giovedì 14 novembre 2019

Raffaele Urraro e il "lato oscuro delle cose"


"…Ma conosceremo un giorno / il lato oscuro delle cose?", si chiede Raffaele Urraro nella poesia che apre la sua recente raccolta "Il lato oscuro delle cose", edita da RPlibri di Rita Pacilio. Sono gli ultimi due versi della poesia che costituiscono dunque il pilastro, il concetto assolutamente perentorio, urgente e nello stesso tempo immane, del pensiero filosofico dell'autore, di cui è pregno tutto il contenuto del libro. In effetti l'intento è davvero arduo, complesso e finanche avventuroso, sia dal punto di vista figurativo, che da quello del contenuto e della trama fortemente filosofica, se vogliamo, e questo intento è anche chiaramente esplicitato nell'introduzione dello stesso Urraro, quando afferma che le poesie raccolte in questa silloge ruotano tutte attorno a un concetto che riflette il senso più profondo che io attribuisco generalmente al fare poetico: il tentativo di scoprire il vero significato delle cose.
Il vero significato delle cose che ogni uomo di una certa sensibilità e capacità critica introspettiva, ha sempre cercato, fin dall'antichità, studiando, valutando, elucubrando sui misteri della natura e del mondo, costruendo sistemi filosofici e ipotizzando le teorie più svariate sul perché ultimo della vita e del cosmo. Le scienze, come la fisica, la matematica, la chimica, l'astronomia, hanno attraverso i secoli "sistemato" in qualche modo "il lato oscuro delle cose", risolvendone e chiarendone gli aspetti, le modalità e le reciproche interrelazioni, anche se tantissimi quesiti sono tuttora senza risposta: si tratta di un continuo e forse asintotico avvicinarsi alla verità ultima del cosmo, che probabilmente resterà irraggiungibile. Ma le risposte agli eterni interrogativi dell'uomo non fanno che "spostare" il senso profondo più in là, fino ad affermare con Urraro: "non abbiamo penetrato delle cose / il seme più interno / e inesplorabile": la verità ultima, il seme più interno, rimane inesorabilmente un traguardo irraggiungibile!
D'altra parte c'è il ripiegamento sull'ineffabilità, sulla spiritualità, sulla religione, sulla fede in qualcosa che sta al di là della nostra comprensione umana, della nostra razionalità e della nostra materialità. L'uomo primitivo si è sempre rifugiato in qualche modo in quegli ambiti per dare "un senso alle cose", all'esistenza, ai perché del creato. Quelle domande sono ancora attuali, e l'ambito religioso ancora le accoglie rispondendo all'uomo con i canoni della fede.
Ma qui si tratta di penetrare ancora di più nel seme interno, nel nocciolo delle cose, cercando di fare a meno quanto più è possibile della sicurezza offerta dalla fede o da una qualsiasi religione. L'uomo-Urraro non si accontenta delle risposte primarie date dalla scienza o anche dalla religione, considerandole quasi propedeutiche ad un fine escatologico ancora più misterioso, lontano, vago, confuso, indeterminato: "… e gira e gira (la stella) / fra le strade scorticate del cielo / fu attratta da un buco nero / che la travolse e ingoiò / come fosse una mela / e noi siamo fatti / della stessa sostanza delle stelle", cioè a dire: se l'annichilamento ci prenderà tutti, come se fossimo prima o poi inghiottiti da un buco nero, cosa ipotizzare della nostra esistenza effimera? del nostro senso di esistenza e del senso di tutte le cose?
Se lo scienziato o il religioso, attraverso le sue ricerche e la sua fede, trova comunque un senso nelle cose, o perlomeno cerca di "sistemare" il "suo" universo utilizzando i vari tasselli fisici, matematici e spirituali, fino a formare un quadro, un mosaico abbastanza completo, esaustivo e soddisfacente dell'esistenza, il poeta invece va oltre. Il poeta necessariamente, proprio in quanto poeta, deve andare oltre. O meglio, deve scendere in profondità o risalire le vertigini del creato, cercando di varcare se non proprio di scardinare gli usci dell'incomprensibile e dell'inconoscibile, in tutti gli ambiti: fisici, matematici, religiosi, e persino trascendentali. La parola è la sua arma principale, e Raffaele Urraro ben lo sa: "Si scava nel senso delle cose – afferma ancora nella sua puntualissima introduzione – o, per dir meglio, nelle cose per scoprirne il senso, armati soltanto dello strumento della parola, quella che in effetti ci fa vivere e soffrire…".
Dunque la poesia, la poesia fatta di parole appropriate a descrivere l'ineluttabilità, il rovello interiore, il dubbio, la speranza, l'amarezza, la disillusione che prende l'uomo ogniqualvolta si avvicina a dare un senso alle cose, a spiegarsi cos'è questa esistenza terrena, perché nasciamo e poi moriamo. Dice il poeta-Urraro: è la parola poetica che ci sostiene e che può legare "…l'anima a una stella, facendola vibrare come vibra un fiore…"; e "solo così una cosa può vivere / e morire / perché questo è alla fine / il magico potere della parola".
Il libro di Raffaele Urraro è importante e interessante, perché apre a dibattiti e approfondimenti ulteriori, di carattere filosofico ma anche scientifico e religioso, su quanto da millenni l'uomo, prima timidamente e poi sempre con maggiore determinazione, avendo conquistato gli strumenti adeguati, si è sempre chiesto: cosa siamo, da dove veniamo e dove andiamo? Ci sarà mai svelato questo senso oscuro delle cose e del creato? La conclusione che Raffaele Urraro ci propone è, apparentemente, quella di vivere cercando noi stessi di dare un senso alle cose, anche se le cose, spesso, un senso davvero non ce l'hanno! Altrimenti – dice sempre Urraro – vivere in un universo senza senso ci porterebbe diritti allo sconforto o alla depressione.
Ed ora proponiamo qui di seguito alcuni testi tratti da "Il lato oscuro delle cose", invitando i nostri lettori ad aggiungere ulteriori graditi e interessanti commenti o riflessioni in proposito.



Il lato oscuro delle cose

Mentre ascolto una musica
coperta lievemente da veli variopinti
sento che la mente si accartoccia
nelle sue emozioni

anche l'aria che sembra stonata
nello stormire delle foglie
vibra di incerte tensioni
ed io cerco di scoprire
cosa dice quella voce
che parla la lingua
indecifrabile e arcana
della natura

ma conosceremo un giorno
il lato oscuro delle cose?


***

L'onda del mare

Ritrae l'onda stanca la sua lingua
dalla riva in attesa

chissà da dove viene
chissà dove ritorna
in quell'andare sconvolgente e inquieto

poi l'onda si alza e se ne va
per le immense praterie del mare
senza neanche sapere
se ti ha lambito la mano

e ti lascia lì
chiuso nel tuo silenzio
dubbioso e confuso
mentre guardi con l'occhio socchiuso
l'orizzonte lontano che confonde


*** 

Il dramma della clessidra

L'abisso è un imbuto e ha la forma
della parte superiore della clessidra
quella da dove scendono
i granelli del tempo e ciò che resta
delle nostre illusioni e attese

mentre la parte inferiore
accoglie le scorie
e le nientifica come neve al sole

e nell'abisso cadranno anche le stelle
quando finirà la sua forza
il moto che le spinge e tira


***

Il tempo del trapasso

Cosa muore quando un uomo
saluta e se ne va
o se ne va senza neanche salutare
perché non ha la forza o il tempo
di guardare al futuro
né al presente?

se ne va portando nell'ombra che l'involge
un sogno che svanisce
o il senso annullato delle cose

ma forse davvero il tempo del trapasso
è un attimo
un attimo che arriva sempre in anticipo
e lascia nell'aria
un senso di sospensione che stordisce


***

Il senso della vita

Come le stelle deflagrano
e polvere e luce disperdono
nello spazio vuoto
così partiremo da questo luogo
verso un orizzonte che sa
di buio e di nulla

non ci resta che dare un senso
a questo segmento di vita
che s'accorcia giorno per giorno
ora per ora
momento per momento

io ci riesco
perciò non ho paura
né timore
di contare le stelle
ogni sera


***

Il poeta
(Ad Arthur Rimbaud)

Una volta dicevo
"mai un poeta
  riuscirà a dire
  quanto è grande il mondo"

ora dico
"mai il mondo
  riuscirà a ripetere
  ciò che ha visto un poeta"

Il terzo occhio
sprofonda nei punti più lontani delle cose
navigando finanche
nelle oscure profondità del buio


***

Chi lo sa?

Alla fin dei conti
nessuno può dire
di essere penetrato
nelle oscure profondità
delle cose della vita

abitiamo per anni
nella casa della nostra esistenza
o
come dice il filosofo
nella casa dell'essere
e quando con la valigia pronta
piena di certezze
partiamo diretti al solo
vero infinito che conosco
allora cade il velo dalla nostra mente
e il tutto ci disvela
: non abbiamo penetrato delle cose
  il seme più interno
  e inesplorabile

chi sa dire perché e come
all'improvviso
parte il destino incomprensibile di un seme?

Raffaele Urraro, "Il lato oscuro delle cose", RPlibri

Raffaele Urraro è nato a San Giuseppe Vesuviano (Napoli), dove tuttora vive ed opera. È poeta, scrittore, saggista, critico letterario. Dopo aver insegnato italiano e latino nei Licei, ora si dedica esclusivamente al lavoro letterario.
Ha pubblicato numerosi libri di poesia, tra i quali, ultimamente, Ero il ragazzo scalzo nel cortile, Marcus Edizioni, Napoli 2011; La parola incolpevole, Marcus Edizioni, Napoli 2014; Bereshit – In principio, Marcus Edizioni, Napoli, 2017.
Tra le pubblicazioni di saggistica ricordiamo La fabbrica della parola – Studi di poetologia, Manni Editore, 2011; Giacomo Leopardi: le donne, gli amori, Olschki Editore, Firenze, 2008; Questa maledetta vita – Il romanzo autobiografico di Giacomo Leopardi, Olschki Editore, Firenze, 2015; Le forme della poesia – Saggi critici, La Vita felice, Milano, 2015.

Ha pubblicato inoltre opere di cultura popolare e, in collaborazione con Giuseppe Casillo, molte antologie di classici latini per il triennio delle Scuole Superiori (Loffredo, Napoli) e la Storia della Letteratura Latina (Bulgarini, Firenze).


sabato 2 novembre 2019

La schiettezza del dire poetico in "La venatura della viola" di Rita Pacilio


La viola, o la classica violetta, è (o almeno lo fu!) il fiore simbolo del ricordo, del pensiero nostalgico di un amore vissuto intensamente e a volte platonicamente nei tempi andati della gioventù: veniva messo tra le pagine di un diario o di un libro, e lasciato lì ad appassire a testimonianza di quel sentimento forte e palpitante che aveva illuminato quei giorni lontani e ora sciupato dal fluire inesorabile del tempo!
E dunque, cosa spinge la nostra brava autrice de La venatura della viola a riferirsi, in questa sua recente e pregevole raccolta poetica, al tradizionale fiore che ha emozionato tanti giovani, e non solo, nel ripercorrere le loro storie sentimentali? Senza dubbio la delicatezza, a mio parere, e poi la genuinità, l'autenticità e aggiungerei la purezza e l'innocenza che caratterizzano l'essenza della natura, dei fiori e in particolare della viola.
Un progetto poetico che voglia essere originale, che abbia delle buone, anzi ottime basi filosofiche per offrire una chiave di lettura importante e preziosa sui perché della società, della storia, dell'umanità, della propria esistenza, non può prescindere da un'attenta osservazione dell'interno di sé e di ciò che è all'esterno tutt'intorno; ma un'osservazione che deve essere supportata non solo dalla propria sensibilità e dalla propria inclinazione artistica e creativa, bensì anche dalla lunga formazione, studio pertinace, ricerca, confronto, approfondimento ed esperienza che donano alla creazione artistica, e nella fattispecie alla produzione poetica, quel valore e quella valenza, quello spessore qualitativo che sempre devono connotare l'opera, altrimenti da relegare nel vasto mare delle cose meramente graziose, ma piatte, retoriche, ovvie e senza alcuna illuminata novità!
Tutta questa lunga parentesi, per confermare, in questa recente pubblicazione di Rita Pacilio, come del resto anche nelle sue precedenti, quell'impronta di grande valore letterario e poetico che permea tutta la sua raccolta. Perché è importante il dire, in poesia, ma è ancora più importante come lo si dice, la forma espressiva che sia propria, unica, originale, e che solleciti e coinvolga il lettore. Come deve esserlo una vera e propria opera d'arte. E c'è tutto questo nelle opere d'arte letterarie di Rita Pacilio, la quale senza dubbio si discosta e si innalza rispetto ad un mondo ormai vasto di scritture poetiche certamente encomiabili per l'intenzione e lo sforzo creativo, ma sovente scarsamente valide per il messaggio innovativo, per la capacità di interessare il lettore e per la appena sufficiente qualità letteraria dell'intera raccolta.
Orbene, l'intuizione poetica di Rita Pacilio, specie in questa sua opera, è illuminata e supportata da un dire immediato, schietto, da un riferirsi costante alle cose di tutti i giorni, ai sentimenti e alle relazioni nella famiglia e nella società. Da attenta osservatrice, anche delle minime cose, come dicevamo prima, Rita Pacilio affronta la denuncia delle malvagità e delle ingiustizie in tutti gli ambiti, dal sociale al familiare e poi anche nella storia del mondo, in una natura graffiata e offesa dall'operato di un uomo indifferente ed egoista. Ma è importante il dirlo con efficacia e con stile, specie in poesia, e quindi con un lessico potente nella sua chiarezza, coinvolgente nella sua capacità di giungere e di "suonare" direttamente nell'animo del lettore. Del resto la stessa autrice, nella sua Lettera al lettore, con la quale introduce la raccolta, afferma di maneggiare la parola poetica adatta a trovare la strada possibile da percorrere quando non ci si arrende all'incuria, all'abbandono, all'assenza, alla miseria umana.
La delicatezza, la chiarezza e l'innocenza della viola, della sua venatura, sono in fondo il simbolo dell'altra realtà, quella sognata e desiderata, quella che ci si illude che esista, oltre l'oscurità di questo mondo, provocata sovente da un uomo e da una società infingarda e bugiarda. Che la Poesia, e in particolare quella di Rita Pacilio, svolga il compito (come del resto la Cultura in genere) di mostrare il vero volto, la vera anima della natura e dell'uomo, è una delle poche cose sacre che ci redime e ci innalza. Così la poesia di Rita Pacilio, nella venatura della viola, trova la strada giusta ed efficace nel mostrare che esiste una possibilità di elevazione dalla confusione e dall'anarchia sentimentale dell'uomo, traendo spunto proprio dalla genuinità della natura, della quale la viola ne è forte e indovinato simbolo. Tutti i suoi testi poetici, nella raccolta, individuano, in modo continuo ma anche singolarmente, questo percorso-denuncia inteso ad infondere maggior consapevolezza nel cuore e nell'anima dell'uomo-lettore. All'incipit, costituito dal primo verso in corsivo, a mo' di titolo, non sussegue il consueto intervallo di righi bianchi ma direttamente il corpo della poesia: Rita Pacilio non vuole disperdersi e non vuole disperdere, ha urgenza di dire, delicatamente ma con fermezza, e con un dettato poetico elevatissimo, la sua visione complessiva delle cose e dell'uomo; ed è questa un'intuizione magnifica che ancora una volta denota la grande esperienza e la profonda conoscenza delle varie forme e stili poetici da parte della nostra Autrice.
Avranno modo di confermare quanto detto, i nostri amici lettori, e di aggiungere altre gradite riflessioni e commenti, leggendo i brani proposti qui di seguito, tratti da "La venatura della viola", di Rita Pacilio, Giuliano Ladolfi Editore.




A un tiro di fune…

Questo istante indimostrato è un punto
smosso dai nostri piedi soldati
ordinati come soprammobili bianco grigio
e tempesta.
Non giubila il frullatore
né il timbro compiuto dell'acqua nel bicchiere.
Al valzer di guerra sulle statuine
fa da sottofondo la polvere.
Lingue rinserrate tra i quadretti del foglio
obbediscono ai ghirigori
per questo motivo giuriamo di traboccare
nello sforzo mantenendo la solita postura
il collo inclinato
i sospiri dietro il naso che tira su
gli occhi voltati.


***

Il mondo è un corpo devastato
ha l'erba secca per il troppo pianto
è steso di fianco senza parole in bocca
alle dita manca il segno della pace,
si avverte il lamento del lupo in agonia
la neve permanente morire piano, piano.
Qualcuno dice non puoi farci niente
rassegnati al timbro del frastuono,
allora coglierò tutte le viole
le terrò insieme come faceva nonna
adornerò capelli scombinati
e
abbandonata alla saggezza del necessario
sarò povera delle solite cose.


***

Quando mi avrai perdonata
tornerà il pensiero alle violette
tutte insieme pronunceranno
il mio nome perfetto ad alta voce.
Ci apparirà intatto il muschio sulla porta,
il voto fatto a vent'anni,
i figli neonati nella culla.
Impareremo a parlarci di più
a dire sognami ancora.
Ci toglieremo le scarpe e il disappunto.
La contentezza griderà:
dammi un pegno, dammi un pegno.


***

Devi farti sottile per rimanere
effettiva presenza, erba primaverile
in questa fitta foresta dell'autunno.
Cancellare la replica dei baci
ogni euforia e partire per altri
continenti. Così perdonerei la qualità
dell'ignoto, la reggenza traballante
rubata alla candela profumata
poggiata tra il mondo e i suoi significati
ringraziare le venature della viola
in attesa di sbrindellare l'amaro del viaggio.
Devi prendere in prestito la parola dell'addio
sottoscrivere la paura che il mare ha un altro cielo
e poi
rimanere l'alone dell'abito steso al sole
una vaga macchia e basta.


*** 

Quella venatura della viola
è già compiuta nella tonalità
il batticuore che guarda in alto
guizzo estremo e gentile
senza disperazione.
Sapevamo di essere sorretti
dal mutismo delle cose
per questo è possibile dilatare la retina
abbandonarci alle strisce della penombra
sperare di non cadere presto.


*** 

Una viola rafferma in forma spettrale
distante dalla terra fiorita
mi ha confessato il modo per resistere
il suo spirito ha una coscienza quieta
intenta a trasformarsi chissà come
per il piacere di essere stata vista
questo ringraziare perdura
e in attesa di parlare con te
la tengo in mano fino alla prossima neve.


***

Qualcosa di troppo accresce
l'orgoglio e la colpa di essere nati qui
in questo garbuglio di allarmi profondi
dove porti in rovina e chiusi come porte
rendono l'acqua inutile e il tramonto povero
se esistesse l'origine di una parola
dovremmo baciare la sabbia e le conchiglie
farlo in segreto, silenziosamente
tracciare una virgola dopo l'apparenza
allargarci sul gambo come fa la viola.


Rita PacilioLa venatura della viola, Giuliano Ladolfi Editore, 2019

Rita Pacilio è nata a Benevento, vive a San Giorgio del Sannio (Bn). Poetessa, scrittrice, collaboratrice editoriale, sociologa, mediatrice familiare, si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro, di letteratura per l'infanzia e di vocal jazz. Curatrice di lavori antologici, editing, lettura/valutazione di testi poetici e brevi saggi, dirige per La Vita Felice la selezione Opera prima. Direttrice del Marchio Editoriale RPlibri, è presidente dell'Associazione Arte e Saperi. Ha ideato e coordina il Festival della Poesia nella Cortesia di San Giorgio del Sannio.

Autrice di numerosissime pubblicazioni, tra le quali, recentemente, le raccolte poetiche Quel grido raggrumato (La Vita Felice, 2014), Il suono per obbedienza – poesie sul jazz (Marco Saya, 2015), e Prima di andare (La Vita Felice, 2016); e per la narrativa: Non camminare scalzo (Edilet Edilazio Letteraria, 2011), mentre La principessa con i baffi (Scuderi Edizioni, 2015) è la sua fiaba per bambini.
È stata tradotta in greco, in romeno, in francese, in arabo, in inglese, in spagnolo, in catalano, in georgiano, in napoletano.
A marzo 2018 la pubblicazione dei racconti in prosa poetica: L'amore casomai (La Vita Felice).


martedì 1 ottobre 2019

L'immediatezza poetica di Francesca Coppola in "Non togliermi il vestito"


Se il titolo di una raccolta di poesie deve dare subito l'idea di quanto l'autore intenda comunicare, ma in modo immediato e singolare, questo "Non togliermi il vestito", della giovane poetessa napoletana Francesca Coppola, supera senz'altro ogni aspettativa, spiazzando ma anche incuriosendo il lettore che voglia, finalmente, gustare e approfondire un po' di buona poesia al di fuori degli usuali schemi classici. LietoColle è peraltro un Editore serio, che accoglie nelle sue varie collane, in particolar modo la "gialla" e la "gialla oro", autori di spicco dell'attuale panorama poetico italiano, dando visibilità anche a giovani emergenti come lo è, appunto, la nostra Francesca Coppola.
Ma torniamo al libro. Il titolo, audace ed esplicativo, come dicevamo prima vuole già fornirci una buona chiave di lettura. che si concentra essenzialmente nel testo omonimo "Non togliermi il vestito".  Traspare, in questa composizione ma anche in molte altre, un senso di riscossa, conseguente ad una visione amara della realtà, supportata però da una buona dose di ironia. L'autrice vuole mantenere la sua identità integra, di fronte alla quotidianità e alla storia della vita che si dipana tra mille impegni e incombenze, a volte anche futili; e questa visione si evidenzia anche attraverso un linguaggio espositivo minimalista, che sta ad indicare, da parte della nostra brava autrice, la volontà di quella "riscossa", di quella riconquista della dignità e della persona, insita nei suoi versi.
Una consapevolezza del dolore del mondo che può mitigarsi solo attraverso l'accettazione stoica delle parti assegnati a ciascuno nel teatro della vita: l'osservazione attenta, stando "fermi al centro" delle cose, quasi indifferenti a ciò che accade fuori, conservando e proteggendo l'integrità intima, il proprio bene, il proprio "tesoro dei Maya", per poter poi "risorgere", sbloccarsi e ripartire, aprirsi indenni al cielo. Questo, il nocciolo del discorso poetico di Francesca Coppola, a mio avviso; uno schema poetico ben preciso, delineato sull'attesa dell'essenzialità, in cui il "vestito" da non togliere rappresenta quell'integrità della persona, anima e cuore, capace di intravedere il vero senso della vita oltre la banalità delle cose, minime e abitudinarie, che ci appesantiscono.
Un elemento importante della poesia di Francesca Coppola, almeno in questa sua raccolta, è l'uso sapiente delle parole in un gioco fantasmagorico di suoni e di interconnessioni, di salti e di rimandi davvero arditi, a volte, e che contribuiscono a vivificare l'immagine che scaturisce forte dalla lettura dei versi. Versi che si susseguono per lo più in quartine sfalsate tra di loro, il che rende la composizione ancor più elegante e gradevole dal punto di vista figurativo ed estetico.
Francesca Coppola dimostra con questa sua opera di avere un ottimo talento poetico, distinguendosi per il suo stile e per il suo dettato poetico dai toni decisi e sorprendenti: una poesia che coinvolge e che induce ad ulteriori riflessioni. Riflessioni ed eventuali commenti che ci aspettiamo, ancora una volta, dai nostri cari lettori dopo aver letto i testi che qui di seguito proponiamo.


Fermi al centro


il centro è dolore, arteria
poi niente, bufala e squallore
questo eleggersi smeraldo a fine giornata

tutto qui, il tesoro dei Maya
dire “Ciao” al solito passante
destinare l’immenso ai fiori

risorgerai, lo so
proprio dalle mie parti
– volevo le tue paure –

ti faccio vedere come muore
un airone,
tu come stai?


*** 

In nome di un’assenza

metti un giorno senza l’ombra
tutto afa e genziana
senza i lasciti a mani di sera

e una macchia poi alla mattina
di quante scatole ferme a marcire
e i sorrisi aspettano ancora di sapere

se i mari hanno bisbigliato promesse
e se tu hai preferito scambiare le carte
bello stringere assi e sentirsi invincibile

poi ritirarsi come statua a piangere
aver più di vent’anni e scordarsi
di srotolare le maniche


***

Non togliermi il vestito

avrei voluto solo vivere un po’ di più
ieri in giardino, dietro una formica stesa al sole
godermi la terra delle isole vergini
e non girare splendidi asfalti lastricati di code chiuse

avrei scelto l’inquadratura migliore
se solo avessi potuto evitare il faro in stand by

scoprire i monti e per una volta non ostacolarli

capire le altitudini per le diverse generazioni
e non scrivere l’imbarazzo, pentirsi del risveglio

Il folle vira sempre ad est
l’I–phone come identità speculare
il grazie in tutta fretta
e non mi guardare, ti prego


*** 

Vita

quante volte lì ad ispirarmi ai tuoi occhi
quel colore che neanche miscelando
il segreto dei goblin puoi respirare

io l’ho promesso sai quando ancora
nel grembo materno ho voluto fiducia
come la più testarda delle vittorie

mentre soffocavo quel desiderio
spostavo il limite: tua sorella/tua amica
indossavo le scarpe basse per non dolere i tempi

e un peso sul davanti – sipario aperto
di burattini – io e il camicione, tu
col pianto dell’attesa, pronto a esplodere vita


***

E perché nella parola odio, compare dio nel finale?

mi sorprese più d’una mano che sfiora l’oblio
un tuffo nei viadotti più ripidi
la sensazione di scuotere la marmaglia
e costringere le redini al mio cospetto

perché l’odio conosce prima l’amore?
poi si accuccia stretto fra i seni

odio che non è amore, ma compare dio nel finale
come attore non protagonista e pare
un’invocazione a non lasciarsi trasportare
da un fiume che ha il sapore di una madre


 ***

Come poesia

sa aprire bocche senza riuscire mai
a riempirle, lei che spia gli ingressi
conta gli aghi riposti male nel cassetto
mi prende in contropiede anche quando
non ho voglia di uscire

lei non indossa l’abito lucido e rifugge
lo scorrere implacabile, si aggira nuda
in una stanza vuota e dietro l’armadio
l’ennesima speranza non accetta il muro

solo lei mi disprezza ma ritorna
non si convince e straripa in rabbia
mi ragiona sul comò – senza propositi –
insolita storia di rulli ed emozioni,
lei che non esiste se non in un manto di dolori


***

Qualcuno diceva

qualcuno diceva che è
il dolore
a dirci che siamo reali

la felicità è un gioco
talmente imprevedibile da assomigliare
di più ad una visione

il nervoso/ansia/impazienza
ci sosta su un confine
posto da messaggeri e demoni

è che la tristezza mi punge
da vivo
– non può farlo da morto –

Testi poetici tratti dal libro "Non togliermi il vestito", di Francesca Coppola, LietoColle, 2017

Francesca Coppola è nata a San Giorgio a Cremano nel 1982. Si è laureata in Cultura e amministrazione dei beni culturali alla Federico II di Napoli, città nella quale ora risiede.
La sua opera prima è Non togliermi il vestito, raccolta di poesie edita da LietoColle, 2017.
Ha vinto il concorso Pensare scrivere amare nel 2017.  Nello stesso anno è stata inserita, in qualità di finalista del concorso nazionale di poesia ermetica, nella ambiziosa agenda Nuovi poeti ermetici 2017, Book Sprint edizioni. È stata selezionata in diverse edizioni del poetico diario Il Segreto delle Fragole. È stata inoltre segnalata al Premio Internazionale di poesia Piero Alinari nel 2011 e, nello stesso anno, al Concorso nazionale di poesia Città di Sant’Anastasia. Suoi testi sono stati pubblicati sulla rivista Italian Poetry Review e numerose sono le sue partecipazioni in antologie letterarie di prestigio. Ha fatto parte della redazione dei Giovin/astri di Kolibris.
In uscita per Esemble la sua seconda raccolta poetica, Ultimatum dall’inverno.





martedì 24 settembre 2019

Federica Giordano: "La luna è un osso secco"


Con grande piacere riproponiamo i versi recenti di una giovane poetessa napoletana che ha sicuramente raggiunto vette molto alte in questo spigoloso ambito letterario, distinguendosi per la sua determinazione, per i suoi studi, per le sue puntuali traduzioni dal tedesco, e per la sua particolare e originale fisionomia poetica. Parliamo di Federica Giordano, della quale alcune sue poesie furono già pubblicate su questo Blog nel lontano 2012, quando lei era ancora agli inizi ma già il suo timbro poetico si annunciava forte e deciso, e il suo impegno letterario intenso e proficuo (http://transitipoetici.blogspot.com/2012/07/musica-e-poesia-nei-versi-di-federica.html).
La luna è un osso secco: già il titolo di questa sua recente raccolta, edita da Marco Saya, Editore che non ci stancheremo mai di elogiare per la sua alta professionalità e competenza nelle scelte degli autori, dà un'idea della notevole capacità di Federica nel riassumere, in modo laconico e allusivo, come è giusto che indichi un buon titolo, il suo programma, il suo intendimento poetico: giacché una buona raccolta di versi non è mai composta a caso, prendendo corpi poetici qua e là, disseminati sulla scrivania e anche nel tempo, bensì deve avere il classico filo conduttore, quel quid che possa alla fine lasciare il lettore soddisfatto per aver appreso, tramite tutto il libro e non attraverso una sola semplice poesia, un senso compiuto, una costruzione, un'idea, anche filosofica, che possa fare propria, che possa condividere e che possa suscitargli qualche emozione intensa. Altrimenti il libro, la poesia, resterebbe opaco, asciutto, limitato.
Orbene, cosa fa risaltare questo titolo, quale sentiero, o strada, o viaggio, o idea, vuole proporci Federica donandoci queste poesie, in modo più o meno palese, o piuttosto in modo più o meno obliquo, se non sotterraneo?... La poesia, forse, non è da tutti e non è per tutti: se i versi fossero chiari, propositivi, aperti, resterebbe solo il gusto di una mera emozione; ma la poesia, la vera poesia, è scavo senza fondo, è ricerca senza risposte, è viaggio senza ritorno: bisogna farsi accompagnare dal poeta senza remore, senza se e senza ma, abbandonarsi allo spessore delle sue parole, ascoltare bene il suo silenzio, ascoltare quello che c'è dietro, sotto e sopra la sua costruzione poetica. La poesia non è per tutti. Federica Giordano lo sa, ne è consapevole, e per questo la sua grande intuizione produce l'effetto desiderato. Vediamo di ricavarne qualche minima indicazione, qualche piccolo dettaglio.
C'è un qualcosa che allude all'uomo, alla società, che si perde irrimediabilmente nella sua mera fisicità, materialità, se non addirittura nella sua malvagità, nei versi di questa raccolta. L'essenzialità, direi la "secchezza" delle cose, del mondo, mette a nudo l'"osso" del creato, deturpato e spogliato da ogni velleità di amore, di comprensione e di pietà: "L'innocenza non viene riconosciuta – asserisce Federica a pag. 30 – / Sulla testa la luna è un osso secco. / Gli astri bruciano da noi / sempre più lontani". Non è rassegnazione, non è distacco né lontananza, il canto poetico di Federica, bensì il severo osservare in profondità lo stato delle cose e della società odierna, scrutandole fino in fondo con la sua grande sensibilità, e la poesia, la sua poesia, diventa strumento efficace di descrizione, parola icastica capace di suscitare in tutti noi la realtà di un mondo disgregato, asciutto, secco, ma pur sempre aperto alla luce della speranza, specialmente quando la nostra poetessa si rivolge agli affetti amicali e familiari: "Ben oltre te e me, / più lontana dal nostro sangue, / sta alta come un faro, / la quiete della stella fissa" (pag. 29). E ancora: "Tutto ciò che vorrei dire è in quello strappo. / Ci si arriva all'improvviso, uno spazio ebbro. / Sai che dovrò morire e tu potrai guardarmi. / Ti si anticipa nel fiato d'infante il petto di madre / e io mi sento tanto consolata…" ("L'abbraccio della figlia", pag. 18).
Del resto anche Mario Fresa, nella sua attenta e dettagliata postfazione, ritrova nella poesia di Federica Giordano un impeto incontenibile a tenere insieme le forze dell'esaltazione e della perdita… dell'accumulazione e della deflagrazione: si tratta della consapevolezza, da parte della nostra brava autrice, di vivere in un continuo stato di precarietà, di pericoloso equilibrio, dove sovente è probabile la "caduta" e la "perdita" nel gran mare omologante che tutto vanifica e rende indifferente, frustrante, fino all'osso, fino alla consumazione del tempo: "Il tempo è un volto che invecchia, / mai interrompendo il lavoro. / Deformandosi, si allontana anni luce / dalla prima sua fattezza…" (pag. 14). Ma ecco, nel contempo, la speranza: "La ruga corre profonda nella carne del mondo. / Il tempo nelle mani dei poeti sgorga a fiotti da quel solco. / Siamo qui, accucciati in una valva, / cercando la curvatura magica / che dà i natali al cerchio" (pag. 26).
Anche Vanina Zaccaria, nella sua interessante nota in appendice, individua nei versi della Giordano una sorta di equilibrio nel conflitto insanabile degli opposti… un equilibrio che non è armonia ma coscienza esatta delle meccaniche che pervadono lo spazio-mondo…; dice infatti ancora la Giordano: "Mentre noi abitiamo le nostre gabbie quotidiane, / prepotente l'esistenza fa una rivoluzione: / continua ad essere dov'è…" (pag 9).
Poesie dunque che si susseguono interlacciate una all'altra, a dire le cose mostrando i diversi reconditi risvolti di quest'equilibrio precario e ineludibile: giacché la vita e il tempo del nostro mondo hanno perso spessore e lucentezza; sono diventati "ossi secchi".
Proponiamo qui di seguito alcune poesie tratte dal libro di Federica Giordano, affinché i nostri cari lettori possano aggiungere, se lo vorranno, altre interessanti e gradite riflessioni.


1


Gli oceani intonano distanze sopra il fuoco
e le lontananze asiatiche cambiano la mente.
Gli uomini camminano, si parlano, si annientano:
un animale deforme con milioni di teste
che fa confusione e che sporca e che si fustiga da solo.
Invece nel verso dell'orso polare resta una pietà
dopo che ha macchiato di un sacrificio rosso
la santità del ghiaccio.


6

Mentre guardo il nostro porto,
col monte che custodisce una paura antica,
su noi tutti aleggia un colosso
assente e osservatore.

Gli dimostriamo esaltati
che l'uomo è capace di ogni cosa.
Quando lo attacchiamo, una bestia in noi ride.

Intanto in Irpinia, sotto una felce,
si ripara la spora dal moscerino,
innocua navicella da guerra.


8

Il tempo è un volto che invecchia,
mai interrompendo il lavoro.
Deformandosi, si allontana anni luce
dalla prima sua fattezza.
Infinitamente si allontana
ma conserva un appiglio di costanza,
qualcosa che lo rende riconoscibile e fido,
un'illusione di comprensione
e di anticipo sul futuro.
Ma repentinamente, quel volto riserva espressioni
che non si lasciavano presagire
e amaramente l'uomo, senza merito e tardi,
le comprende.
La maschera del vecchio
era già piazzata sul bambino
come un accampamento che attende.


13

Il sonno dei figli è un'apnea,
una resurrezione momentanea di chi si era.
Per poco il cumulonembo annidato sulla fronte
come in una valle bassa
si dirada
e la vista si riammala di quella cecità tanto adatta a vivere.
I giorni erano stati, una volta, leggeri come aquiloni.
Si torna indietro e sembra di riavere quella dote misteriosa
che è solo il poco tempo, il non aver fatto della carne
materia da banchetto, non aver premuto fuori una creatura
come un precisissimo macchinario.
Chi si era resta lì a guardarci da un punto
sempre più lontano, dallo spioncino chiuso degli occhi
dei figli quando dormono.


17

Mi chiedo dove finisca il silenzio
che mi regna in casa quando taccio.
Dove sia il suo perimetro e dove
le sue porte.
Provando ad abitare casa nostra,
noi, i grandi assenti,
viviamo di lacerti e dei richiami
indecifrabili delle nostre cose.
La tenda esibisce un'immobilità di marmo.


24

L'innocenza non viene riconosciuta.
Sulla testa la luna è un osso secco.
Gli astri bruciano da noi
sempre più lontani.


32

La parola perfetta è il canto del gallo
a dire che il giorno
è il torso della mela che non mangiammo.
La voce lancinante che proviene dagli ovili
solo i morti la intendono.


Testi poetici tratti da "La luna è un osso secco", di Federica Giordano, Marco Saya Edizioni; nota di Vanina Zaccaria, postfazione di Mario Fresa.


Federica Giordano è nata a Napoli nel 1989. Si è laureata con 110 e lode in letteratura tedesca.

Ha curato per la nota rivista Poesia un servizio sulla raccolta "Porcellana – Poema sulla distruzione della mia città" di Durs Grünbein, con un'ampia sezione di testi in traduzione.
Ha curato la sottotitolazione dei lungometraggi di Cynthia Baett: "Cycling the frame" e "The invisible frame", presentati nell'ambito delle rassegne cinematografiche del Goethe Institut di Napoli.
Una selezione di sue poesie inedite è stata pubblicata nel numero di novembre 2016 di Poesia.
Si occupa di critica letteraria e collabora a varie riviste italiane tra le quali Nuovi Argomenti e Poesia di Crocetti.
Dal 2019 è tra i collaboratori del blog di poesia della RAI, sul sito di Rainews curato da Luigia Sorrentino.
La sua raccolta di poesie "Utopia Fuggiasca" (Marco Saya Editore, 2016), ha vinto il Premio italo-russo "Bella Achmadulina"  (2017), sezione "Tonino Guerra", il Premio "L'Iguana" (2017) ed inoltre il premio speciale alla XV edizione 2017 del Premio Nazionale di Poesia "Città di Sant'Anastasia". Ha ricevuto inoltre la menzione di merito al Premio Lorenzo Montano e la menzione speciale al Premio Frascati.
La silloge inedita "Una Suite dell'Innocenza" è stata pubblicata sulla rivista Gradiva nr. 53 con un commento critico di Mario Fresa.


domenica 15 settembre 2019

Le "Trincee di nuvole e d'ombre" di Marzia Spinelli


"Le ombre in trincea sotto nubi / dalle mutevoli forme: le guardano / a tratti, quale presagio di quel che accade / a terra". Sono i primi versi della lirica con la quale Marzia Spinelli ci invita a seguirla nel suo mondo poetico fatto di "trincee di nuvole e d'ombre", come ci suggerisce il titolo stesso di questo suo gradevolissimo libro, edito da Marco Saya, uno dei pochi editori che pone molta cura e attenzione a lavori poetici di indiscussa qualità letteraria.
Trincee di nuvole e d'ombre vuol dunque essere un viaggio, un itinerario ben progettato e ispirato, attraverso mondi che apparentemente sono separati, divisi da un diaframma che non è del tutto definito e neanche fisicamente individuabile: sono trincee, solchi protettivi che l'uomo si costruisce a sua misura, quasi per ricoverarsi e per difendersi dalle grandezze smisurate, direi infinite, che lo sovrastano inducendogli timore, ansia, sperdimento, perché al di là del conosciuto, del razionale: sopra le trincee le nubi dalle mutevoli forme, e tutti lì in attesa di qualcosa che si compia, attenti, guardinghi, tremando per quel che potrà accadere a terra, per quel che potrà precipitare a terra e nei ricoveri dell'uomo.
La trincea è dunque un po' come il muretto invalicabile del primo Montale: "E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com'è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia". O se vogliamo alla "siepe" del Leopardi, mirando oltre la quale "il cor si spaura".
Ma le "trincee" di Marzia Spinelli non sono dei luoghi completamente chiusi, o per meglio dire, metaforicamente, degli stati d'animo eccessivamente e negativamente ottenebrati e riavvolti in sé, rassegnati ad un isolamento unicamente introspettivo, un dichiararsi fuori dai giochi: sovente la ridondanza dei fatti esterni a noi, il loro susseguirsi repentino che non lascia il tempo per "metabolizzarli" nel modo più sereno e consapevole possibile, ci lascia amareggiati e avviliti, ci induce a quel ripiegamento in noi stessi per non "vedere" e non "sentire" le enormità, nel bene e nel male, del mondo di fuori, il mondo che sta al di là del muretto, della siepe, della trincea che ci siamo costruiti. Vediamo le "nuvole", le "ombre", al di là, sperando che passino, che il "presagio" negativo si annulli sulla nostra terra, nella nostra anima.
E dunque c'è, nelle poesie di Marzia Spinelli, questo spiraglio, questa luce, questa speranza. Una trincea non chiusa al di sopra completamente, come dicevamo, ma aperta verso il cielo, verso i colori e verso il sentimento: "Mi sovrasta un pulviscolo rosa / cui potrei un istante abituarmi, / cedere come cosa / al frantume, arrendermi / al raggio nuovo, a una benefica polvere / Potrei (…) rinnegarli tutti / i fantasmi".
Cosa occorre ancora per far sì che le trincee diventino in qualche modo officine, laboratori di vita e di esperienze, crogioli per nuove ascese verticali in direzione del libero cielo e delle libere nubi? Qui il progetto di Marzia Spinelli si illumina ancora di più, acquista un significato quasi escatologico, una densità e una proprietà comunicativa portentose: è la parola, la parola poetica degli stessi Poeti, che lavorando nel "chiuso delle trincee quotidiane", costruiscono il senso e l'essenza delle cose del mondo e dell'universo intero, umanità compresa. "La Poesia è un vento, / si spande sulla terra e la solleva. / Mette radici passo a passo. / E tra peso e aria / fingiamo l'eternità." Ecco il senso, la speranza, l'illusione costruttiva, il sogno: tra peso (cioè materialità e fisicità) e aria (cioè levità, libertà, apertura all'infinito…) noi fingiamo l'eternità, cioè ci ricostruiamo il sogno e la speranza, il distacco verso il trascendente, ci rimettiamo in gioco.
Ottimo e singolare progetto poetico, questo di Marzia Spinelli in "Trincea di nuvole e d'ombre", un libro che va letto e meditato per il suo spessore, per il suo contenuto proposto con uno stile fluido, personalissimo e gradevole. Come sempre, gli amici lettori che ci seguono, se lo vorranno, potranno esprimere ulteriori interessanti commenti in proposito.

Riportiamo quindi qui di seguito alcuni brani tratti dal libro, che offriranno lo spunto per eventuali altre gradite riflessioni al fine di ampliare le considerazioni su questa interessante raccolta poetica di Marzia Spinelli.



Le ombre in trincea sotto nubi
dalle mutevoli forme: le guardano
a tratti, quale presagio di quel che accade
a terra

dove scorrono fiumi
e tutto sgorga dall'acqua,
dove colano scorie
ingannevoli anche del cielo.

Dove tutto stagna. Zampilla.
E passa.


***

Una luce nuova

Scostati, dico all'ombra
in ascolto.
Muto e ancorato il suo calco,
vuota la sagoma che vorrei
riempire. Spostarla, peso leggero,
darle vista dei fiori
di pesco già sbocciati,
fanno strada alla luce agognata.

Mi sovrasta un pulviscolo rosa
cui potrei un istante abituarmi,
cedere come cosa
al frantume, arrendermi
al raggio nuovo, a una benefica polvere.

Potrei vincere cancellandomi
a lei con me. Rinnegarli tutti
i fantasmi.


***

Tracimiamo oggetti, carezze,
vènti che crediamo di definire

alla fine, penseremo
di aver potuto farne a meno.

Da Alpha ad Omega
tutto diviene,
s'abbraccia un momento
e già perduto.

Il dolore non è l'atomo
in caduta, ma il secondo
che precede,
l'ora d'indicibile chiarezza.


***

Passato il temporale

Vaneggiano le nuvole passato il temporale.
Non sanno dove andare, come noi
dopo tempeste che smantellano.
Le guardano i bambini, disegnando
elfi, giganti, orsi, castelli…
non pensano a quando saranno vecchi.
Assorbono la luce della nebulosa che evapora,
quasi sapessero
quanto sarà provvido l'arcobaleno.


***

Metto in piedi la giornata
così come viene, come mettere in moto
l'automobile o innestare nel corpo
qualche vitamina. Delle nuvole allineo
il peso, l'improbabile sorriso,
la smorfia un po' beffarda, specchiata.

Mi alleno alla regola
della sveglia, al fine settimana,
al culto delle pulizie. Mi abituo
al polline, alla goccia che cola.
Mi premuro alla pioggia. All'odore
crudele che promette Primavera.


 ***

Passa l'Angelo

Vedi, ogni trincea si fa occasione.
Non ci abbandona l'Angelo
evocato ogni mattina per timore:
sa di essere consolazione
e non chiede altro. Lo rinnego
quando troppi sono i morti,
troppo ingiuste le perdite.

Sembra svanisca per qualche tempo,
irreperibile e dissolto riappare
quando ormai lo credo nell'oblio
lontano, a ingaggiare una lotta bizzarra,
guerra e pace solo nostra:
ci spendiamo in promesse,
cediamo, concordi assestiamo.

Così la trincea si fa più dolce.
E di nuovo aspra. Lui resiste
con luce insolita, aura bislacca…
Invece è più sensata, verosimile
la piuma di pace.


***

La Poesia è un vento,
si spande sulla terra e la solleva.
Mette radici passo a passo.
E tra peso e aria
fingiamo l'eternità.


***

Prima di uccidere i Poeti
dovranno scalfire le stelle
il suolo e l'aere dei Tempi
i bagliori e le rivoluzioni
e pestare le parole
i versi morti
fatti di luce e di sensi
e tutti i Miti che hanno nove vite
l'insieme di atomi e neutrini
che hanno fatto epoca.


Marzia Spinelli, "Tricea di nuvole e d'ombre", Marco Saya Edizioni, 2019; prefazione di Plinio Perilli.


Marzia Spinelli è nata a Roma, dove vive e lavora. È stata tra i fondatori e redattori della rivista Lìnfera, e nella redazione della rivista Fiori del male. Ha collaborato ad altre riviste di arte e letteratura, tra cui La botetga del restauro, Omero, Frontiera, supplemento a Gli immediati dintorni. È presente in varie antologie e suoi testi poetici sono stati commentati su riviste di critica quali Puntoacapo, Civiltà cattolica, Noi donne; alcuni sono stati tradotti e pubblicati nella rivista romena Conta. Ha pubblicato: Fare e dsfare, con nota introduttiva di Guido Oldani (Lietocolle, 2009); Nelle tue stanze, prefazione di Alberto Toni (Progetto cultura 2003, 2012); l'e-book Nel cielo dell'altro un po' più ampio, prefazione di Mario Melendez, traduzione di Emilio Coco (a cura di La Recherche, Poesia condivisa 2.0, 2014).


Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà