Nato a Montetiffi, Bruno Bartoletti è una voce importante
nella poesia italiana contemporanea, e meriterebbe di essere ulteriormente
diffusa e letta. Poeta colto, i suoi versi si strutturano in un susseguirsi
dolce e pacato, quasi come in un dialogo con se stesso. Hanno interessantissimi
echi montaliani, a mio parere, e la celebrazione del ricordo, della memoria, si
unisce a quella dell'amore e dell'amicizia. Vi è anche, nelle poesie di Bruno
Bartoletti, un rispetto sacrale nei confronti della vita e della morte, che il
poeta di Sogliano al Rubicone tratta e affronta con grande spiritualità e
competenza lirica.
Proponiamo qui di seguito alcuni testi poetici di Bruno
Bartoletti, che in qualche modo confermano quanto da me ipotizzato circa il suo
mondo poetico, ma gli amici lettori, che sempre ringraziamo per la loro
affettuosa partecipazione, sapranno senz'altro aggiungere altre interessanti
riflessioni.
A mia madre
Prenderemo anche noi il volo
quando la polvere ci asciugherà i
capelli
e sulle labbra salirà odore di
terra,
ma dietro queste ombrose mani
saremo per sempre, tu ed io,
risorti.
Non ci saranno distinzioni allora
perché ogni granello è identico,
non si separa dall’insieme,
tante gocce formano il mare
e nessuna sopravvive
senza appoggiarsi all’altra.
Sarà questo l’infinito canto, il
mistero
che ci separa dal nulla, sarà
come d’incanto il tutto,
l’insieme
che ci raccoglie.
E quando tutto sarà finito, sarà
un’unica grande vela,
l’acqua la pioggia e il mare,
un’unica grande forza il nostro
pianto.
***
La mia scuola
La scuola che mi vide bambino
non aveva nome.
Una scuola sospesa tra terra e l’azzurro
di un cielo infinito,
un’unica stanza coi banchi anneriti
e un retro più piccolo che non si sapeva a cosa servisse
le scritte intagliate, un’unica penna e un pennino
macchiato,
cartelli sui muri, l’amico seduto al suo posto,
tre classi soltanto,
(le crepe lasciavano un senso di attesa)
la piccola scuola di Pietra dell’Uso.
Non era la Frank, la Pascoli o l’Alighieri,
la nostra nemmeno portava il suo nome,
ma solo quel numero uno trascritto sul muro,
accanto alla chiesa, la nostra piccola scuola.
Tremavo dal freddo, le mani arrossate, chiudevo l’astuccio,
pensavo a mia madre.
Ed ora mia madre con altri cammina, il filo è spinato, non
hanno giardini,
ma solo una strada che sale al mattino.
E vennero i giorni del freddo, ben presto si incontra il
dolore,
assenze e partenze, le strade si incrociano a monte
c’è sempre una lapide al segno del passo,
una lapide bianca e solo quel nome.
***
In un colpo di tosse se n’è andato, questa notte,
pensava la moglie fosse un grido,
un grido o un sospiro di dolore, forse un gesto
quello che per anni attese inutilmente,
una carezza spenta tra le risa.
Se n’è andato così,
senza nemmeno un segno del dolore,
una morte improvvisa,
di sfuggita, in un colpo di tosse.
Ma morire così lui che aveva
fatto la guerra e poi anni di miniera,
chi l’avrebbe mai detto morire nel suo letto,
in silenzio, quasi di nascosto.
***
Se fosse già domani la partenza,
lascia andare,
non voglio rattristarti.
Ogni cosa, la stanza, i miei quaderni,
i libri ancora sparsi sopra il tavolo,
il disordine che era a me compagno,
tutto sarà presenza,
e sentirai in un soffio ancora un’ombra
l’attesa che sarà per nuovi giorni.
Allora prenderai le mie parole,
aprendo questo libro
e un poco triste sarò nei tuoi ricordi,
sarò come la rondine tardiva
in volo sopra il mare.
Lascia stare,
la foto,le immagini, i ricordi,
lascia passare il tempo, arriverà
il silenzio.
Ma se fossi tu, se fossi proprio tu
a lasciarmi – non mi piace pensarlo –
io non potrei, non altro.
Ripiegherai il capo triste aspettandomi.
Anche nell’aldilà ti cercherei,
ci metteremo d’accordo per chiamarci,
un gesto con la mano, di lontano, oppure
appena un cenno con lo sguardo
e basterà quel cenno per capirci.
16-17 aprile 2012
***
Me l’aveva detto Madame Jeuland
una sera d’ottobre nel vento di Marsiglia
“si metta lì e scriva e non faccia come Leonardo
che si perse a studiare muscoli e nervi
e non vide mai la luce il suo cavallo”
disse ma ancora non sapeva che in verità
non era Leonardo ma Walter Simmons
- il ragazzo la cui macchina
tutta Spoon River
aspettava di vedere in funzione -
a cui dovevo somigliare,
così mi sono ritrovato un libro bianco
come Bernardo Soares a riempire
il mio libro dell’Inquietudine.
Se mi nascondo è forse per paura,
mi piace il paralume, l’ascolto di farfalle
notturne, il verso dell’assiolo e l’ombra,
mi piace scivolare di nascosto, cercare
l’ombra, la carezza leggera di una storia.
Non ho altro, affetti sì, amici, la famiglia
e mio nipote, ed è già il mondo,
ma la scrittura, quella sì che resta
lontana, spenta.
Leggere sì, imparare, crescere ancora
o forse non smettere mai il sogno
di navigare, io che non sono mai partito
da Montetiffi, da casa mia, nemmeno quando
ero troppo lontano per pensarlo.
Ed ora, ora che stride questa cerniera
e non è non è più la stessa
e s’intoppa ogni volta più spesso,
ora che la memoria già cancella
le cose del presente, ci mettiamo
a pregare in silenzio, a ricucire
il passato, a non dir niente.
***
Sulle tombe cresce l’erba, a ciuffi,
il convolvolo s’arrotola alle croci,
vi si attacca come un ultimo grido,
si spalanca la rupe un mare grande
di silenzi e di echi.
Tombe uguali, piccole, ben curate,
piccole barche in attesa di salpare,
ognuna col suo gesto di attesa
nei silenzi.
Se potessi anch’io essere qui,
come erba o radicchio che cresce
al lume della luna,
addormentarmi così, con tutto il mondo
in ascolto e la terra smarrita.
***
A volte mi chiedo perché scrivo.
e non ho ancora trovato le risposte.
Se la parola è comunicare, la mia
si chiude nel silenzio, non affronta
la prova, non si espande,
sfinisce ogni richiesta.
Me lo disse il poeta, non importa,
forse non salverà nessuno,
eppure serve, forse non a te poeta,
serve a me che ascolto.
Dunque la parola è ascolto,
scultura del silenzio, eco,
è la parola mia, la mia voce,
non altra, solo quella.
Se qualcuno bussa attendo la risposta
e dalla voce comprendo,
così dalle parole o da un gesto
la mia voce.
***
Arrivo in ritardo, sempre.
Ma ormai ci sono abituato, la mia storia
ha tre anni di gap, tre anni persi
quando studente ancora incespicavo
su qualche frase. Come è strano il mondo!
La stessa frase che forse un giorno mi donerà
quel poco che mi resta.
Così vado a ritroso, come il gambero,
cerco la pietra, il sasso, oppure quella rena
che si gonfia e respira con il mare.
Questa è la mia scommessa, la rivincita.
Così, come per farmi perdonare, mi levo dall’anagrafe
tre anni, tre anni persi che devo un giorno o l’altro
ritrovare.
Son cresciuto in ritardo, arrivato sempre tre anni dopo,
i tre anni miei quelli migliori, quelli
che ancora sogno la sera, quando cade
una stella dall’alto.
***
Sempre così la sera!
A me il sonno viene alle ventuno, un tempo non era così.
M’accoccolo in poltrona, sgrano gli occhi, guardo l’ultimo
telegiornale.
Ma non reggo allo strazio, mi stropiccio gli occhi,
un po’ come il pipistrello della fiaba che lessi al mattino.
Ma alle ventidue mi sveglio, è quella l’ora in cui inizia il
lavoro,
mi basta poco per riprendere il viaggio, appena un’ora,
e mi metto di lena.
Traccio un disegno, una traccia e poi la voce, una parola
stanca
e un altro segno, seguo attento il profilo
e intanto vedo sull’altra poltrona, quella che sta davanti,
lentamente piegarsi la testa di mia moglie,
sta per prendere sonno.
Così lascio il lavoro e guardo, un po’ distratto, il
capitolo ultimo
di una storia nemmeno tanto nuova, che la tele ci manda.
Una unione perfetta è la nostra, anche nel sonno,
collaboriamo,
abbiamo fatto un patto, ci guardiamo le poche cose che
meritano,
fino alle ventidue lei, poi vengo io, e il giorno dopo,
così,
per non morire, ci raccontiamo il tutto, cambiando a volte
anche il finale, tanto non ha importanza,
ogni storia finisce a modo suo.
***
Come le mamme, anche i padri
non dovrebbero mai morire.
Ma questo non accade, non accade mai.
Così guardo la casa che si perde
dietro il diluvio, la strada bianca laggiù,
e il fiume, quasi un rigagnolo appena sotto il ponte.
È lungo il buio, troppo profondo e grande,
un buco nero e il piccone che ancora picchia,
una lampada oscilla, quasi spenta.
Dove si va? Mi chiedo. Dove mi portano?
Ho la giacca strappata, il volto sporco,
un peso. Oh potessi strapparmi questo peso,
questa zavorra che mi porto appresso!
Mi sono perso, non si torna indietro,
qualcuno ride e non sa, non sa la storia,
ma sono pochi quelli che non sanno.
Questo è lo strappo, la ferita buia,
il sole che non parla, non mi spiega
il senso.
E la mia casa guarda laggiù la strada,
la polvere che lascia il sapore dell’andare,
il non ritorno si tinge di dolore.
Troppo presto, mi dico, troppo presto per capire,
ma si fa in fretta, si cresce a poco a poco,
si metton su radici, ci si sforza di trovare ragioni,
non come gli altri, le nostre hanno radici ben più profonde,
si ode solo il grido, la rottura
di questo indefinibile silenzio.
E mia madre ancora di profilo, che stampa alla finestra
il suo sguardo, in lontananze perdute
disattese.
***
Se dovessi morire io prima di te,
- già ne ebbi un segnale -
negli anni dolcemente invecchierai,
finché la sera
te ne starai in un angolo assopita
e leggerai queste mie poche parole.
Sarò io a darti la mia voce,
come non feci mai,
ricordando il tempo che ti ho lasciata sola.
Così ti piegherai sopra il mio libro,
pagine bianche che riempirai,
a modo tuo,
nel tenue malinconico silenzio.
Guarderai dai vetri, in lontananza,
ogni piccolo segno del mio passaggio,
il grano già mietuto, l’erba nei campi.
E basterà solo quel gesto con la mano,
un cenno,
che ancora ripeterai nelle parole
di un libro aperto,
mentre una pallida luce si scolora.
Saranno giorni lunghi, attese,
il grano crescerà, saranno gli anni
a ricordarti di noi.
E mi vedrai ancora con l’affanno
o la gioia di tempi non lontani,
mentre la voce, la tua, già si piega
a ricercarmi invano.
***
Non c’era proprio nulla da capire
E' difficile ma succede
che quel giorno sbagliando strada io ti incontrassi,
ma non poteva essere una cosa seria io che ti incontravo
solo per sbaglio,
se solo avessi preso un’altra strada…
Mi è sempre stato difficile
proporti le mie ragioni.
Allora ti feci leggere La
strada non presa
di Robert Lee Frost
per capire la differenza. Lasciamo stare
la giovane Helen (in fondo la colpa era sua)
che non era arrivata puntuale in ufficio
e venne licenziata, ma nel film le storie si inventano
mi hai detto e poi hai lasciato cadere il discorso.
Non c’era proprio nulla da capire.
Così me ne sono andato, per ore camminando,
per ore, senza pensieri, il paese non è cambiato,
ho assaporato il silenzio, il suo strano profumo,
perché il silenzio di notte ha un profumo di cose antiche.
E qualche volta di pane.
Nel campo c’erano i girasoli, il capo chinato
a terra, in cerca del sole sapendo che domani
il sole sarebbe tornato
E le cicogne volavano più in alto, le cicogne
che vidi solo nei film,
come il mio amico, anche lui caduto per caso
accanto alla strada, ai limiti della scarpata,
senza nemmeno un lamento, come dormendo.
Non c’era proprio nulla da capire.
Ho camminato così, senza pensieri,
ascoltando il rumore dei miei passi.
Anche questi hanno un particolare rumore,
una cadenza che si ripete quando si è stanchi
e non si sa che cosa pensare.
Questo è uno strano paese, ci si addormenta
e ci si lascia andare.
Oggi hanno sepolto una donna, o quello che ne era
rimasto. È strano come il dolore prosciughi.
E come è difficile a volte morire.
Non lo è stato per mio padre.
Mia madre ha sopportato anche questo, per lunghi anni.
Non cera proprio nulla da capire,
proprio nulla.
E sono rimasto così, con questo peso addosso,
me lo sono chiesto tante volte,
è così difficile morire?
***
Ho sempre pubblicato un libro bianco
un libro bianco che non ho mai scritto,
ma è quello più riuscito, dove le parole
dicono quello che devono dire, non inventano nulla,
il mio libro che si sfoglia a rovescio,
perché le storie vere sono quelle che iniziano dalla fine,
me lo dissero in tanti,
scrivi, come se le parole fossero lì, dietro l’angolo,
ad aspettare.
***
Forse anche di me diranno un giorno:
«Guarda come si è ridotto, lui che sapeva
recitare a memoria i versi dei poeti,
dagli antichi ai moderni, perché diceva
“non ha età la poesia, è eterna”».
E me ne andrò strisciando a stento poche frasi
di poltrona in poltrona, il capo un po’ piegato
e l’occhio spento.
Me ne andrò così, a poco a poco, senza sorrisi,
nella poca luce dei mattini,
o forse troppo in fretta, perché rapida
è la vecchiaia, non si annuncia,
improvvisa ti arriva.
«Come è cambiato, diranno, lo vidi proprio ieri,
sul balcone, nella sua sedia a dondolo, dormire,
un libro aperto coi fogli che il vento rigirava».
Per favore, nessuna pietà, nessuna pena,
l’uomo che ero è là, è ancora vivo,
forse ha preso un’altra strada, forse ritorna,
chissà e intanto aspetta.
Notte, 25
luglio 2012
Bruno Bartoletti nasce a Montetiffi, una piccola frazione del Comune di Sogliano al Rubicone (FC), dove tuttora risiede. Laureatosi in Materie Letterarie presso l’Università degli Studi di Genova con una tesi su Giovanni Pascoli, dopo la nomina come assistente ordinario alla cattedra di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Torino, nomina a cui rinuncia, si dedica all’insegnamento, svolgendo poi la funzione di Preside negli Istituti Tecnici. Uomo di scuola e promotore culturale, presso l’Università di Aix en Provence ha svolto un Dottorato di ricerca d’Etudes Romanes con un lavoro su Dino Campana. Si è sempre dedicato alla poesia fin da ragazzo, ma solo in età matura ha cercato di dare ordine e sistemazione al suo lavoro. Nel 1997 pubblica il suo primo volume di liriche, Trasparenze – Frammenti di memorie, nel 2000 Le radici, nel 2001 Parole di Ombre, nel 2005 Il tempo dell’attesa e nel 2012 Sparire in silenzio ricordando il vento delle strade per conto di Youcanprint Self – Publishing. Numerosi sono i riconoscimenti ricevuti e molte sue poesie e recensioni sono apparse su diverse riviste e antologie di autori contemporanei. Partecipa a conferenze di letteratura e a letture di testi poetici dell’otto – novecento.