martedì 25 febbraio 2020

Maria Benedetta Cerro e le sue "Parole solidali"


"Nel giorno della racimolatura / parlami / con la sapienza di tutte le morti." Sono riassunti in questi tre versi di Maria Benedetta Cerro, i motivi profondi au cui si fonda, a mio avviso, il progetto poetico della nostra autrice del frusinate, almeno in questi sette brani che qui di seguito proponiamo. Il legame fondamentale tra la terra, generatrice di frutti da raccogliere, da "racimolare", con fatica ma anche con la consapevolezza della genuinità, e il sogno da lavorare, da progettare, da realizzare nell'immediato, risulta qui indissolubilmente valido e costruttivo. Si tratta di un recupero di valori fondamentali che la società moderna ha relegato in ambiti di trascurata e indolente quotidianità, sopraffatta com'è da altre incombenze più immediate e superficiali… Ma qui il discorso si potrebbe fare più lungo e articolato: la poesia non sempre è compagna del profitto e della materialità, anzi spesso ne è canto di denuncia. Quello che traspare dai versi della nostra autrice, dicevo, è questo sentimento della natura, in quanto origine della vita, intesa nel suo ciclo completo dalla nascita alla morte… È dunque una poesia che si contraddistingue per il suo anelito di autenticità, in una visione di mondo in cui sia importante, se non proprio fondamentale, l'estensione e l'integrazione della propria umanità allo spirito che sempre l'alimenta. Ed è proprio tramite i suoi versi, le sue "parole solidali", che la nostra autrice tenta, evidentemente con successo, di operare questa mediazione tra uomo cosiddetto tecnologico e uomo della terra, della natura.
I versi di Maria Benedetta Cerro sono esemplificativi in questo senso, scorrono fluidi e incisivi, diretti al cuore d'ognuno.
Invitiamo gli amici che ci seguono ad esprimere altre gradite considerazioni, dopo aver letto questi sette brani poetici della Cerro, che ringraziamo per averceli affidati.


Prologo

Le labbra che parlarono in segreto dissero le parole solidali.
Dissero il colpo d'ariete che spalancò la porpora.
Baciarono i suoni narrativi e piani del libro anteriore
cantabile e solo.


***

I

Avessimo fiori e neve fresca
alla nostra ultima morte
mancherebbe l'odore della vita
       nonostante le parole
che si ascoltano
                  che si leggono
che si offrono nude di suono.
Pagine feriali per giorni festivi
che non esistono.
Parole mentali che risuonano
                   o non risuonano.

                                                                               
***

II                                                           

Nel giorno della racimolatura
               parlami
con la sapienza di tutte le morti.
Con una sola mano
             sostienimi.
Basterà un palmo a farsi calamo
un occhio a badare al passo incerto.
Volgi il discorso pretenzioso:
con la parola semplice
      accarezzami i capelli
che parlano la lingua della cenere.    


***

III

Nel giorno della desolazione
                hai puntato l'indice.
Nel dizionario dei tempi
nell'alfabeto degli ossi senza nome
con lo spillo del grido
                      hai fissato le mie ore.
Nel buio delle radici
le guarnigioni balenanti degli affetti
le talpe nascondine
                     dei perfetti amici
mi hanno fatto polvere.
Ed ora non ho più tempo
di inseguire parole ancora generanti
          – ora sono altro -  
Nel tardi spalancato
ho un alloggio stretto.                                                   


*** 

IV

Ci sono elementi/ ci sono luoghi
nei quali è impossibile sostare
               ma tu rallenta
        anche per te sia tregua                                                  
Tu che sei morte onnipotente                                                                                
                      all'altro capo di Dio.                                                    
Un'ora per vagliare/ una per riprenderti
ciò che hai dato in prestito alla vita.
               Non fingerti folle
nessun calcolo è più infallibile
del tuo giungere ad arte
e far credere che sia del caso l'assalto.
                

***

V

Qualcosa all'improvviso
ci si accampa dentro
        che non è visione
che non ci fa provare meraviglia
qualcosa di violento
che scardina la nebbia dell'abitudine
e leva in alto il suo urlo d'inchiostro
il pugno che si vergogna
                                  dell'impotenza.
Il luogo dove il progetto ardeva
                 nella sua audacia
è uno specchio appannato
che vede finalmente dietro di sé
         l'inconsistente ordito.
Contro l'imperturbato nulla
             a vuoto
un dolore di guscio capovolto.


***

VI

Il mattino/ col suo incolpevole inizio
con i suoi versi ancora sigillati
prima che il cuore stremato dalla notte
eserciti il compito del fare
contempla l'aggettivo che martella
che gli si dia un nome
– una stampella di nome -                                               
che faccia il suo dovere
                        di trovarsi un verbo
e canti l'impossibile ritorno
alla vocale albeggiante
scaraventato nella vastità della nota
                       che aspetta la sua musica.



***

VII

In sogno – cara –
vedo le tue braccia polifoniche
levate alla descrizione
                     estrema del canto.
La fissità del mondo 
e la normalità rovescia delle cose
        la tradizione universa
ricacciata nel suo oscuro inferno.
Tutto il canto ibrido mi porta
con la fraternità
                 del giorno della grazia
col ripensato assedio della pena.
Dove andiamo – mi chiedo –
Già confondo il sogno col vissuto
e non so quale fuoco preferisco.
     Ché sono carta bruciata
dove ancora qualche rigo si legge
      prima della cenere
prima del poema che di me si disfa
e una sua vita acquista nell’opaco.




Maria Benedetta Cerro è nata a Pontecorvo e risiede a Castrocielo, in provincia di Frosinone.
Ha pubblicato: Licenza di viaggio (Premio pubblicazione, Edizioni dei Dioscuri 1984); Ipotesi di vita (Premio pubblicazione “Carducci – Pietrasanta”, Lacaita 1987); Nel sigillo della parola (Piovan 1991); Lettera a una pietra (Premio pubblicazione “Libero de Libero”, Confronto 1992); Il segno del gelo (Perosini 1997); Allegorie d’inverno (Manni 2003); Regalità della luce (Sciascia 2009); La congiura degli opposti (LietoColle 2012); Lo sguardo inverso (Lietocolle 2018); La soglia e l'incontro (Edizioni Eva 2018).
È presente in diverse antologie, tra cui: Poeti del Lazio, a cura di R. Pellecchia, Forum Quinta Generazione 1988; Melodie della terra, a cura di P. Perilli, Crocetti 1997; Farmaco d’Amore e Seno Amaro,Volturnia Edizioni, 2018-2019.
Interventi sulla sua poesia sono apparsi su testate giornalistiche, riviste e testi critici, quali: Frammenti di un discorso amoroso nella scrittura epistolare moderna, a cura di A. Dolfi, Bulzoni 1992; La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, a cura di M. I. Gaeta e G. Sica,  Marsilio 1995; G. Linguaglossa, Appunti critici, Edizioni Fabio Croce-Edizioni Scettro del Re 2002; La Ciociaria tra scrittori e cineasti, a cura di F. Zangrilli, Metauro 2004; Amerigo Iannacone, Nuove testimonianze. Interventi critici, Edizioni Eva, 2005; R. Pellecchia, Con le parole/Oltre le parole. Saggi di letteratura contemporanea, Metauro 2007; R. Scrivano, Letture e Lettori. Appunti di critica letteraria, Metauro 2010; R. Pellecchia, D'Annunzio musicus (ed altri saggi con appendice leopardiana), Sciascia 2018; Lettera in versi, Bomba Carta n. 69, numero dedicato, marzo 2019.

mercoledì 19 febbraio 2020

La metafora "del deserto" in Lina Salvi


Non sono mai stata per davvero in un deserto, scrive Lina Salvi nella nota al termine della sua raccolta "Del deserto", salvo alcune puntate a Petra, in Giordania, e in altri luoghi dove è possibile incontrare la civiltà beduina. Ma qui il "deserto" è prevalentemente una metafora esistenziale, una lunga e sofferta osservazione o per meglio dire riflessione, sul proprio intimo stato esistenziale. Un attraversamento del "deserto" in quanto zona di nessuno, parte neutra del mondo e della vita, dove è possibile l'espiazione ma anche la crescita di una speranza verso un confine nuovo, più realizzante e completo. Nel deserto si incontrano i morti ma anche le oasi alle quali è possibile ristorarsi e ripartire con maggiore lena ed entusiasmo. Viene subito alla mente il peregrinare per quaranta giorni e quaranta notti del Cristo nel deserto, ambiente ideale per meditazioni profonde, lontano dalla confusione e dalle distrazioni di un mondo sovente falso, superficiale, scolorito, e dove i valori hanno perso gran parte della loro consistenza e importanza.
Il "deserto" considerato in questo modo, area indifferente e impermeabile, quasi un limbo, non poteva non essere al centro di un discorso poetico che, in un certo senso, riesce anche ad armonizzare e a raccordare, pur nella sua gravità, lo stato di profondo sconforto di fronte alle cose degradate e degradanti del mondo, specie della società cosiddetta civile; e il poeta lo sa, ne è consapevole, perché vede tutto con gli occhi del cuore e trasforma l'abbandono in opera d'arte, le devastazioni in immagini salvifiche, le diavolerie e le nefandezze in versi di assoluta solarità e melodia. È compito del poeta assumersi la responsabilità di indicare e denunciare lo stato delle cose, l'uomo in tutta la sua bestialità ma anche nella sua grande umanità, adattando la sua voce, il suo canto lirico, a quello stato, innalzandolo a Poesia, miracolo della parola!
Lina Salvi è così. Lei, la poetessa, non ha bisogno di sperimentare la realtà materiale e fisica del deserto, non ha necessità di toccarlo con mano o di percorrerlo a piedi: il suo è un deserto figurato ma altrettanto plausibile ed effettivo, perché la poesia, la sua poesia, ha appunto la capacità di evocarlo, di mostrarlo nella sua piena autenticità, come fase di passaggio e di purificazione verso confini e obiettivi che rafforzino il senso da dare a questa nostra esistenza in transito.
Il deserto dunque come espiazione e recupero di verità profonde, necessarie all'io e all'umanità: "Del deserto non ho che strani fiori / esseri dai nomi impronunciabili, bacche / rare, magre, secche d'acqua, / ogni sguardo non svela presenze / tracce di incenso, accumulo, scoria / ogni indagine provvisoria." Un discorso poetico essenziale, quello di Lina Salvi, basato su testi brevi, fluidi, ricchi di allegorie.
Ne riportiamo qui di seguito alcuni, tratti appunto dal libro "Del deserto", affinché gli amici lettori che da tanto ci seguono, possano aggiungere altre gradite e interessanti riflessioni in merito.




Del deserto non ho voglia
della sua violenza calma
cavalcate ai margini del cielo,
nel deserto già ci sono:
ahlan wa salan*,
nel deserto popolato di uomini
buie città, annuvolate,
assediate di ogni specie animale,
alberi con rami tondi, bocche infuocate.
Della tundra, nel polare,
che dico? Se non quel volteggiare
in aria, terra, affondare
il piede in una zolla
del viaggiatore la sua ombra
così lunga, così distante.

* (saluto di benvenuto)


***

Del deserto l'ombra a un passo,
meglio vivere in uno stagno
montagna a scavalco per un gallo
che canta la sua immortalità, un corvo
nero svolazza sulle creste,
la sabbia muterà in tempesta,
muterà la pianura, respiro fluido
del corpo che non mente ripari:
un pioppo sul sentiero si espande,
trafitto all'ultimo sangue,
istante.


***

Dialoghetto pomeridiano

Prendo volentieri un caffè, se lo paghi tu
lasciate un messaggio, sarete richiamati,
richiamando per una lettura, una qualsiasi scusa,
una poesia per cercatori di funghi: noi dieci
per metà porcini! E tu, sei riuscita a non prendere l'acqua?
Guarderei in faccia la vita, a saperla guardare,
ogni cosa che dicevi tanto bella: quel bosco
inghiotte il respiro, mi squama la pelle,
rifiorisce in un assurdo.
E lì, nel freddo che credevo di temere, aspetto.


***

Guardo per chi non può guardare
un sentiero luminoso, offuscato,
la favola delle stelle, dei morti,
ad uno ad uno infilati tre metri
sotto terra, tre metri. Guardo
nel campo delle meraviglie un fiore
che esplode, uno stupido croco.
Sulla strada battuta dalle case,
un passo incalza in zona franca,
azzoppato.


***

Guardo per chi non può guardare
la distanza immutata, dalla gola profonda
del lago, l'inverno che non vuol morire
l'inverno, isterico tartarughino,

sul ponte inseguo una scena
della geografia cartina muta,
deserto, doppia assenza.


***

L'ultima volta che era inverno
sono andata nella strada dell'ospedale,
un grande cubo bianco, dove prima c'era un prato,
altre volte con più coraggio sono salita,
ai vari piani, a quell'ultima stanza in fondo,
per gli ammalati gravi. Sono stata in quella luce
opaca, senza mai il coraggio di entrare,
prima o poi ti avrei salutato,
con il bacio che non c'era più da darsi.


***

Non mi staccherò dalle cime granitiche,
regine, non mi staccherò dalla
finestra del Rifugio Re Alberto,
nella valle il deserto si ostina.
Non mi staccherò da ogni turbamento,
discesa sul fiume ad aspettare
che l'acqua si placasse e il vento,
il vento tutto, onda, onda d'urto.

(Testi tratti da "Del deserto", di Lina Salvi, puntoacapo Editrice, 2017; postfazione di Elio Grasso).

Lina Salvi è nata a Torre Annunziata (Napoli), attualmente vive e lavora in provincia di Lecco. In poesia ha pubblicato, oltre che su varie riviste letterarie (La Mosca di Milano, Il Segnale, Gradiva, ecc.), le seguenti raccolte: Negarsi ad una stella (DialogoLibri, Olgiate Comasco 2003, prefazione di Giampiero Neri); Abitare l'imperfetto (La Vita Felice, Milano 2007, prefazione di Gabriela Fantato, Premio Donna e Poesia 2007, finalista al Premio Baghetta 2008); Socialità (Edizioni d'If, Napoli 2007, Premio Miosotis); Dialogando con C.S. (Premio Sandro Penna 2010 per inediti, pubblicata a cura del Premio, Edizioni della Meridiana, Firenze 2011, prefazione di Elio Pecora); Lettere dal deserto, con un'incisione di F. Giudici (Fiori di Torchio, a cura del Circolo Seregn de la Memoria, Seregno 2014).

È presente in diverse rassegne antologiche, tra cui la più recente, Il Rumore delle Parole, a cura di G. Linguaglossa, Edilet, Roma 2015. Sue poesie sono state tradotte in lingua rumena e pubblicate sulla rivista Poezia di Bucarest. È vincitrice del Premio Astrolabio 2016 per la sezione inediti.


domenica 26 gennaio 2020

Il "Limite del vero" nella poesia di François Nédel Atèrre


Nella complessità di un mondo globalizzato, all'interno del quale cerchiamo di districarci tra le infinite maglie di una rete intricatissima di comunicazioni, ormai capita sovente di smarrirci e di perdere i necessari riferimenti valoriali per selezionare, vagliare, valutare, giudicare tutto ciò che ci viene proposto (o imposto), sia in immagini, sia in comunicati, sia anche più o meno indirettamente in procedure, usi, abitudini influenzanti e omologanti. In poche parole abbiamo forse perso il limite delle cose, la loro veridicità, la loro consistenza, il loro spessore. E non solo il limite delle cose, ma anche, purtroppo, la consistenza e l'importanza dell'altro, del nostro prossimo, del nostro coinquilino ma anche del nostro amico, amico che nella maggior parte dei casi è soltanto virtuale, come ormai suol dirsi, avendo perso molto di quella caratteristica emozionale e sensoriale che, nell'antichità ma anche fino a pochi decenni fa, rendeva l'amicizia vera, solida, sacra e profonda.
Francesco Terracciano, in arte François Nédel Atèrre, affronta questa caratteristica dell'uomo globalizzato e disperso, smarrito, nella sua recente raccolta poetica "Limite del vero", La Vita Felice Edizioni. Addentriamoci nel suo progetto poetico con alcune riflessioni.
La modalità poetica riesce sempre a precorrere i tempi e le epoche, quasi fosse cartina al tornasole adatta ad indicare lo stato delle cose contingenti, il pensiero e gli indirizzi socio-politici di una società in transito, quasi fosse una sorta di sentinella posta in avanguardia e capace di interpretare i segni di un futuro anteriore o di intuire come e dove si stia dirigendo l'uomo, la società.
La poesia di François ha proprio questa caratteristica: individua e circoscrive la storia esistenziale di ciascun uomo, e quindi di una società intera, la nostra attuale, entro il limite del vero, laddove per limite del vero possiamo intendere lo spazio psicologico ma anche materiale, entro il quale la confusione dei valori, il disordine morale e civile, l'opacità esistenziale, la sovrabbondanza di messaggi, possono apparire verosimili e importanti.  "Ma i libri vanno nel posto sbagliato / delle scansìe – gli amici malaccorti / mettono sempre il titolo a rovescio. / Così i rilievi all’arco del trionfo / i volti silenziosi tra le scritte / svelano a tutti l’onesta menzogna, /il sottinteso limite del vero."
Una verità non oggettiva, dunque, ma prevalentemente soggettiva. Punti di vista personali, ombrati e deviati forse da una ridondanza di comunicati e da mai verificati "sentito dire", ma presi per buoni così come l'infinita rete globalizzata ci vuole far intendere, intaccando e capovolgendo valori etici, emozioni, sentimenti, la stessa umanità.
Limite del vero è una raccolta complessa di versi in cui predomina un'anima di precarietà, una fuggevole apparenza, quasi una fretta dell'essere. L'uomo arriva in quella zona delimitata dalla propria verità, vi osserva la propria storia, la propria geografia, la propria morale, ma non vi rimane per molto: è costretto ad andare via, ad esiliarsi oltre il limite del vero, per cercare altrove spiragli di luce autentica, assoluti, che lo redimano o perlomeno che lo rassicurino.
Questo, in sintesi, il progetto poetico del nostro autore che appare evidente nella raccolta; si tratta di brani poetici compatti, bene organizzati e nei quali la misura del verso soddisfa il ritmo e la musicalità, pur mantenendo intatto il dettato essenziale dell'io narrante, preponderante quasi sempre ma necessario punto di vista da cui il lettore riceve il messaggio poetico di François, e cioè uno stare repentino all'interno delle cose, della quotidianità, un indicare di sfuggita le emozioni contingenti ma senza rimanerne compromesso, e poi un ritrarsi oltre, al di là del limite del vero.
Perché i nostri amici che ci seguono su questo spazio letterario, possano eventualmente continuare il discorso sul "limite del vero" di François Nédel Atèrre, con ulteriori graditi commenti o riflessioni in merito, riportiamo qui di seguito, come è ormai consuetudine, alcuni brani tratti dal libro.



***

Io ti ho onorato ogni giorno, il capo
chino, le spalle basse del guardiano
alla vestale, ciascun grappolo di bacche
ho cantato, vivifico e viola, nascosto
in un terreno incolto,
le foglie delle piante sconosciute,
il sole, l’ocra dei muri tra i rami,
la pioggia sull’intonaco scrostato
di vecchie case, le lance appuntite
chiuse intorno a giardini abbandonati.
Io ti ho seguito come nessun altro,
chioma ondulata delle siepi, amica
modesta, furia e vento in mezzo ai boschi,
argento e calcedonio, polsi d’oro,
àlbatra rossa buona da mangiare
lasciata ai merli ubriachi.
Io ti ho ascoltato, Musa dalle labbra
dolci e ricurve, sottili e serrate,
per ore intere al gelo dell’inverno,
occhi di brace, fianchi di conchiglia,
dita affilate tese e aperte al dono
di melograni lucidi di sangue
e datteri di miele e vino bruno.

Invocazione alla Musa

***

Che c’ero, era già noto. In calce ai righi
profondi, in mezzo all’indice dei nomi.
Nell’ora dell’eccidio, il sangue sparso
per terra, urlavo gli ordini ai soldati
o procuravo il pasto agli animali
in campi estremi, coperto di fango.
È capitato che avessi il mio ruolo,
i torti, le ragioni da imparare:
è scritto sulle pagine dei libri.
Ma i libri vanno nel posto sbagliato
delle scansìe – gli amici malaccorti
mettono sempre il titolo a rovescio.
Così i rilievi all’arco del trionfo
i volti silenziosi tra le scritte
svelano a tutti l’onesta menzogna,
il sottinteso limite del vero.
Anche la penna mi è sfuggita a volte
mentre tendevo la mano a qualcuno
come pugnale roncola o frustata
dal dorso, in senso opposto alla ferita.

Limite del vero

(dalla sezione "La strada, in quel momento")


***

Cortili è la parola, e tu sai dirla,

che rende il luogo com’era, com’è.
Manca, ma è irrilevante, una conferma.
Il marmo che non si può riparare
cede, mi appoggio ai muri con la mano.
Restare qui è fidarsi delle dita.
Porte serrate, quelle che sapevo
sopra le scale, e l’ombra ti allontana.
Grani dall’alto, è la pioggia che arriva
o è solo l’acqua caduta alle piante.
Mi accorgo, intanto, che guardare a lungo
è garantire l’esistenza in vita.

*** 

Mi dissero che c’eri. Oltre le tende
sottili, acquamarina, alzai lo sguardo.
Era già piena la strada di gente
disordinata. Un ragazzo cantava.
Niente a che fare con la neve e il vento,
il gelo sulle cime: eri in un luogo
che non ti apparteneva. Sole e segni
sui muri, anime buone di altre case.
Qualcuno volle chiederti qualcosa
che non sentivo, gli parlasti a lungo
senza interesse: era appena il valore
dato a un estraneo in mancanza di meglio.
Per pochi istanti, ti vidi arrivare.
Non ho saputo di quale animale
tu avessi il passo o trattenessi il volo.
Mi sei venuta incontro, non mi hai visto.

(dalla sezione "Il nome che ti ho dato")


***

L’ora è terribile, raggela il cuore.
C’è ancora il sole, sul vostro balcone.
Nel bosco sacro come nei giardini
pubblici, stanno riscrivendo il rito.
Soffia di più il vento, sembra che parli
(è solo una canzone, su, sta’ calmo.)
Il giovane ufficiale, il sacerdote
cancellano le formule e i registri.
Che velo aveva, era sicuro bianco?
il legno delle sedie era maturo
o scricchiolava? i grandi quadri accanto
erano alti, qualcuno li guardava?
Sui testimoni si addensa il sospetto,
le esitazioni nella voce, colpe.
Si bussa ai fianchi delle casse, è in dubbio
la buona fede di chi se n’è andato.

(dalla sezione "Una vena, un fiume")


***


Tu rimarrai, solo più spettinata

ai riccioli di qualche cornicione,
sopra l’intonaco. Il nero e il carminio
cadono un poco in alto, alle facciate.
Tra i brani delle lapidi sui muri
scritte in lingue perdute, misteriose.
Noi siamo stati a lungo qui, per strade
che all’improvviso ci sembrano estranee,
come di altra città. Tornando al centro
le nostre voci di un tempo, nell’aria
– confuse nel mattino con le grida
di gente nuova – sono solo un soffio.

(dalla sezione "La città – se c’è, se resta")


***

Ritorno. A cosa? Non lo so nemmeno
se quelli che conosco hanno altre vite
tra i denti, e non contemplano lo scarto,
l’innesto tra i binari. È quella fame
di frutti tra le spine – ed ero sazio
di luce già – che qualcuno coglieva,
la strada riparata dalle piante
verso la spiaggia, l’agile torrente
che cerco ancora. Ma è un tranello l’ombra
bassa sopra la darsena, è passato
tacendo qualche cosa un ambulante.
Mi chiedo se era vivo, se lo sono
io che ho certezza soltanto del sole
feroce e di ogni fiore folgorato.

(dalla sezione "Meccaniche, membrane della luce")

François Nédel Atèrre, "Limite del vero", La Vita Felice Edizioni, Milano, 2019; postfazione di Giulio Maffii 

François Nédel Atèrre (pseudonimo di Francesco Terraccia¬no) è nato a Napoli, dove vive e lavora, nel 1967. È laureato in Economia e Commercio. La letteratura, contrappunto alla formazione universitaria e professionale, è costantemente al centro dei suoi interessi: lo studio della poesia europea – del modello italiano, inglese e francese così come delle significative testimonianze russe del Novecento – ha motivato la sua partecipazione a numerose iniziative, mante¬nendo vivo il contatto con una realtà complessa e in continua evoluzione.
Ha pubblicato una raccolta di poesie, Phonè (1992) e un vo¬lume di racconti, Il Salice Bianco (1993), entrambi con lo pseudonimo di Francesco Miti. Numerose le sue collaborazioni con riviste letterarie e le par¬tecipazioni a progetti editoriali, rassegne e seminari.
Del 2018 è la raccolta poetica Mistica del quotidiano, Terra d’Ulivi edizioni.

Nel 2018 una sua poesia è risultata vincitrice al Concorso Nazionale di Poesia “Città di Sant’Anastasia XVI Edizione”.




lunedì 30 dicembre 2019

Carol Guarascio e i suoi "Fiori scompagni in acqua cruda"


Le parole peregrinano nella mente dei poeti: così scrive Carol Guarascio a pagina 21 della sua raccolta "Fiori scompagni in acqua cruda". Mi piace iniziare così questo breve viaggio all'interno del mondo poetico di Carol, autrice residente a Campobasso ma di origine catanzarese; questa affermazione sibillina può infatti, a mio avviso, sintetizzare molto bene la linea poetica della nostra autrice, alla base della quale la parola si fa essa stessa peregrina (e aggiungerei pellegrina con una modesta allitterazione del termine) transitando e suscitando continuamente nella mente del poeta immagini sempre nuove, sempre diverse, sempre originali, da utilizzare e da restituire artisticamente al lettore. La creatività del poeta è tale da generare situazioni e immagini suggestive manipolando la materia a disposizione, nella fattispecie la parola, nel caso degli scrittori e, maggiormente, nel caso dei poeti. Lo scrittore crea una storia utilizzando una sequela di termini e di parole, ma un poeta riesce a creare un mondo, plausibile e verosimile, reale o immaginario che sia, partendo dalla sua pietra d'angolo, che è costituita appunto dalla parola: il suo "spessore", la sua amplificazione sono necessari perché si parli di parola "poetica".
Con questo, naturalmente, non si giustifica l'uso incontrollato della parola, supponendo che al poeta tutto sia permesso, e che ogni parola e verso e brano poetico possa liberamente essere scritto, in base ad un capriccio sconclusionato dell'autore! Ci sono tecniche, stili, forme, canoni da rispettare; ci sarebbe ancora molto da dire al riguardo, ma non in questa sede.
Quello che è certo, è che Carol Guarascio dimostra di saper percorrere, con padronanza della materia e con determinazione, l'erto sentiero poetico, manipolando le parole in modo aggraziato e scherzoso ma sempre interessante, riuscendo a spiazzare il lettore con figurazioni simboliche e levitazioni oltre i significati stessi e al di là dell'intero brano poetico. Un modo senz'altro originale di creare poesia, una poesia che fonda la sua essenza, come dicevamo, soprattutto sulla parola, e come attrezzi particolari in mano ad un abile prestigiatore, queste acquistano forza e impeto propri, trasformandosi di volta in volta in luci immagini suoni e significati diversi: "Divertimi, parola, / come un aneddoto / dopo una cena, / fuori da un locale, / mentre pestiamo / vita e sigarette / sul selciato." È quanto afferma anche Antonio Bux nella sua puntuale introduzione al libro, e cioè che, al di là dei contenuti e dei significati, la poesia, e in particolare la poesia di Carol Guarascio, è soprattutto commistione di senso, di suono, di immagini e di tensioni del pensiero. In effetti, leggendo attentamente i testi della nostra autrice, in questa sua pregevole raccolta, è evidente il risalto e la intima autonoma vitalità della parola poetica indipendentemente dal contesto descrittivo: espressioni come "fiori scompagni in acqua cruda", verso che costituisce anche il titolo, originalissimo, della raccolta, non può che avallare questa peculiarità della Guarascio poetessa; nell'esempio citato, il verso evoca immagini e sensazioni selvatiche, quasi primitive (acqua cruda), molto al di là di una essenzialità di scrittura poetica volta a sintetizzare il pensiero, il fatto descritto dall'intero brano (pag. 36).
Carol Guarascio, pur mantenendo integra la sua linea poetica fondata sulla parola e sul gioco delle parole nei versi, ha un dettato poetico variegato (una sezione comprende persino alcuni haiku) e brillante, sempre scorrevole e in grado di mantenere desto l'interesse emotivo del lettore.
Come è ormai nostra consuetudine, riportiamo dunque qui di seguito alcuni brani della nostra Autrice, tratti dal libro "Fiori scompagni in acqua cruda", attendendo dai nostri affezionati lettori qualche ulteriore gradito commento o riflessione in merito. E con questo, auguriamo a Carol Guarascio futuri e sempre meritati riconoscimenti, avendo riscontrato in questo suo recente e pregevole lavoro davvero una poesia di alto livello qualitativo.


I.

Il mio cuore
a zampe aperte
è un geco imobile
che misura lo spazio
e adatta i desideri
al vetro ruvido dell'aria
                         di luglio
scalzato
scomodato
batte i pollici sul muro

bulbi di tulipani respirano al buio

bisognerebbe cambiare cielo
traslocare su un terrazzo più soffice
potendo avere indietro i versi
dipanando ragnatele
consultare la banda dei pensieri
– nuvola di talco cucina a mano –
mentre il vento fa le fusa sulla mia pancia
e la chiave nella toppa mi dice qualcosa
                                                 di te

entri interrompendo
la lama luminosa
del pulviscolo

e mi porti l'estate.


***

VIII.

I gatti non piangono mai

(non dite sciocchezze)
togliete la crosta
alle parole

noi amanti
siamo sacerdoti
del disordine

intingiamo le sillabe
nei fiumi
del senso doppio

andiamo per bicchieri
con la lingua impastata
di ipotesi

i poeti mi vengono
all'orecchio
col cappotto macchiato
d'immaginazione
m'insegnano a fare
la pelle al destino

i poeti non piangono mai

(non dite sciocchezze)
con la crosta delle loro lacrime
si fanno le volte celesti.

(Testi tratti dalla sezione "Quoi de neuf")


***

III.

Voi portate anche i denti a quella festa
e gli unguenti, i sorrisi delle barbie,
i mozziconi di sigari spenti,

i monconi di parole giallognole
con le spore sempre aperte e puntute,
pelle acida e perdente di sali

state rotti, su basamenti alati
come fiori scompagnati in acqua cruda.

(Dalla sezione "Madrigali")


***

ZTL del cuore

Tutto è cambiato, ma non ti dirò
che i minuti sono morti di pioggia,
o le vigne sono rosse di terra
se mi piace l'arpeggio dei colli.
T'ho lasciato un bouquet di sogni
sul comodino
e la porta aperta d'una chiesa.


***

Lettera

Qualcuno ha morso la luna stasera
il vento ha dita di brezza
e l'evasione non ripaga il cuore
allora scrivo
di questo tempo in cui la storia non si scrive
la nostra dignità sta alla roulette
i valori sono sassi scomodi
su un lastricato di fandonie
facciamo bucati di certezze
mentre qualcuno ci insudicia i sogni
solerti silenziamo questeore
come se nulla possa accadere
e siamo bravi a sgomitare
a vendere teorie guaste
parole come vino
sbriciolando promesse
o lo stupro di poesie.

(Dalla sezione "Pelle e zucchero")


***

Waiting for

Senza occhi di corallo
né polpastrelli soffici

la lingua rassicura
invano
il morso furente

ho una bolla nel petto
digiuno

ho una scarpa slacciata
un respiro stupito
pochi soldi da dare al destino

ma so come si va
da quella parte
senza mani che tengano
i sogni e il filo

so di saper cercare
la criniera del cielo.

(Dalla sezione "Senz'ali")


***

Elettrica

Da sotto le coperte pesantissime,
ma soltanto al brillare nel pomello
di spiriti d'ottone e spiritelli,
sentivo tintinnare il portapranzo,
quello ovale d'acciaio di mio padre.
Era il fiore dell'alba ed io provavo
a superare il freddo del metallo
annusando il suo pasto quotidiano.
Quando sentivo un ronzare di phon,
s'incollava un solletico al mio sonno
che mi portavo addosso fino a scuola.
Mio padre si pettinava i capelli,
sulle spalle la mantellina rosa
di mia madre, con grazia, ogni mattina.
Spesso mio padre s'alzava di notte
e andava a premere qualche bottone
nella centrale bordata di querce
così tutti potevano dormire
tranquilli, ché la luce c'era sempre.

Esser ricchi di luce non è poco,
per chi vive da sempre d'astrazione.


(Dalla sezione "Il tempo dei pavoni")

Testi tratti dal libro "Fiori scompagni in acqua cruda", di Carol Guarascio, RPlibri, 2019. Collana di poesia "L'anello di Möbius" diretta da Antonio Bux. Introduzione di Antonio Bux.

Carol Guarascio è nata a Catanzaro nel 1976, risiede a Campobasso. Laureata in lettere classiche a Perugia, attualmente è docente di italiano e latino nei Licei. Ha pubblicato la raccolta di poesie Il cassetto dei foulard (Talos Edizioni, 2015) e il romanzo per le scuole Il diario di Sulpicia (Cosmo Iannone Editore, 2017).


domenica 22 dicembre 2019

Adam Vaccaro e la sua poesia "Tra Lampi e Corti"


Dove può collocarsi la poesia in quest'epoca caratterizzata prevalentemente dalle estremizzazioni in ogni comparto sociale? Dalle punte più squallide di un banale e piatto comportamento di fronte alle orripilanti vicende di guerre, naufragi, migrazioni, malversazioni, omicidi e femminicidi, alle punte più alte di storie esemplari, di abnegazioni, di sacrifici volti al raggiungimento del bene altrui, di santità e di promozione della pace e del benessere per tutti. L'uomo, si sa, è mezzo diavolo e mezzo santo, metà materia e metà spirito, se vogliamo, e in questi estremi conduce la sua vita e costruisce la sua storia. L'arte, e dunque anche la poesia, può toccare ambedue i vertici, l'uno in alto e l'altro, all'opposto, in basso, traducendone le peculiarità e riproponendole in modo creativo e armonioso.
La poesia dunque è, a prescindere dalla fonte di "ispirazione", che sia malvagia o benigna, a prescindere dalle storie fosche o mirabili dell'uomo: attua in sostanza una sublimazione delle cose, rendendosi indipendente pur parlandone e pur riferendosi ad esse, a volte direttamente, a volte allegoricamente. Lo spirito della poesia è tale che riesce a rivitalizzare e a illuminare le cose e l'uomo, indipendentemente dal loro stato e dalle loro azioni.
In questa prospettiva, il progetto poetico di Adam Vaccaro, nella sua recente raccolta "Tra Lampi e Corti", edita da Marco Saya, coglie benissimo, a mio avviso, la centralità e l'importanza del dire poetico, in un mondo frastornato, banalizzato, omologato, direi a volte nientificato, dai sistemi economici imperversanti e condizionanti. Si tratta di una raccolta complessa, ben articolata e organizzata, il cui titolo fa riferimento al mondo dell'arte fotografica (Lampi) e cinematografica (Corti, per dire cortometraggi), e nulla di più aderente ai suoi intenti poteva trovare l'Autore volendo alludere ai due principali filoni di cui si compone il libro, e cioè la parte prettamente poetica, dove il "lampo" è lo scatto fotografico di un aspetto del mondo o dell'uomo, visto e descritto hic et nunc così come appare, e una parte più descrittiva, narrabile, quasi come un "corto" cinematografico. Questo assetto della raccolta di Adam Vaccaro è bene descritto e dettagliato nella pregevole prefazione di Francesco Muzzioli, il quale afferma che "Tra lampi e corti" allude a diverse strade percorribili (nella lettura del testo), quale più puntuale con messa in evidenza istantanea e quale più narrativamente espansa a formulare brevi storie.
Ma in entrambi i casi, la poesia di Adam Vaccaro è una poesia consapevolmente alta, sia dal punto di vista stilistico, sia per i contenuti. Il nostro autore mette bene in risalto le sfumature di indifferenza, di superficialità e di banalità in cui sono invischiate le nostre esistenze quotidiane, i nostri comportamenti e persino i nostri linguaggi: una poesia di denuncia, quindi, o perlomeno anche una poesia di denuncia, come ad esempio in "Poesia di pietra", dove Vaccaro parla di una Milano (ma alludendo all'attuale società generalmente prolassata) distratta e insensibile.
La complessità del progetto poetico di Adam Vaccaro in questa raccolta si evidenzia nelle molteplici parti di cui è composta (Lampi, Tempi, Dediche, Radici di pace, Quadriglia gitana, Sapori di vino, Corti, Stranieri, Oratorio aquilano, Lezioni norvegesi), le quali tutte compongono un mosaico ben visibile delle varie tematiche umane e sociali, da cui Vaccaro ha tratto spunti per la sua pregevole scrittura, mostrando il lato debole di questa umanità ma anche squarci di luce, indulgenze e speranze.
Lo stile è personalissimo, originale, colto. C'è, nelle poesie della raccolta, un largo uso dell'enjambement che sorprende piacevolmente il lettore, ed inoltre è evidente la grande padronanza della tecnica poetica, di figure retoriche particolari come la paronomasia e di altri accorgimenti che rendono il testo squisitamente intrigante e accattivante, come è giusto che sia per una poesia che non debba limitarsi ad una semplice esposizione di sentimenti e di situazioni, prerogativa questa di gran parte del panorama poetico dilettantistico attuale.
Molto ancora ci sarebbe da dire sulla poesia di Adam Vaccaro e in particolare su questa ricca e interessante raccolta, ma lasciamo ai nostri affezionati lettori l'opportunità di aggiungere ulteriori riflessioni e commenti dopo aver letto i brani seguenti, tratti appunto da "Tra Lampi e Corti".


Poesia di pietra


Milano è poco più di niente, pensa
il distratto che corre con le cuffie
sulla sua capacità di sentire. Poi
senza più fiato si accascia
in questo slargo di sassi
con la montagna di guglie bianche
che lo guarda e qualcosa si accende
s'illumina anche in lui l'immagine
di una poesia di pietra
lanciata a meraviglia del cielo
alla sua plateale indifferenza

2 febbraio 2015


***

Improvviso

Camminando lungo queste strade larghe
O quasi cunicoli la polvere alla luce calante
Di questa sera lupa di un'umanità furfante

S'alzava e disegnava forme di un'utopia
Impossibile imprevista e resistente nella
Mente che non parla da sola ma ascolta

Cosa possono dire le stesse cose che ci
Appaiono inerti – polvere di morte che
Improvvisamente si alza e ritrova il volo

3 aprile 2016


*** 

Ventagli d'amore e d'inganno

Dicono che il vento si fa vento
per farsi canto senza parole
sapiente che sa già tutte le loro
accese illusioni che sanno cucciarsi
e farsi anima, prima sotto pelle e poi,
piano, fino al cuore, fino a farsi liquore
che scende scende e inventa altri suoni
con odori e lampi abbracciati a ferite
dolci e feroci, incancellabili.

Che riconoscerai anche se ti rapiranno l'anima,
per farne schiava in luoghi sconosciuti, mentre
ti racconteranno di un'altra libertà ornata di altre
parole d'incanto che ti diranno, tu sei nel massimo
sogno di essere oltre e altro, finalmente il vero te,
il re che hai sempre cercato in parole ignote
il più sconosciuto e tanto in alto e fuori di te
che ti sembrerà di volare come una foglia – completa
mentre preda di un vento alieno che fa di te il suo canto

Aprile 2014


***

I bottoni di Peppino

Non sapeva peppino quel mattino
presto di novembre – statua di pietra
sulla valigia – dove il treno e il destino
dal Sud avrebbero fatto un punto.
Sapeva solo il sapore di una polvere
che brillava ancora bianca nel cuore
e nei pugni colmi di bottoni abban
donati ai compagni di un gioco
con pietre piatte e mucchietti
di bottoni – bottini da conquistare e
mostrare – guarda! – e ricominciare

La domanda e il punto si sciolsero
in uno stanzone pieno di un'altra
polvere su scatole e cartoni pieni
di bottoni – mille occhi a Nord
di una fabbrica abbandonata

Carboni incendiarono il cuore di
peppino alla vista di quel paradiso
di tesori e bottini neppure sognati
mentre suo padre diceva – forza!
pulire e buttare – buttare e disfarsi
di quel mare di cento colori per fare
posto a letti tavolo e sedie mentre
gli occhi brillavano come madreperla
senza poter dire a nessuno – guarda! –
e ricominciare


***

Scale in me

Scale che abitano in me – Rivedo
Quella scala in penombra che sale
Verso volte di angosce costrette
E la scala in pietra inerpicata
Alla dimora d'origine con la sua
Scala di legno in cima puntata a

Quel basso sottotetto del cielo –
Regno di giostre di topinastri tra
Legnaie e altre claustre anse di tepore
Come le austere stanze dei nonni –
E poi poi scale ampie e scale strette
Delle cento aule da Bonefro a Fermo a

Milano, di rutilanti densi umori saperi
ancora ignoti – Scale vitali e scale a
Scendere in precipizi dell'anima
Così balbettante insieme ai tacchi
Su scalini immersi nel buio prima
Che in fondo una luce brillasse

Scendesse a illuminare i piedi
Ansiosi di risalire e farsi arpioni
Verso sogni d'umano e d'eros fino
Agli ultimi gradini prima della porta
Aperta dal tuo sorriso-promessa
Premessa di un'eco di paradiso

Maggio 2015


*** 

L'angelo ignoto

Due volte ignaro come in sogno volando
nell'improvviso aprendo un altro mondo

Ragazzi a squarciagola cantando
su salti catenacci e bici oscillanti
s'una striscia bianca – come pane
risate e sapor di farina – mi accolse
un manto d'incanto tra polvere e sassi
che incolume si fece e denso abbraccio

Poi quando ormai la fronte era più piena
ritrovai una chiara e soffice mano che
della lamiera d'un cofano fece volo e
mi spinse riverso su un nero asfalto
senz'anima e logoro di sogni eppure
quasi materno porto e misterioso

Non saprò mai la mano che mi accompagnò
in quei voli né potrò mai dirne la dolcezza

Luglio 2008


***

Mira a Milano

Ho alle spalle deserti e savane
che cantano in me col vento
che non sento più – tra urla e
fischi su queste strade altre
deserte di amore mentre corro
a infilarmi in questo tubo di ferro
cercando di ricordare le facce
impolverate e le vesti colorate che
non so se sono state cancellate
dal turbine che mi ha portato
fino a qua e mi strizza il cuore
come questo straccio che raccoglie
le mie lacrime invisibili per chi
sarà insieme a me domattina
di nuovo come ogni mattina
in cerca di una cosa – di un po'
di dignità di lavoro e pace

Giugno 2008

Testi tratti da "Tra Lampi e Corti", di Adam Vaccaro, Marco Saya Edizioni, Milano, 2019.
Prefazione di Francesco Muzzioli; postfazione di Eleonora Fiorani.


Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, La piuma e l'artiglio, Editoria&Spetatcolo, Roma 2006; Seeds, New York 2014, scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Ha realizzato inoltre pubblicazioni d'arte con Romolo Calciati e altri, con prefazioni di Dante Maffia, Eleonora Fiorani, Gio Ferri e Mario Lunetta. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali, siti e blog, con testi poetici e saggi critici. Per tale versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001. Ha avuto premi e riconoscimenti, tra cui il Premio Astrolabio del 2007, ed è stato tradotto in spagnolo e in inglese.
Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), dal 2000, Associazione con cui ha curato molte iniziative e pubblicazioni: Poesia in azione, Bunker Poetico, alla 49a Biennale d'Arte di Venezia 2001; "Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto", 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, 2005; Milano: Storia e Immaginazione, 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, 2012. Cura la Rivista online Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.



Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà