sabato 31 luglio 2021

Una finestra poetica sull'Iran: Elham Hamedi

Riceviamo da Rita Pacilio, che ringraziamo, la proposta di pubblicare qui, nella sezione dedicata agli Ospiti stranieri, alcuni brevi testi dell'artista e poetessa iraniana Elham Hamedi.
Si tratta a mio giudizio di una poesia strutturata in forma di prosa, dove l'allegoria e la metafora sono le intelligenti e direi quasi necessarie figure retoriche predominanti, per esprimere liricamente la precarietà e la speranza di ricostruzione di un tessuto umano e sociale dilaniato.



Nella mia tasca vive un piccolo uomo che ha ingoiato la sua ansia in me / e sorride umilmente in risposta ad ogni domanda accanto alla cucitura strappata della tasca


***


Penso ancora alle termiti che hanno distrutto i tetti di legno e scavato negli incroci stradali.
Congratulazioni alle termiti che portano luci rosse nei castelli oscuri come una croce. Hanno rotto gli occhiali neri nei loro buchi per gli occhi.
Giuro sulle termiti che sono i giganti eroici e liberi della loro terra.



***


Dal tetto
la paura è come un segnale in fuga,
lungo le gambe del filo sottile

Disconnetti,
Connetti

Disconnetti,
Connecti

Disconnetti
Disconnecti

La paura è come il singhiozzo intermittente
Facce sprofondate in pezzi di nuvola
E le dita sono rami secchi sulla fronte
Sento una voce viola e gli ultimi respiri
Un fulmine ha colpito il mio cuore

Piovve..


Elham Hamedi è nata nel 1967 a Shiraz, in Iran. È un'artista multimediale, poetessa e curatrice internazionale, membro permanente dell'Iranian Visual Arts Scientific Association, laureata in ricerca in arti alla Yazd University e laureata in radiologia presso l'Università di Shiraz. È designer della rivista letteraria e artistica “Aghrabeh”. Alcuni dei suoi dipinti e installazioni sono stati ispirati dai frammenti di organi e dalle loro interazioni con oggetti inanimati. ha tenuto diverse mostre personali e collettive in Iran e all'estero.

martedì 20 luglio 2021

Il "Sogno di un fuoco" del giovane Dario Alessio

L’assunto che la poesia non ha età è piacevolmente verificato quando ci si imbatte nei versi di un giovanissimo autore, come in questo caso, che frequenta e attua la poesia in modo serio. L’autore, il romano Dario Alessio, è appena un ventiduenne, ma sorprendentemente ha già all’attivo due pubblicazioni di poesia. La più recente, quella di cui ci stiamo occupando brevemente qui, è Sogno di un fuoco, edita da RPlibri, casa editrice sempre pronta ad accogliere anche le giovani e giovanissime voci, sempre che siano di qualità. E Dario Alessio dimostra senz’altro di possedere già una buona padronanza del verso e di sapere come instradarlo e come convogliarvi un certo contenuto, di spessore, con l’intento di trovare le fatidiche risposte alle proprie essenziali problematiche esistenziali, e quindi in definitiva pratica una poesia niente affatto superficiale o fatua, come a volte capita di leggere in autori acerbi che si vogliono precipitare subito nel difficile ed elaboratissimo mondo del fare poesia.
Ed è così che, circolando attorno a concetti e termini per lui fondamentali, come fuoco, riflessi di luce, tramonti, cieli, il nostro giovane Dario si costruisce un mondo arduo, spigoloso, costituito da repentine variazioni di colori e di umori, e dove l’essenzialità della sua esistenza è dilaniata, quasi consumata, dal difficile e precario procedere in avanti.
Una poesia nervosa, complessa, a volte aguzza, direi quasi drammatica, che non lascia spazio a possibili redenzioni o ricostruzioni. Un ribollire di riflessioni, un fermento interiore che cerca di affiorare in superficie e che il nostro giovane autore riesce a gestire incanalando ogni cosa nei suoi versi densi e prorompenti. Una buona poesia, che è cartina al tornasole di uno stato di continuo disagio, e che contemporaneamente segna l’inizio di un cammino poetico interessante e meritoriamente propositivo.


Vi è un tramonto d’oro
e lingue di fuoco
che scendono in terra
e ardono lo sguardo.
A un occhio –
senza dolere –
sovviene un altro fuoco
che svela il crepuscolo
ed è intensa luce e vera pace.

Il secondo occhio s’incupisce
scruta ombra e passato
di chiuse caverne
e fitte foreste,
sapore di sangue,
un antico sepolcro
che brucia
e brucia
ed è fuoco fatuo
poi – nulla.



***


Sotto un cielo purpureo
le nuvole scorrono rapide
e un canto soffocato
melodia e rimembranza
stanzia, solitario, nel perpetuo divenire
di questi cieli che si rendono feroci
impazienti, come a voler trascinare
la volta celeste, il mondo, il tempo
e le cose vive tenute strette
a un respiro – ormai non più certo.
E con il passare dell’ultima nuvola
il cielo – ora spoglio – è pagina bianca
di un nuovo Dio che sogna silente.



***

Disperso nel nostro labirinto
di luci e di specchi
capii che ogni uomo
è anche un altro uomo
infiniti uomini
sono riflessi in una stessa luce
in uno stesso specchio;
ma nel riflesso di un altro occhio
che mi era impossibile scorgere,
e tuttavia potevo immaginare,
compresi che tutti gli uomini
sono un solo uomo
con lo sguardo rivolto verso Dio
e le sue illimitate ombre.



***

Tra le righe

Ricordi? In uno spazio sconfinato,
lasciammo dei sassolini bianchi
lungo il sentiero mal disposto.
Passo dopo passo,
il sentiero si rese rettilineo
e le cose iniziarono a morire
più in fretta;
mi tenesti la mano e dicesti
che mutare è ciò che tutto compie.
Non fui mai grato a nulla, dunque,
ti persi tra le righe.

In questi anni cammino a ritroso,
e vedo più sassolini che sentiero.



***

Un ultimo sguardo
alle finzioni
del mondo
che sfumano.

Lascio
per sempre
le cose
al loro posto.

Cedo il passo
alla carne marchiata
all’anima che brucia
alle ceneri del cuore.

E sogno di un fuoco
che mi battezzi
mi devasti
sovrasti.

È solo agli occhi
di chi arde davvero
che nelle notti eterne si disvela
l’alfabeto delle stelle danzanti.


(Brani tratti da:
Dario Alessio, Sogno di un fuoco, RPlibri, 2021)

Dario Alessio nasce a Roma nel 1999.
Appassionato di cinema, decide di frequentare l’Istituto Cinematografico “Roberto Rossellini”.
Durante gli studi, sviluppa un profondo interesse per la letteratura.
Pubblica Le viole recise (Il Sextante) nel 2019 con la prefazione di Matteo Tuveri e le illustrazioni di Sara Rogani.

domenica 18 luglio 2021

L'essenzialità del dire poetico in "Ma tu, tu sei la pianta", di Claudia Olivero

Con piacere riproponiamo qui, per la rubrica “Proposte di lettura” di Transiti Poetici, Claudia Olivero con la sua recente silloge Ma tu, tu sei la pianta, edita da RPlibri.
Si tratta di una raccolta breve ma eccellente e gradevole nella sua composizione, in quanto è accompagnata anche dalle pregevoli illustrazioni dell’artista Lodovica Peschetta. Come la stessa autrice afferma nelle sue note biografiche a corredo del libro, l’intesa con l’amica illustratrice è stata immediata e gratificante per entrambe, dando loro l’opportunità di creare insieme il presente progetto artistico-letterario. E la bontà di questo non poteva essere messa in discussione, perché è indubbio che per tali cose occorre un’integrazione, un accordo, una intesa intuitiva davvero forte, al fine di rappresentare poi un “unicum” dove la poesia è il riflesso dell’immagine, e l’immagine stessa è il riflesso della poesia. Si tratta, come suol dirsi attualmente in ambito letterario, di una vera e ottimale “contaminazione” vicendevole.
Purtroppo non ci è possibile riportare qui i disegni dell’ottima Lodovica, e anche per questo motivo consigliamo l’acquisto del volumetto. Però esprimiamo volentieri qualche breve riflessione in merito ai testi.
Anche in questa silloge, molto gradevole e fluida, Claudia Olivero esprime la sua tendenza a sintetizzare liricamente un discorso poetico che, prevalentemente, è di carattere riflessivo; l’immediatezza si concentra in una costruzione diretta dei versi, dove l’io narrante propone spunti meditativi sulla realtà circostante, sui sentimenti e in particolare sull’amore di coppia. L’autrice cerca di incidere sulla realtà quotidiana, riempendo i vuoti con spessore di cuori e di intenti, in un continuo lavorìo circolare come dragando la rena in fondo al mare. È dunque questa circolarità, dal vuoto che angoscia al rimettere al loro posto i valori sperduti, questo continuo equilibrio per rimanere se stessa in un mondo che va alla deriva, questo essere se stessa pianta, albero dalle radici ferme e ricche di nutrimento, che caratterizza l’essenzialità della poesia di Claudia Olivero, in questa silloge e forse anche nei suoi altri progetti poetici.


Cammino – è invadente il passo
tra ricordi che non so nominare
arrivo in fondo, dove solo si esiste
per moto circolare. Rimangono
l’atto del togliere, trovare spazio
l’atto di accogliere, per fare l’altro.
Essere già
come una madre.


***

                                                       (Ǝ! x) P(x) *

Distoglimi
dal mio essere fuori da te.
Attraversa le mie barriere
senza romperle
senza neanche urtarle.


*Costrutto afferente al campo della logica matematica, che rappresenta un concetto affine a quello filosofico: Esiste un unico x che soddisfa il predicato P

 

***

Spiegarsi alla notte
e alla sua direzione precisa -
tracciare una rotta, ricordare
che senza le scarpe
è richiesta l’abilità
del volo: inseguire
il cuore a ponente, sferzato
dal rovesciarsi improvviso
del tempo: affrontare
ogni raffica con caffè
e vino freddo. Riallacciare
le scarpe. Talvolta incrociarsi
sotto coperta.


***


Al di là
delle parole mal dette,
maledette infezioni
rotazioni vocaliche
ellissi di visione
e senso –
trovo te.

E sempre fingo
di non vedermi.


***


Ed è così:
certe ore si ama di più.
Come polvere sparsa
su atomi di te, comprendo
che non è una questione di peso,
l’amore. È soprattutto spazio.

Come se amarti non fosse
soltanto quel tutto,
come se dopo potessi
ancora scegliere
di non amarti.


***


L’amore si accontenta
di un quarto di letto, di poche vocali.
Dei cinque sensi.

L’amore è l’esasperazione
dei sensi, tesi
nell’incavo del collo, una carezza. Così,
addormentarsi.


Brani tratti da:

Claudia Olivero, Ma tu, tu sei la pianta, RPlibri, 2021; con illustrazioni di Lodovica Paschetta.

Claudia Olivero, torinese, ha esordito con la silloge Per baciarti a occhi chiusi non servono gli occhiali, Brè 2020. È fondatrice del Tinello Poetico, gruppo di lettura e condivisione poetica. Sue poesie sono state pubblicate su riviste online e blog letterari. Predilige, nella sua scrittura, lo sguardo al dettaglio, all'azione anche minima, al senso più profondo dei sentimenti e delle percezioni.

 


sabato 17 luglio 2021

"La rosa rosa" di Elia Belculfinè

Antonio Bux, curatore della collana L’anello di Möbius  per le edizioni RPlibri di Rita Pacilio, è un fine conoscitore della poesia e sa molto bene individuare nuove voci che abbiano una bella e valida consistenza e modalità di forme e di contenuti. È il caso del giovane casertano Elia Belculfinè, “scoperto”, come tanti altri, dal Bux, e a ragion veduta con indovinatissimo e premiato intuito professionale. La rosa rosa è il titolo di questa raccolta omogenea del nostro autore, della quale lo stesso Antonio Bux ha curato una sintetica ma precisa ed esaustiva introduzione.
Si tratta per lo più di testi di una discreta lunghezza, per cui proponiamo qui di seguito, per necessità di spazio, solo alcuni brani, scelti dal sottoscritto con la speranza che possano essere ben rappresentativi dell’intero lavoro poetico.
Pienamente d’accordo con Antonio Bux quando afferma che la poesia di Elia Belculfinè è pregna di decadentismo, essendo caratterizzata prevalentemente da un verseggiare piuttosto cupo e malinconico, ma denso di richiami allegorici sul senso dell’esistenza: un’esistenza che scorre attraverso i solchi della quotidianità, in cui ci si imbatte in scoloriture e ansiti di vitalità; un’esistenza raffigurata in filigrane e lacerti di storie, di persone, di luoghi che sono diventati simboli di una improbabile riscossa o rinascita.
La poesia di Elia Belculfinè, in questa originale e organica raccolta, si snoda dunque lungo un tracciato piuttosto compatto, nel quale l’autore descrive e configura scene, situazioni e personaggi che a volte hanno il vago sentore di una novella Spoon Rever del mai dimenticato Edgar Lee Masters (per esempio Rosalba, La maestra, Il custode del camposanto). Qui i morti, i fantasmi di cui parla anche Antonio Bux, assumono fisionomia umana e naturale, hanno i loro problemi quotidiani cui preoccuparsi, e attualizzano una umanità scheletrita, ghiaccia, in cui il sentimento e la ricerca della felicità, dell’amore, è stigmatizzata nelle rapide allusioni (“Sia fitto di agrumeti, città radiante, il sole”…).
Un’opera letteraria di tutto rispetto, e non poteva essere altrimenti essendo stata presa in ottima considerazione dal curatore della sezione e, soprattutto, dalla RPlibri, editrice che con grande competenza e amore per la poesia offre ai lettori prodotti di alta qualità letteraria.


(…)

Recrudescenza, nella luna, del tuo male.
Alta sul pioppeto umilia,
gettandosi sulle rotaie, un usignolo dentro i versi.
L’eternità ha il furioso dulcamaro delle olanzapine,
col tuo segreto s­figurato, sorella...
Il giorno è d’autunno, un secolo fa.
Mai vedesti ridere tua madre.
Il suicidio delicato del rabdomante –
leggervi dolore è un’oscenità comune.
Isolarti al fondo, fra le stelle d’acquitrino.
I poeti sono aria. Non versi? Sei tu a dirlo...
Strappato all’orologio l’orpello della meta.
Corollario, cerca il piatto d’ombre, il sangue col rame.
Sia, ­fitto di agrumeti, Città Radiante, il sole.
Concrezioni di labbra.
Rime nella notte, mai baciate.

(dalla sezione Operando nel fuoco)




***


ROSALBA 1917 – 1994

Rosalba, rosa e alba, chiarisce il mattino.
Oltre i bioccoli di rive, si sperde il sordo
cielo, e lontano; cinto di semi veglianti
alla morte dei vivi. Un giorno cercasti
nelle vesti per scorgere il tuo cuore.
Era una stufa di maioliche, inconoscibile tortura.
Una granata dolce, aperta a spicchi di ­figli –
levità di bianco e di rosa; un telaio fermo,
che aspettava le tue mani. Era il sole intarsiato,
nottetempo, di nostalgie nemiche,
la musica alla pena di cosa passante e nuda,
invece nessuno intonò la chitarra leggera,
il plasma denso delle voci, carezza di strade.
Dov’è che vai, stamattina? Quanto a lungo vive
una rosa? Cos’è una rosa? Chi venne in primavere
a tendere i serici ­fili della luce?
Fu d’aurore la tua carne,
grano tessile di vene aperte nella terra.
In quel nido di sarta, fra piume avare, stoffe
di ingenti alfabeti – rosa e alba…
Eppure l’alba disperde le sue rose,
a tenere piaghe nelle epifanie del sangue.
Ebbi, da bambino, qualcosa da rubarti.
Faranno un sospiro i gerani, e gli uomini
diverranno pietra,
ami di prodigiosa pesca. L’ago
del cuore punta oriente. Tu grida forte,
quando sarai pronta, mettiti in cammino.

(dalla sezione Le allegrie del vino – i passati)



***


La Maestra è una sarta magistrale.
Cuce le vele per i pirati.
E i vestiti alle bambole del vicinato
coi panni da lavoro del marito
a cui non imbastisce un abito o intavola il piatto.
Quando ha ­finito si beve un vermut
tra amiche. E se ne va al cinema
con le sue miserie.
Ma ciò in cui non vuole
in­filare l’ago è la sua lingua lacerata
dall’infamia del suo canto,
che in realtà è un cicaleccio nella grondaia.

(dalla sezione Le allegrie del vino – i passanti)




***

Il custode del camposanto è gravemente malato.
Anche se il cardiologo dice che è tutto a posto,
si vede da un miglio che il suo cuore è una pietra.
E forse ha un ­figlio rinchiuso in cantina
che nutre con i garofani sulle tombe.
Il suo sangue ristagna nel basso ventre.
E si contorce per le coliche,
ma è solo mancanza di una carezza.
Pare un ectoplasma. Lo chiamano Sgranaossi,
che se lo vedi, lo capisci al volo che mestiere fa,
senza che ti mostri la vanga e la sua catena.

(dalla sezione Le allegrie del vino – i passanti)



***


Con cappelli forbiti gli uomini offrono il braccio
alle donne con fazzoletti stampati a fiori sul capo.
Hanno un certo stile i loro appuntamenti.
La vecchia gente dice – torneranno…

Ma anche i morti hanno i loro morti a cui pensare,
la domenica, con ghirbe di parole,
preghiere in cinture di rose stese
su maggesi di ignoti compendi d’erbe.

Gira sul tuo cardine, vita.
E la terra che in me scorto in nuove sepolture –
presagio del sangue nuovo.
Come i bambini i morti.

Amandosi, prendendosi le mani.

(dalla sezione La rosa rosa)

Brani tratti da:

Elia Belculfinè, La rosa rosa, RPlibri, 2020; sezione L’anello di Möbius diretta da Antonio Bux; introduzione di Antonio Bux.

Elia Belculfinè è nato nel 1983 a Caserta e vive nell’omonima provincia. Suoi lavori sono apparsi in numerose antologie di settore. Nel 2012 ha pubblicato per l’editore Aletti la raccolta Primi sintomi di una gravidanza. Sempre per Aletti, è apparso nel saggio Verso la Poesia alla ricerca di senso a cura di Maria Carmen Lama.




mercoledì 14 luglio 2021

I "ventitré modi per sopravvivere" di Ksenja Laginja

Non è un mero evocare la magia dei numeri, né un frivolo divertissement o un banale gioco di abbinamento cabalistico tra numeri e fatti, quello che muove la nostra bravissima Ksenja Laginja a proporsi in questo suggestivo, gradevole e originalissimo lavoro poetico: Ventitré modi per sopravvivere, titolo della recente raccolta dell’autrice, pubblicata nel marzo di quest’anno da Kipple Officina Libraria.
La poesia, si sa, è cosa seria, perfino quando tratta di argomenti scabrosi o misteriosi o irrazionali; ma l’argomento, pur essendo parte essenziale del dire poetico, non è la parte più importante e determinante: l’intuizione illuminata, le modalità, la struttura, le significanze, il dire oltre la parola e il verso, le cadenze a tante altre caratteristiche sono di peculiare e primaria importanza affinché si possa affermare e confermare che un testo poetico sia seriamente valido e significativo. Ora, Ksenja Laginja non “scherza” con i numeri, e nella fattispecie con questo fatidico “23”, che sembra essere davvero un numero particolarmente importante nel novero della scienza in genere e della numerologia in particolare, in quanto corrisponde meravigliosamente a svariati fenomeni. È indubbio che la natura della persona, le sue esperienze di vita, i suoi gusti, le sue predilezioni ed anche il suo iter culturale, influiscono sulla creatività artistica e letteraria, per cui anche Ksenja mette a frutto tutto ciò concedendosi la bellissima opportunità di creare lavori poetici di siffatta unicità e novità.
Non scherza né con i numeri, e soprattutto non scherza con la Poesia, Ksenja Laginja, dicevamo: ora, quale segreto e recondito input (scientifico, numerologico, esoterico, fantascientifico, e quant’altro di strano e inusitato possa provenire dagli orizzonti ancora in gran parte inesplorati dei fenomeni terrestri e cosmici…) ha stimolato la nostra illuminata e pervicace autrice a scrivere un intero poema organico basato sul numero 23?
Ma perché poi 23 modi per sopravvivere, secondo la nostra Autrice?
Il fatto è che il numero 23 è davvero singolare! Si adatta, e in molti casi ne è il simbolo, a tantissimi fenomeni scientifici, matematici, biologici, eccetera. Ora, la peculiarità sta, non tanto nel fatto che la nostra brava Ksenja sia riuscita, con la sua vasta cultura in proposito (e non solo in questo!), ad individuare, a scoprire che tale numero sia davvero significativo, quanto poi a costruirci attorno un progetto poetico davvero rilevante, eccezionale nella sua applicazione e formulazione.
La “sopravvivenza” è dunque legata in un certo qual modo a questi fenomeni, a queste “leggi” di natura (si consideri ad esempio, come Ksenja recita in un suo testo, il numero di coppie cromosomiche umane, che sono giusto 23), alle quali inevitabilmente e ineluttabilmente dobbiamo sottostare, accettando il fatto che possano gestire la nostra quotidianità!
Ognuno dei 23 (guarda caso!) testi di questa silloge si riferisce ad un particolare fenomeno che richiama o si rifà al numero stesso. Ksenja ha un dettato poetico essenziale, quasi epigrammatico, immediato, come è nel suo stile. Sono testi intensi, che celano all’interno, in filigrana, il tema inerente al numero evocato, ma che nello stesso tempo ampliano l’orizzonte con allusioni e rimandi significativi. L’originalità sta pure nel riportare, in calce a ciascun brano (noi per comodità l’abbiamo riportato in parentesi alla fine del testo), l’argomento preciso al quale il testo si riferisce.
Un libro curioso, interessante, colto, che induce a riflettere e a ricercare oltre l’assunto, oltre il dato, oltre tutto quello che, normalmente, si dà per scontato! La poesia, anche qui, e in particolare la poesia di Ksenja Laginja, è maestra di apprendimento, oltre che di emozioni.

Riportiamo qui di seguito una nostra selezione dei 23 testi poetici che fanno parte della raccolta, chiedendo ai nostri lettori di aggiungere, se lo vorranno, altri graditi commenti o riflessioni.


I

Contiamo insieme tutte
le lettere, ventitré volte siamo
stati qui come il tuo amore
in congedo dalla vita,
ci toccherà per ultimo
nominare i successori
al principio del cosmo.

(L’Alfabeto latino classico è composto da 23 lettere).

 

***


IV

Sono cromosomiche
aderenze, molecole
in attraversamento
nell’abbraccio imposto
che del silenzio fa sua
ogni dimensione, riposiziona
le variabili, noi compresi
tra la mano e il coltello
inclusi nell’assenza.

(I cromosomi umani sono suddivisi in 23 coppie).

 

***


XI

Includilo nell’assenza
a noi che restiamo
paralleli e disposti
nello stesso piano
infiniti nelle direzioni
senza mai toccarci.

(23 sono le definizioni della geometria euclidea, contenute nel Libro I degli Elementi: “Si dicono parallele rette giacenti nello stesso piano che, prolungate illimitatamente in entrambe le direzioni, non si incontrino fra loro da nessuna delle due parti”).

 

***



XX

Ripetiamolo insieme
ventitré volte andremo alla deriva
diranno che siamo trascurabili
terreno sterile privo di fondamenta
come il tuo corpo, ormai inerte
racchiuso nell’urna.

(Il numero 23 nel linguaggio dei sordi significa “stupido”).


***


XXIII

Alla fine della conta
resteranno queste solitudini
biologiche, particelle
ripetibili che smuovono
il quando senza un dove;
il ruscello incede rapido
contiene la deviazione
naturale e necessaria,
questa apparenza
è il nostro fine.

(Il 23 è parte della terna pitagorica 23, 264, 265).

Testi tratti da "Ventitré modi per sopravvivere", di Ksenja Laginja, Ediz. Kipple Officina Libraria, 2021; prefazione di Alex Tonelli.

Ksenja Laginja è nata a Genova, vive e lavora tra la sua città e Roma dove alterna alla sua attività letteraria e pubblicitaria una ricerca sull’illustrazione legata al mondo del Fantastico. Ha esordito con Smokers die younger (Annexia edizioni,  2005), a cui ha fatto seguito Praticare la notte (Ladolfi Editore, 2015) e Ventitré modi per sopravvivere (Kipple Officina Libraria, 2021). Nel 2020 ha vinto i concorsi Europa in Versi e Arcipelago Itaca, nella sezione inediti.  Suoi testi sono presenti su antologie poetiche, blog e riviste letterarie. Co-organizza la rassegna di poesia e musica elettronica Poème Électronique.

 



sabato 10 luglio 2021

Mara Venuto e la sua "Lingua della città"

Con La lingua della città, Mara Venuto vuole affrontare con coraggio e determinazione, ma anche con competente slancio poetico, i problemi esistenziali di una umanità cittadina, e quindi sociale, alla deriva, immersa prevalentemente in un disagio continuo, sia dal punto di vista ambientale, sia dal punto di vista lavorativo e relazionale. È in effetti un punto di partenza, in quanto mi sembra chiara la metafora della situazione locale, cittadina, che andrebbe estesa a tutta la contemporaneità geografica. Ed è giusto quel che afferma Giorgio Galli nella sua puntuale prefazione, e cioé che quella di Mara Venuto, in La lingua della città, non è in effetti una vera e propria poesia di denuncia, bensì è una poesia che fotografa lo stato delle cose, il rovello interiore derivante dalle situazioni precarie, e la traduzione in versi spiccati e a volte perentori, di una realtà esteriore macilenta, guasta, corrotta, degradata, ne è simbolicamente l’immagine.

Una città dunque che è anche il nostro stato, la nostra vita di tutti i giorni, con le problematiche economiche e lavorative che incidono fortemente sugli stati d’animo e sui comportamenti.

Guardarsi dentro, recita Mara in una delle poesie della raccolta, per trovare cosa: è questo uno dei cardini del progetto poetico della nostra autrice, e cioè dire, raccontare, far vedere la mancanza di contenuti forti, di valori, forse anche di buoni sentimenti, in un cuore di città (e di umanità) ormai sempre più leggera e superficiale, forse anche banale, priva di motivazioni essenziali; e questo vuoto viene purtroppo riempito dal degrado ambientale, dall’egoismo, dall’indifferenza generale.

Ma come sempre, la poesia, la parola poetica, è maestra nell’assumere in sé, quasi assorbendoli, gli umori, le emozioni, positive o anche negative che siano, per offrire una ricostruzione nobile e schietta della realtà di cui parla. La poesia non inneggia e non condanna, dice le cose così come stanno, con una lingua eccelsa e universale, in grado di far riflettere, in grado di indurre propositi nuovi e rigeneranti. 

Ecco: anche la poesia di Mara Venuto, scritta e proposta nella lingua della città, è un chiaro e pregevole esempio di questa nobile funzione della poesia.

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Mara Venuto, La lingua della città, Edizioni Delta3. Collana Letture Meridiane diretta da Eleonora Rimolo. Prefazione di Giorgio Galli.

Opera Segnalata al Premio di Poesia Contemporanea Bologna in Lettere 2020 Sezione Raccolta Inedita.


Sono nata e non ricordo,
il sangue le voci, non c’erano animali
o fuochi nella terra delle ragioni,
solo una bocca incapace di amore.

A settembre la città odorava di polvere e acqua,
la strada era un nido di passi
gazzelle e grembiuli neri
a coprire la bellezza dallo sporco.

 

***

Sui muri della città è scritta la nostra voce
l’eco è un’ombra d’acqua alla resa,
l’ascoltano i vecchi per farsi ragione
a ogni altro pare un invisibile fermento
che di notte partorisce eroi.

Nel sonno la luce fredda sui balconi
è una proiezione di capelli virginali,
una madonna s’abbandona sorretta al sale marino
ma nessuno la prega.

Fedeli ai riti viscerali i nodi invisibili
scendono nell’esofago e raccontano la vita così come è,
una trama stoica di anni minuti.

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Mara Venuto è nata a Taranto, vive a Ostuni. Tra le sue pubblicazioni: i monologhi teatrali Leggimi nei pensieri (2008) e The Monster (2015, testo finalista al Mario Fratti Award 2014 di New York per la drammaturgia italiana); le raccolte poetiche Gli impermeabili (2016, menzione di merito al Premio internazionale Piero Alinari 2014) e Questa polvere la sparge il vento (2019, opera segnalata al Premio Bologna in Lettere 2018 - Sezione Raccolta inedita di poesie; menzione speciale al Premio Internazionale di Poesia Don Luigi Di Liegro 2020 - Sezione Raccolta edita di poesie).

Ha curato e pubblicato numerosi altri volumi, tra cui un ciclo di pubblicazioni al femminile.

Sue poesie sono state tradotte e pubblicate in polacco, inglese, russo, hindi, albanese e spagnolo.

È inclusa in una trilogia di monografie dedicate alla poesia italiana femminile contemporanea

(Macabor Editore, 2017).

È stata ospite di Festival internazionali di Poesia, tra cui il IX Festival di Poesia Slava a Varsavia nel 2016.

Suoi testi e corti teatrali su tematiche sociali - The Monster; Gli Eroi; Faith; Zitti zitti; Miché; N.N.; Gli Argini di Spoon River - sono stati premiati in ambito nazionale e internazionale e rappresentati con buon riscontro di pubblico e critica.

A maggio 2021 è uscita la sua ultima raccolta poetica La lingua della città (Opera segnalata al Premio Bologna in Lettere 2020 - Sezione Raccolta inedita di poesie) nella collana Letture meridiane diretta da Eleonora Rimolo per Delta3Edizioni.

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Il libro "La lingua della città" di Mara Venuto è stato presentato nell'ambito della rassegna "Il London Park Letterario" a Sant'Anastasia (Na), incontro del 9 luglio 2021.

Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà