); con l’armonia che torna con il fiorire della camelia (pag. 23); con l’anafrodisiaco fiore di loto (pag. 24); con le storie raccontate dal secolare ulivo (pag. 26); con il ricordo commosso della figura paterna; con la riscoperta del vero significato dell’essere nata e vissuta in quella terra, in un angolo di cielo / dove il vento rincorre nuvole / e spazza via la tristezza (pag. 33), dove il silenzio tra cielo e mare è luogo dell’ascolto senza fine (pag. 34): un mondo descritto con una evidente corrispondenza tra le parole e la tipologia della realtà, corrispondenza che si coglie nel linguaggio che corre direttamente verso la cosa che deve significare. Ciò la porta a dire che non lascerò / morire un sogno (pag. 36) perché continuerà a coltivarne la memoria, perché la memoria riscalda l’anima e aiuta nel cammino della vita e spesso contribuisce financo a superare la solitudine che affligge o annienta. 

   Ma tutto questo si svolge in un universo dominato da stelle, pianeti e, soprattutto, dall’orizzonte degli eventi (pag. 41), cioè in un universo bello e terribile nel quale è confinata la nostra vita, in una distesa di buio e di luce / in cui perdersi ritrovarsi / senza schemi (pag. 41), al confine tra la nostra esperienza terrena e l’oltranza sconosciuta, quando, come afferma Leopardi, questo arcano  mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi (Cantico del gallo silvestre). Rosaria, però, non si ferma davanti a un orizzonte così drammatico e, ricorrendo all’incipit giovanneo (In principio era il Verbo), giunge fino a quella “genesi” del mondo derivato anch’esso dalla “parola” (Dio disse e luce fu), quel mondo che è stato fatto per noi, proprio come fa il poeta che con le parole crea il suo universo. E qui è la luce, che forse mancava al Leopardi, come manca anche a chi scrive queste note, perché Rosaria presenta il mondo nel quale viviamo come la derivazione e l’effetto del mondo della “genesi”: è in noi quel giardino / siamo uomini e donne / dell’eden non dell’inferno // ci sono strade per andare lontano (pag. 50), forse prefigurando in questi versi, positivamente, la sua strada, la strada della poesia, lungo la quale è facile incontrare lo stesso poeta di Recanati, anche se costui si pone in una posizione ideologica espressamente contraria alla sua.

   Ma la nostra poetessa va oltre la configurazione della vita dell’universo e della vita dell’uomo, oltre i problemi del fare poetico e quelli dei massimi sistemi, perché il suo sguardo si posa, malinconico e rattristato,  dapprima sul fenomeno del covid: segna un solco / il dolore al pensiero / di tanti che ci hanno lasciati / dei molti che ancora muoiono / nei paesi dove non c’è argine / alla miseria di vivere (pag. 51), fenomeno di cui riesce a cogliere la dolorosa connotazione e le tristi conseguenze, e poi il suo sguardo, inorridito e spaventato, si posa sulla violenza subita dalle donne e sul sangue da esse versato come una sorta di terribile sacrificio al dio della brutalità, dell’insipienza, della mostruosità insostenibile. E allora compaiono i fantasmi di donne trucidate per inconcepibili principi di sopraffazione: l’uomo si erge a padrone della vita e della morte. E ciò o per bieca volontà di prepotenza, come nel caso di Samia, uccisa per non aver voluto accettare un matrimonio imposto dal genitore con spregio violento del sentimento vero dell’amore della ragazza innamorata di un altro (sono io samia / nube dissolta nel vento / onda mai giunta alla riva; pag. 45), che Rosaria descrive con una incredibile leggerezza e levità espressiva, cogliendola nell’attimo in cui si verifica l’inganno e il disprezzo di ogni sogno e di ogni speranza, sicché l’onda non arriverà mai alla riva della celebrazione della vita vera e libera e dei sogni normali in una ragazza della sua età. O per la bieca violenza del potere politico, nella persona del Trujillo, che non consente alle sorelle Mirabal di vivere la propria vita in libertà: volevano essere farfalle / le sorelle mirabal / ma incontrarono la morte / sulla via per porto plata // e fu proprio quel giorno / che iniziarono a volare perché le ali delle mariposas / ridestarono coscienze (pag. 46): così la nostra poetessa celebra il sacrificio delle ragazze che credevano nel sogno della libertà e della vita vera. E la poesia di Rosaria si fa carico di queste tragedie della vita e le propone alla coscienza degli uomini come tragedie del potere che non si sa contenere nei limiti ad esso prescritti. 

   Ma che mondo è mai questo che soffoca sogni e libertà? Non resta che chiedere al vento / dov’ è la soglia / che conduce altrove / e disegnare / con lo sguardo al cielo / la rotta per i sogni / irrealizzati (pag. 57), e nel frattempo “fuggo dalla città e me ne vado errante / in cerca d’un tratturo antico / ove condurre il gregge dei miei sogni // stanca di rumori cittadini (pag. 62): tratturo che porta ai santi Michele e Giuseppe dai quali Rosaria si aspetta i veri insegnamenti sulla vita, mettendo a nudo la sua anima e la sua fragilità, che solo attraverso la poesia si denudano e si rendono manifeste. Lo dice chiaramente uno dei testi della sezione Chiaroscuri, testi composti in lingua spagnola seguiti dalla traduzione in italiano: scrivo perché non respiro / perché non trovo spazio / intorno a me / per i miei sogni / invece nella pagina / si aprono visioni / e la mia anima / vive (pag. 79), versi dai quali appare chiara la considerazione della poesia come spazio libero e autonomo, spazio di libertà nel quale si può parlare senza remora alcuna anche dei propri sogni d’amore, e dove si realizza quanto viene impedito dalla realtà, e anche dalla storia..

   L’altra sezione, Miniature, fatta di testi brevi, veri e propri haiku, nei quali non mutano le tematiche; muta soltanto la struttura dei testi rispetto a quelli delle precedenti sezioni. E infatti bastano pochi versi (5 + 7 + 5) per dire, in una sintesi efficacissima, un’idea, un concetto, il senso di una riflessione, il tutto condito da una voce che sussurra lievemente le parole, una sorta di flash che colpisce l’occhio del lettore e lo spinge alla meditazione, che è poi lo scopo fondamentale di ogni poesia. Due esempi: il tempo che si dissolve nella sua inutilità (fiori nel vento / si dissolvono giorni / senza un perché), e la dissolvenza dei sogni che perdono il loro senso trasformandosi in schiuma che si disperde e in conchiglie gettate sulla spiaggia ed abbandonate (onde del mare / si rincorrono i sogni / schiuma conchiglie).

   A conclusione della raccolta, ecco apparire, come dal mare un gioiello che non ti aspettavi, la sezione Tracce, poesie scritte in vernacolo, che presentano una particolare vivacità espressiva, una chiara freschezza linguistica, sia quando Rosaria parla di poesia (le notti che nun dormo / apro ‘no stuccio / de lucciche e parole // è la poesia / che sortita da lo stuccio / fa l’amore co l’inzogni // cunnola l’anime sconfuse), poesia che rappresenta il mondo alternativo dei sogni, sia quando parla dello scambio di ruoli tra la luna e il sole (se pò fa disse la luna / ar sole che sbrillucicava / io sorto de giorno / e tu spunti de notte // po’ èsse che scambianno / li fattori er risultato / sia tanto sorprennente / da mutà er còre de la gente), versi nei quali s’intravede la speranza di un mondo migliore. 

   Ho detto agli inizi che quella di Rosaria Di Donato è una poesia del sentimento, e lo è perché è viva la sua sensibilità verso i problemi della vita e dell’uomo, ma è anche una poesia nella quale rivivono persone ed eventi connotati dal senso del tragico intensamente vissuto e descritto, e inoltre è anche la poesia della natura, come si è visto in quella sorta di colloquio con le piante che ne sono una particolarissima espressione. Ma più di ogni altra cosa la poesia della Di Donato è una poesia aperta, che rifugge da ogni astruseria linguistica, da ogni gratuito gioco di parole, e si propone al lettore come un libro da sfogliare, scavare in profondità per poterne portare in superficie tutti i significati, anche quelli che a prima vista potrebbero apparire come nascosti nel gioco inventivo delle parole.

Raffaele Urraro

mercoledì 11 giugno 2025

"Pronome Personale / II Persona Singolare", di Lucilla Trapazzo: una nota di lettura di Viviane Ciampi

Pubblichiamo qui volentieri una nota critica di Viviane Ciampi per il recente libro di poesie Pronome Personale / II Persona Singolare, di Lucilla Trapazzo, Bertoni Editore, con prefazione di Giuseppe Napolitano.

Ci troviamo nel mezzo di un viaggio ellittico e radente, lieve e radicale, nel cuore instabile del linguaggio.
Lucilla Trapazzo (poeta ma non solo: traduttrice e performer) intreccia filosofia e tenerezza, luce e ombra, in una poesia che non afferma, ma interroga. I suoi versi nascono da un’urgenza interiore e si muovono con precisione intima, cercando la fenditura da cui far passare la voce. È una scrittura che si dispone al rischio: quello di dire l’amore senza aggettivi, di abitare il pronome, di restare sul margine tra presenza e dissolvenza.

            Siamo vetro e vento
            in corsa dalla notte
            al mare


Il “tu” evocato in questa raccolta non è solo destinatario affettivo, ma anche specchio e doppio, figura del riconoscimento e della perdita. La parola poetica si fa materia viva ‒ a tratti pietra, a tratti sabbia ‒ e prende forma nel tempo instabile dell’attimo, tra passato che scivola e futuro che non promette. Ogni poesia è una soglia, ogni immagine una minuscola epifania che trattiene, per un istante, ciò che sfugge.

            Saperti ancora incendio sulla lingua
            senza domani


Il lessico è limpido, ma mai semplice, con immagini che si accendono vivide, di grande sensualità:

            Mi porgi una fragola. La sento
            ingorda sulla lingua.


Ogni scelta è calibrata, ogni silenzio, eloquente. In sottofondo, si avverte il respiro di un pensiero che ha imparato a non forzare il senso, ma a suggerirlo, lasciando spazio alla vibrazione, all’eco, alla risonanza. In questo libro, l’identità non è un punto fermo, ma un moto ‒ fragile, luminoso ‒ verso l’altro, verso il nome che non si possiede. Del resto già la copertina ‒ firmata dalla stessa Lucilla Trapazzo ‒ suggerisce fin dal primo sguardo la poetica dell’intera raccolta: non c’è un solo volto, ma due figure prossime e insieme sfuggenti, immerse in un bianco che non è vuoto ma spazio mentale, zona di passaggio. Il titolo si intreccia visivamente con il disegno: II Persona Singolare diventa allora non solo un riferimento grammaticale, ma una tensione relazionale, un dialogo aperto tra presenze che non si lasciano afferrare del tutto.
È in questa sospensione ‒ tra la seconda persona e l’ignoto ‒ che il libro trova la sua forza più autentica.
Una raccolta che lascia il lettore esposto e pensante. Come solo la vera poesia sa fare.

                                                                                                Viviane Ciampi

 

 

mercoledì 4 giugno 2025

Michele Zacchia e il suo "taccuino dell'ospite"

Nei creativi, e quindi negli artisti e soprattutto nei poeti, troviamo sempre una sorta di disagio esistenziale, stratificazioni più o meno persistenti di insoddisfazione, e una ricerca asintotica di punti di equilibrio che possano in qualche modo risolvere in positivo questi disagi. Si sa, i poeti non si fermano mai, e ne consegue un lavoro tenace di ricerca in sé e nella realtà circostante, dei perché e dei percome. Non si sottrae a questa indagine pertinace il giovane e già maturo poeta campano, ma residente a Roma, Michele Zacchia, che con questa sua seconda raccolta, intitolata Il taccuino dell’ospite, edita da RPlibri con una puntuale prefazione di Antonio Bux, manifesta veramente in modo ottimale, e con una impronta poetica del tutto personale, questo vago malessere del vivere quotidiano.
Viaggio spesso, non torno sempre”: è l’esergo che apre la raccolta, ed è forse qui incentrato il progetto poetico del nostro giovane autore. E ancora specifica: “frase scritta su un muro di Roma”. Come anche nei testi successivi, Michele Zacchia non usa un titolo ma in calce a ciascun brano inserisce un luogo, una data, una modalità che completa e chiude il brano stesso. Un modo originale che forse solo pochi altri poeti sono abituati a utilizzare.
Ma tornando al contenuto di questa interessante raccolta, è opportuno soffermarsi un attimo sul titolo, Il taccuino dell’ospite. Qui, è evidente l’intenzione dell’autore di raccogliere tutta una serie di osservazioni, “annotandole su un taccuino”, durante il suo, o i suoi, viaggi o spostamenti da una città all’altra, da un luogo all’altro. Non si tratta, evidentemente, di viaggi inventati o immaginari, ma effettivi, reali: il percorso naturalmente è casuale, ma ciò che è essenziale è l’acutezza delle riflessioni, dei pensieri e delle emozioni che l’autore sa molto bene cogliere da queste esperienze e dai luoghi che ha attraversato.
L’itinerario che sottotraccia risulta dall’attenta lettura della raccolta non è però, beninteso, un mero reportage di viaggio: è anzi, al contrario, la sorgente necessaria e vitale che offre all’autore l’opportunità di esprimere la sua vis poetica, delineando versi e brani da angolature, prospettive e modi di indagare, percepire, osservare, fortemente personali ma che spiccano e risaltano dallo strato superficiale continuo e monotono di una realtà che appare lontana, disgiunta dall’anima dell’autore. Tale operazione rende i testi della raccolta percepibili e condivisibili da tutti, perché l’autore pur partendo da segnali emotivi che gli suggeriscono i luoghi e i momenti del suo itinerario, ne sublima e ne codifica il contenuto, arricchendoli con allusioni, ricordi, trascendenze. Michele Zacchia dimostra infatti di possedere un’ottima padronanza della parola e del dettato poetico, riuscendo a creare con i suoi versi un caleidoscopio di immagini e di sensazioni, laddove la parola, o anche l’intero sintagma, ha uno spessore semantico davvero eccezionale.

Proponiamo ai nostri lettori, qui di seguito, alcuni brani tratti dalla sua raccolta.


La cristalliera ottuagenaria che ti abita

in sala ne sa più di noi in fatto di.

Ne riconosci le ante legnose e intarsiate,

tutte mature. Decrepite se le guardi meglio.

Il vetro cascante col disegno del

fiore papavero, finto e consunto.

D’altri tempi questa cristalliera, obsoleta immobile.

«È Art Nouveau!» diceva tua nonna,

tu non l’ascoltavi, dicevi «brutta come lei»,

rancida nell’osso. In questo incastro fuori moda

la pretesa di superare il passato.

L’oggetto di un lessico famigliare che t’accorgi

di allontanare, sei finita al mercatino,

l’hai data via in cambio d’aria.

 

          casa di sconosciuti, Città del Vaticano

 

 

***

 

In questo albergo-cimitero

che inscatola le vergini del nuovo settembre,

richiamo alla spada i miei vecchi amici. Mi

piacerebbe commuoverti coi versi, in

falde acquose minacciose, profonde

le dita nella gastrite melmosa delle tue pareti.

 

Poter curare le ferite del giovane solstizio

misurandoti le ginestre al braccio, discernere

se non tutti, almeno i buoni annunci, da

gli alberi del corso che respirano l’aria piombo.

Nella forma dell’urbano caos stringere a me stella,

coi palmi tesi attendere la tua discesa.

 

          stazione ferroviaria di Ostiense, Roma

 

 

***

 

Esiste nella gente una tutta superficie

di versi e galanterie periferiche, snodati

come note di luce al firmamento, liberi

dalle schiavitù grasse del rumore. Svegliare

i piccoli col nome, e dormirli grandi, senza

età di numero. Matematica consuetudine

di crescere diversi. Com’è sembrare sangue,

cadere in goccia scendere, rotolarsi nelle garze

per asciugare. In queste immense giornate ci

risponde il cielo che posa a terra il suo splendore.

 

Morirsi: è lasciare incedere il passo al sangue,

penetrarsi commiserazione, stringere le

palpebre al buio. A tenere la natura ferma

nel suo intento non c’è modo e spazio-tempo.

 

          Santa Maria Capua Vetere, dove sono nato

 

 

***

 

Oggi ti rileggo Roma, e vivo nelle strade il tuo

corpo di ferro. Nella tradizione si fa ombra

l’età eterna, quando andando verso sud,

si fa nuda la stirpe che è Storia.

Nel ventre delle tue origini è ancora fresca l’orma

del bianco, l’orto, il Giardino appena sotto. Nella

Cappella più segreta la meraviglia dell’arte è il tuo

donare. Lungo il corso d’acqua teverino la gazza

che incontro mi è amica, l’occhio nero

è il richiamo del pesce:

 

ho come una sensazione profonda di

appartenerti nel centro.

 

          bus 781 direzione Piazza Venezia

 

 

***


Nel giorno più isolato dell’estate, è l’ombra del

vulcano spento a sentire la mancanza delle rive. La mitologia

matura nelle brame dei tuoi desideri. Il celeste cielo celeste

è sfigurato nelle braccia.

 

L’immaginario della consolazione, sotto la sfera del disfare,

non si definisce il mare, sconfinato nelle bestie delle onde,

e il travalico del selvaggio rende obliquo tutto il dentro

del mio petto.

 

          camera tua

 

***

 

Sia il verbo di fronte il cono d’ombra del silenzio,

trillante nelle vesti del discorso, nei vecchi

proverbi, nella provincia dei tuoi fianchi, e la rosa,

tempestiva fioritura del mese. Senti il nome dell’ospite?

 

Richiama l’attenzione dell’organo, e il pulsare, l’infezione,

tutti oggetti incauti nello scavo. E ancora l’ospite si annida

si ritrova: germe del contatto. Recipiente in vetro soffiato,

profondo nel trasparire:

si ospita l’ospite, da sé, nello scrigno della premura.

 

Nella gabbia toracica un riflesso, è luce incastrata a tasselli:

elenca precisa le ronde notturne senza più strada.

 

          un posto in cui non sono mai stato

          non so se farò ritorno


Brani tratti da:

Michele Zacchia, Il taccuino dell'ospite, RPlibri, 2024; introduzione di Antonio Bux


Michele Zacchia (Santa Maria Capua Vetere 1999) vive a Roma. Ha conseguito la laurea in Lingue e Culture Moderne all’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, e recentemente all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” nel Master di Editoria, Giornalismo e Management Culturale. Ha frequentato l’Universitat Autònoma di Barcellona e il Chichester College. Copywriter, redattore, traduttore. Collabora e ha collaborato con numerose testate giornalistiche, tra cui The Wise Magazine e il quotidiano La Libertà di Piacenza. Il suo principale impiego in ambito culturale è legato alla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci – Premio Strega, con la quale collabora per l’organizzazione di eventi culturali. Ha pubblicato La Teoria del cerchio (Controluna, 2022), e sue poesie sono state selezionate e pubblicate su varie riviste online, tra cui L’Altrove – Appunti di poesia. Già curatore di un manuale di test universitari, ha tradotto un testo in lingua spagnola di Juan De Ávila, Memorial Segundo.

 


Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà