lunedì 10 settembre 2012

Ninnj Di Stefano Busà su "Il ragazzo che io fui", di Sergio Zavoli


Un viaggio lungo la vita, quello di Sergio Zavoli, che nel narrare la sua avventura personale ed esistenziale coglie a 360° tutto il panorama attuale della nostra epoca: ribelle, fatua, dedita all’utile, all’interesse, contraddittoria, votata all’automazione visionaria di un vivere ai margini della vita stessa, non più all’interno, non da protagonisti, ma da controfigure di noi stessi.
Il nostro periodo storico riflette molte mancanze, dà segnali di uno scenario disabitato dalle coscienze, dalle emozioni, dai sussulti intimi.
Tutto è dilacerato e mercificato, ustionato, reso inagibile da una sorta di ridimensionamento frustrante, passivo, azionato da conflitti e da contraddizioni ineludibili, che spesso cancellano ogni traccia di umanità, di intelligenza e di bellezza.
Il mondo è in subbuglio, ma è un disorientamento, uno smarrimento da perdita di contatti reali, da amnesia, da abuso di stravaganze.
Il tempo dell’informatica, dei canali satellitari, dell’usa e getta, del superfluo, si è rivelato un “mostro” raccapricciante che ingoia i suoi cultori.
Camuffato da necessità vi è il “nulla”. La vita non è più irrorata da bellezza, da verità, dal sogno, ma è azionata da una sorta di idrovora che disattiva ogni ragione di “normalità” intesa come raziocinante. Tutto è eccesso, esaltazione dell’ego che dà e, in contemporanea, nega ogni sorta di bene.
“Una contraddizione in termini”, quasi letale, ha invaso le vie della nostra spiritualità, le condizioni morali più qualitative dell’uomo, quelle che portano all’intelletto e al cuore.
Così, l’amarcord di Sergio Zavoli è una riflessione mirata alla comparazione tra due mondi opposti che appaiono due "epoche", ma invece si riferiscono a “ieri”. La vita quotidiana, gli stili, le consuetudini, i sentimenti, tutti annullati nel breve volgere di una generazione, la “sua”: uno scempio di ciò che eravamo e quel che “siamo”.
Paradossale la distanza tra i due “modus”, perché risente di una nostalgia contenuta che riprende l’assenza quasi totale dell’emozione.
Un primo attacco ci viene dal razionalismo “ante litteram” del secolo scorso nel quale i valori venivano messi da parte, per dar spazio alla concezione nietzschiana del super-io. Una forte tendenza a porre in evidenza l’ego al posto del plurale “noi”.
“Il ragazzo che io fui” è un’opera che dovrebbe essere adottata nelle scuole.
Ha il tono didattico, non accademico né sentenziale, senza indottrinamento, scritta sul filo della continuità logica, si avverte il senso dell’umanità ferita e dolorante, la quale può mutare col “ravvedimento” il destino delle cose e del mondo.
Pensare con l’obiettivo dell”utile” è stato il modo meno ontologico e più irresponsabile di vivere.
Perciò, Zavoli vi affonda a piene mani e ci dà il responso del suo parere, che nel riflettere il senso del disordine morale e sociale ai quali siamo giunti, ci indica una via di riscatto, un ripensamento, forse una salvezza “possibile”.

"Il ragazzo che io fui", di Sergio Zavoli, Mondadori, 2011

Ninnj Di Stefano Busà

domenica 9 settembre 2012

Il poeta Nader Ghazvinizadeh in una nota di Narda Fattori

Con questo articolo iniziamo una nuova rubrica, intitolata "Gli Ospiti", dedicata appunto agli Autori che vorranno presentare commenti, osservazioni, note critiche, recensioni, su altri poeti.

Presentiamo dunque qui di seguito il poeta Nader Ghazvinizadeh, in una nota critica di Narda Fattori.


Nella città è sempre notte
scrosci di gente nera sotto le piogge
maschi da vaporiera femmine di stireria,
la città scotta, fucina di febbri
neoavanguardie e noi, nel parco urbano abbandonato
come l' abbraccio di un parente di secondo grado
noi siamo ricchi, vestiamo un po' bene
un po' male come i tartufi
sapendo di terra e di cane 

 
(da "Metropoli", poesie, di Nader Ghazvinizadeh, a cura di Sergio Covelli. Edizioni cfr - poiein)

E’ l’opera che ha vinto il 3° premio al concorso Fortini indetto da Gianmario Lucini e edito dalla sua nuova casa editrice. E’ una poesia compatta, sapiente e dura. Dura quanto sanno essere le metropoli con la gente che ospitano, immigrati per la maggior parte, contadini inurbati, ora operai, impiegati, una piccola borghesia che non ha più orizzonti, che ha smarrito i sogni di rivincita sociale e/o culturale, molta solitudine, lo squallore delle periferie, con i bar affollati dove l’alcool aiuta a sopportare la proterva fila dei giorni tutti uguali.
La metropoli ruba più di quello che non offra: ognuno è chiuso in una solitudine aspra e dolente dove anche i ricordi sbiadiscono e l’identità si assottiglia fino a scomparire quasi e allora si ha bisogno di gesti e comportamenti “forti”, deviati o devianti per recuperare un sé che scolora.
L’autore, malgrado il nome non proprio italiano, in realtà viva e lavora in Italia, a Bologna; si occupa di cinema, di musica e di urbanistica, di microcriminalità adolescenziale, di rapporti fra questa e i grandi casermoni urbani, i moderni falansteri.
Ne ha scritto su quotidiani e riviste, ne ha parlato per radio.
Ovviamente la materia dei suoi interessi intesse questa opera di poesia matura, dove l’ispirazione è sempre sorretta da uno sguardo lucido, ma anche pietoso, sulla moltitudine; infatti la scinde, ne estrae il singolo e sappiamo che l’uno è riconosciuto e riconoscibile, è unico e non assimilabile.
Di questo riconoscimento è fatta la pietas di Nader.
Il suo dettato scarno, molto vicino al parlato anche per le numerose ellissi, riproduce il linguaggio di coloro di cui parla, scabro, senza o di povera sintassi, povero di parole; le parole di questi inurbati sono quelli della sopravvivenza, di qualche ricordo frastagliato, di un dolore che fatica a chiamarsi tale.
Fra le parole che ricorrono più spesso ci sono, ovviamente, città, alcool, caffè, bar.
C’è l’illusione dei colti, di coloro che hanno studiat , si sono impegnati e si ritrovano inutili o a fare “letteratura”.
Le nostre città che gareggiano a dirsi e a farsi metropolitane, non ne escono troppo bene; tutti i mali sono nei suoi milioni di abitanti, stretti fra esasperazioni, vaghezze di suicidio, incapacità o impossibilità di relazione, pochezze sempre.
Fa rimpiangere la provincia questo libro di Nader, le sue piazze pettegole, i gruppetti dei giovani appollaiati sul monumento ai caduti, i bar affollati di vecchi che giocano a carte e di più giovani che parlano di sport o di donne.
Ma un poeta si misura sulla tenuta della sua poesia; qui il poeta c’è e tiene saldamente il ritmo e il tono della voce, mai un grido, mai un lamento.
La lingua e la parola (in fondo la poesia è parola che si riempie di senso, che contiene una significanza ampia ma condivisibile o proprio per questo condivisibile), dicevo la lingua e la parola si piegano alla signoria del suo dettato e fanno di questa silloge un piccolo capolavoro di poesia.

Narda Fattori

Metropoli

Livido e plumbeo è, invece, il nostro vestire in città
umido, che viene voglia di mettere le mani in tasca e stringere le spalle
e addormentarsi
nella cesta, come dormono le bestie
grattacieli come i sottomarini
città piromani, vetri rotti
slavate dalla pioggia, città, sfumate nella nebbia 

***

Stanno costruendo il nuovo quartiere
i geometri nel monolocale guarderanno l'orizzonte ortogonale
dove l'angoscia si scioglie in inquietudine
e si risolve prendendo da bere
nel bar vuoto
sarà il barista nuovo che viene da lontano
a cucinare per gli impiegati
e sarà mezzogiorno a Febbraio
nei caseggiati nuovi, ancora con la sabbia
ed in fondo la cifra vuota
quella luce delle fotografie
del pomeriggio delle ombre lunghe
ci hanno visti la prima volta
nel seminterrato dove tremano i passi
non so perche ogni giorno vai nella stanza vuota
da una finestra la cifra da immaginare
dall' altra parte il mare 





 
***

Al ramo morto, dei barconi insabbiati
noi non volevamo andare al mare,
ma risalire il fiume al primo campanile
in mezzo al fiume c'e il paese con le piazze al vento
quando si perde l'argine maestro,
Lì si esce nel mare muto, che è già mare aperto
si perde anche il fiato, viene paura ascoltare la radio
che parla delle navi e degli altri mari
viene voglia di tornare indietro
come per cena, e noi ci perdiamo nei bicchieri d'acqua 

***

Porterò mia figlia in piscina
ascolterò dalla grande vetrata le voci ovattate
pensando ogni tanto alla sua voce
il tuffo la inghiotte
la figlia fa finta di niente
penso che ho avuto una femmina
e sembra di guardare un passato
la figlia non sa che andrà a Roma senza un pensiero
qui finisce il futuro 

***

Si beveva il vino nelle pause pranzo
nell'orlo del mezzogiorno
nella trattoria dei capomastri, degli impiegati
mentre i colleghi nei giardini pubblici intrattengono le amanti
le cuoche nei refettori, e dietro i muri,
i  cortili dei collegi deserti per le mense
dei bambini profumati di amido da stiro
e noi vestiti da lavoro, è bello pagare. 


***

In fondo alle strade tonde
c'era il nero d'Avola, c'era il mal di gala
sono vestiti anche bene e bevono
han come già detto tutto
"Questo posto porta indietro il cuore a dove 1o hanno fatto"
le parole sono tonde
un posto di ombrelli, pochi coperti, grandi dessert
ottocento / occidente
c'era il tabacco morbido, c'era il vino torbido
insonnia/ amnesia
han lasciato tutto com'era
immensa la cultura degli abiti da sera. 



***

Nei caffè, lontano dai prati
pensavamo per ore
pensavamo, fumavamo quando si poteva
dopo l'ultima città, soltanto neve
chi parla alla radio in Germania
sembra un uomo solo in una stanza
siamo emigranti, siamo colti
sappiamo il mal di testa di non farsi capire
di essere eleganti, di vestire male
e di bere caldo. 

***

L'uomo solo che vive nella casa al mare
la casa aperta, di calce
sul viale per Pomezia un progetto di lungomare
viene in città una volta al mese
e attento a non portare la sabbia in casa
la casa senza porta
dorme il giorno sul letto sfatto
a guardare il mare con il rasoio in mano 

ci sono bottiglie sulla credenza
l'estate la notte e come il giorno
il mare annoia, e sempre uguale
il discorso che fa sulla riva
il mare è come il cielo grigio
non c'e voglia di tuffarsi
l'uomo si tuffa con muto coraggio, nuota male
esce nel mare
lontano dalla riva, dove sono le boe
i pesci ed il silenzio sott'acqua
torna sempre come un'angoscia
io osservo il suo muto tornare
il passo del nuoto sempre uguale

***

Si risale la terra dei monumenti gelati
arcani come carri armati i municipi
siamo venuti via con la ghiaia in tasca:
Valle Bembo, Valle Bormida il sigaro fa l'acqua vite torbida
riconosci la tua marcia nella città contraria
i tagli di falce, i cambi di guardia
gli amici di scuola miete la mitraglia
la morte è in campagna. 





venerdì 31 agosto 2012

Bruno Bartoletti: sparire in silenzio

Abbiamo già pubblicato giorni fa alcuni interessanti testi di Bruno Bartoletti. Lo riproponiamo una seconda volta, su gentile richiesta di Narda Fattori, che ha scritto per lui una approfondita nota critica qui di seguito riportata.


Bruno Bartoletti, "Sparire in silenzio ritrovando il vento delle strade", Youcanprint.

Nel taschino l'ultimo verso
Oggi l'inferno ha altri volti, oscurità e schegge. Oltre il confine il buio.
Nella stanza il freddo chiarore di un'alba di dicembre, pareti
bianche di ospedale, la mano alla maniglia, il treno che non parte.
Attese di autobus sempre vuoti. Non c'è nessuno in giro a
quest'ora. Solo silenzio. II silenzio è una parola vuota.
Rami scarni contro il cielo, una lunga interminabile prospettiva
disadorna, attaccapanni spogli ove impermeabili grigi stanno appesi.
E' il giorno della memoria, il giorno dei santi e dei martiri,
troppo presto dimenticati. Nuvole fosche e un vento sibillino soffia sulla terra.
Solo una donna incontro nella nudità dei giorni. 

I
Stava fuori la promessa
ed era tutta raccolta contro lo spigolo
del letto, a malapena rischiarata dalla luce obliqua
del balcone,
una piccola luce, mentre tutto oscillava
e si inabissava nei perchè,
nelle ombre sul muro,
nell'acqua che continuava a cadere,
fredda e insistente come le parole su quel corpo
di lui immobile.

II
Poi ritrovarsi tutta aggrappata sul predellino del treno
sotto la pioggia, in quell'abito bianco
che pareva uno straccio, lei, il suo volto bianco,
bagliori di un corridoio d'ospedale,
i vetri dei finestrini riflessi
tutta la storia rappresa a quella maniglia,
a quella inutile presa.
Domande che non hanno risposte, tutte
nel silenzio, quando muoiono i giorni
e ancora non sei pronto
mentre già l'altoparlante annuncia: 

- E’ in partenza dal binario numero 24 ... -
Leggere ancora, per non dimenticare, leggere nel silenzio.
Oscilla l'ultimo verso, il viandante si allontana, di profilo la sua
ombra e un taglio di luce, non ha forma. Procede.
Sibila il vento sui rami disadorni.
Le parole si inseguono come tagli di scure, come i numeri
sull'avambraccio. Solo numeri. Non ricordo nient'altro. La bam-
bina aveva scarpette rosse e un abito bianco e occhi grandi.
Riccioli biondi.
Non è cosi che si deve partire. II camion è pronto. Mi hanno spinto
per farmi salire, mi hanno buttato come un attaccapanni, abito
grigio, scarpe afflosciate.


Nel taschino l’ultimo verso di Invictus

Avanza rapido il giorno ed è un giorno che non ha mai fine.

Una stanza d'albergo a due stelle,
la luce scarna sulle braccia
e lei che tossisce
vicino alla stazione
in un sottopassaggio
ho girato l'angolo senza chiedere nulla
ho disceso le scale
e ho aspettato l'arrivo dell'ultimo autobus.

*

Una vecchia Guzzi e mio padre
- mi sembrava un gigante - sui tornanti.
Mi diceva indicando uno spicchio più azzurro
tagliato lontano tra i monti:
- Vedi? Quello laggiù è il mare -.
E aveva un limpido riso da buono
mio padre che appena conobbi
e risento quel dolce sapore
di azzurro tagliato tra i monti.

La vita si inerpica a volte si sfascia,
ma restano sempre i più dolci
ricordi.

 Le mani che cercano  l' ombra.

*

Ancora quel suono, quel suono
che taglia la notte recide oscure memorie.
Un’auto o una moto che ingoia nel buio la strada
un giovane forse che torna o che si allontana.
E vado pescando ricordi dei tanti
compagni di viaggio, dei tanti da tempo già scesi
in qualche perduta stazione.
Li conto a memoria, non manca nessuno,
l'amico più caro ancora sorride.
E’ tardi
La  notte ha un sapore di cose lontane.

*

Se appena nel soffio questa foglia,
forse un poco sbeccata per le troppe
battaglie, svenata appena, è ancora
sospesa al tralcio
questa foglia che vede, già vede
tramutarsi il colore e le sue vene
seccarsi
e già si gode il lento, ondeggiante
cadere, già si sveste di ombre
dopo tanti, oh sì tanti frastuoni,
che era vita la sua, e ancora trema
sotto l’acqua ed il vento ...
anch'io mi sento, non vuoto,
già staccarmi dal ramo ...
Prendimi terra, annegami, fammi tesoro
di altre forme, accoglimi non già morente,
nuovo per altre immensità, per altre vite.

*
E parlammo di te attorno ai fuochi,
nella sera suadente e sul mantello
una luna di carta per sognare
i segreti del tempo, e la tua voce
come un soffio di nuvola sui tetti a
ricordarci degli anni, dei segreti
che il tempo senza tempo ci ha lasciato.
Ora che la distanza ci allontana
saperti ancora ferma in riva al mare
con gli occhi tristi e il volto dentro il vento
mi dona questa eterna giovinezza
e il senso di un eterno raccontare.

*

Così lontana vieni a me, vengono ombre
ancora nella notte, passano accanto,
ombre lontane ed in quel suono sono
mille memorie a raccontarmi, sono
radici asciutte nella carne.
E un rombo che cresce e spegne oltre le voltate
tutti i miei anni, i compiti, radici
gli amici miei, quelli perduti o scesi
prima del tempo.
Incombono i dirupi e questa strada
si fa più scarna cruda.

*
Non so perdonarmi
di esser vissuto più di mio padre.
I padri sono forti, ci restano accanto,
non muoiono, non possono andare per altri tramonti.
Mio padre portava il piccone, sul capo la lampada,
e aveva un volto da buono, mio padre
con gli occhi lontani.
Ancora la terra non grida, chi muore
non ha che un respiro. 

Testimonianza di una età - la nostra - e di un crepuscolo, se la poesia è anche divenire e, in qualche caso, sofferenza, come dichiara l'autore nel breve saggio finale. L'incipit  e la chiusura prendono lo spunto da alcuni versi di Nicolas Bouvier, il poeta a cui piaceva cantare la lentezza, versi che Bouvier scrisse alcuni mesi prima della morte. Canto di morte, dunque, questo viaggio in un altrove diverso, e canto della vita.
«La sua raccolta di poesie mi ha profondamente emozionato: ha l'andamento del viaggio verso la tragica conclusione del tempo, fra la verifica della memoria come unico valore pur nel dolore e nella fragilità delle esperienze e del sentimento e la consapevolezza fortemente morale del mondo spiritualmente perduto. II discorso è ampio, solenne, grandioso. Ci sono testi di straordinaria bellezza, come "Nel taschino I'ultimo verso", ma tutta l'opera è splendida, altissima». (Giorgio Barberi Squarotti, Corrispondenza epistolare del 9 marzo 2012).
Nulla si può aggiungere, nulla c'e da spiegare. La poesia è soprattutto ascolto e silenzio. 


Bartoletti non dimentica di essere un poeta e di tanto in tanto ci induce a soffermarci sui versi che ha appena pubblicato. Non lo si può neppure dire prolifico: tre, quattro libri in un paio di decenni al contrario fanno pensare a quanto lasci decantare la sua scrittura che, quando appare, deve essere armoniosa, coerente, non futile né inutile.
Credo che oggi i poeti debbano porsi proprio il problema della capacità di e-ducere della poesia nell’ambito della società e non ritrovarsi a contarsi in sterili reading di un do ut des; e si potesse dire sempre poesia questa scrittura bistrattata, usurpata, spesso di poco pregio, come andare a capo prima della fine dello spazio bianco o incasellare le parole una sotto l’altra come in un elenco.
Ma quali motivazioni ha il poeta, anche il poeta Bartoletti, che pure spinge sul pedale della memoria e dell’etica?
“Ogni tanto mi accorgo che la penna ha preso a correre sul foglio come da sola, e io a correrle dietro. È verso la verità che corriamo, la penna e io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo d’una pagina bianca, e che potrò raggiungere soltanto quando a colpi di penna sarò riuscita a seppellire tutte le accidie, le insoddisfazioni, l’astio che sono qui chiusa a scontare.”
questo scriveva  Italo Calvino. E citando Fortini, Bartoletti fa proprio il suo incitamento: forse la poesia non serve a nulla, “ma scrivi”.
Oggi credo che vi siano poche giustificazioni per una scrittura glabra, eccentrica, talora difficile come è la poesia; non dà né pane né gloria, neppure è pace o medicina; tuttavia resta quanto di più autentico per noi umani possa essere: incontro e scambio, gratuito, non monetizzato, profezia, visione, ricordo, fondamenta dell’identità.
Nei versi ci incontriamo e ci scontriamo, e lo facciamo da sempre, da quando l’uomo ha acquisito il suo statuto di umanità. E se, come dice Federica Nightingale, “La Poesia, non si muove e quando lo fa si muove poco. La Poesia è lenta, un bradipo con ali leggere, un volto senza corpo e fatto d'occhi. La Poesia non cammina, scorre. La Poesia non parla, segna. La Poesia non paga, ri-paga. La Poesia è un collo di cigno che guarda dentro il lago e, a volte, vede il futuro.” non incontrarla ci diminuisce e ci lascia in un deserto di solitudine.
Questo ultimo libro di Bartoletti, giunto dopo anni di silenzio stampa e di attivismo culturale, si mostra come una summa della sua poetica e delle sue riflessioni intorno alla poesia.
E’ totalmente un libro di prima della fine, un libro che ascolta i silenzi; i silenzi non sono mai vuoti, sono i coacervi della memoria, le voci degli assenti, ci parlano dentro e attorno si fa una gran quiete,  ferma e attiva.
Proprio come se questo fosse l’ultimo scritto, troviamo la memoria che signoreggia nei versi, l’intelligenza che cattura le immagini e le fa parlare; credo non manchi nessuno all’appello. Ci sono i versi sui fondamentali dell’esistenza: padre e madre e, mai come in questo libro, Bruno ci parla del padre, minatore, della meraviglia di se stesso bambino davanti alla Guzzi rossa e del cruccio del sopravvissuto, lui al padre, perché i padri portano fardelli e spartiscono sicurezze che vengono a mancare alla loro prematura scomparsa.
Non mancano le figure d’amore, bozzetti incantevoli per la moglie, il nipotino, gli amici, il proprio paese, la terra aspra e poco generosa dove vive e dove è bello vivere perché ogni sasso, ogni giunco, ogni finestra conserva un passo del suo farsi uomo.
Il libro, corposo, con una postfazione articolata che dà ragione delle scelte compiute, è suddiviso in due vibranti sillogi che tuttavia non demarcano terreni semantici, ma appena tracciano solchi tematici.
La prima parte è quella che più insistentemente riflette sulla poesia e sulla parola; vengono citati poeti e personaggi fabulosi come il gabbiano Jonathan, si affidano messaggi a poeti che sono stati, poeti che sono, poeti che verranno a trattare la parola che, usurpata della verità, aspetta che le sia restituita. “ Ho scavato parole/ ricordando la luce/ e rompere il silenzio,/ sul tavolo le poche piccole cose/ di qualche straniero.”; nelle parole dunque la luce, l’uscita dal silenzio, l’uscita anche dall’anonimato dello straniero. E’ in quella luce che l’uomo può non disperare, ma anche in quel silenzio vibra un’attesa di luce.
La lunga poesia ibrida che porta per titolo “Nel taschino l’ultimo verso” ci riconcilia con la bellezza che anche una situazione di abbandono e di solitudine può conservare se tutto è in poesia, in questo caso particolarmente ispirata e fortemente espressiva. Credo che Bartoletti farebbe sua questa citazione di Peppino Impastato, non poeta ma giudice martire : "Se si insegnasse la bellezza alla gente la si fornirebbe di un'arma contro la rassegnazione, la paura, l'omertà".
Uomo di cultura, Bartoletti ha sempre cercato di insegnare la bellezza, che non sta in canoni di misure e di accenti, ma in incanti e in stupori, in cose minime e altre grandissime, in una margherita come in una galassia.
Forse non mi sono soffermata sul carattere ibrido del libro: alle tante poesie sono frammezzati pezzi di prosa, ma tutto si tiene come le foglie al ramo, il discorso non cede, non si piega ad esigenze altre ed estranee.
Dire il tanto che contiene il libro è impresa ardua. Nessuno può uscire dalla sua lettura senza esserne stato modificato.
Il poeta Bartoletti ci mostra l’uomo Bartoletti con umiltà e maestria, con candore e filosofia.
Non è facile raggiungere simili vertici; forse bisogna veramente tenere tanti anni le poesie nel cassetto e tornare spesso a rincontrarle.
Narda Fattori.





giovedì 23 agosto 2012

Marisa Papa Ruggiero e la sua "pelle di bosco"


Eleganza e tantissima sonorità, luci e colori, caratterizzano la poesia di Marisa Papa Ruggiero, presente nell'enclave poetico napoletano di spicco ma anche negli ambienti letterari nazionali di grande rilievo. La sua attività letteraria è molto intensa, con presenze assidue ad eventi di particolare pregio e importanza, ed anche come collaboratrice di riviste letterarie quali, ultimamente, la napoletana "Levania".
In questa silloge dal titolo "Nella pelle del bosco", tratta da poemetti editi e inediti, che molto volentieri proponiamo in questa pagina di "Transiti Poetici", Marisa Papa Ruggiero conferma, se mai ce ne fosse necessità, la sua ottima cifra di poetessa che pone nella parola poetica il suo grande e giusto valore, arricchendola e integrandola, come dicevamo, di aggettivazioni sonore, pittoriche e illuminanti che rendono il testo, e i versi, pregni di rimandi e di richiami.
Ma a questo punto invitiamo gli amici che ci seguono su questo blog a proporci altre interessanti riflessioni o commenti.

 (da poemetti editi e inediti)


                                 < Nella pelle del bosco >

I

(…)

Sorprende il polso l’urgenza
di spinte avverse
sfila il nervo il morbo

di una marea anteriore,
prende voce
angolare
di parvenze in viaggio
di ogni fatica d’orme
in ogni fiato o timbro che attraversa

e ne rivolta i segni
l’ordine compiuto,
la sorda fame la frattura elementare

su cui la morte veglia
                      e mette in sequenza i segni
le gole chiuse i varchi
tutti i sentieri
che la talpa conosce

i rivoli senza memoria senza uscita,
le cripte cieche 
della terra
le vie sacre.
                   
(da: Spartito fossile, poemetto inedito)


II

Sottratta al suo silenzio
scorre e guarda, qualcosa
che si stacca

e muta in estro
                               là dove l’acqua non specchia,
che torna e cresce, che altrove
mi precede
           - fondo moto di sé srotola in tondo -
frammento rinato
e traslato che prelevo
alla mia fibra:
                    non corpo
                                      non voce,
è un passo che nasce dal buio
che s’acqueta di selve,

da questi occhi
ha appreso la lotta,
questi occhi che mettono radici

come piante che si capovolgono
nell’acqua
                                               per tali vie
c’intendiamo
scorriamo in lente trasfusioni
con l’aria e l’acqua e tutti
gli elementi in comune:
queste vene che sembrano rami
che sono
                       steli e stami,
che mettono foglie…


III

Al gelo potato nel respiro
scende
alla nuda origine
con tutto il suo dolore il suo
grido
                          di cruda luce

scende l’intero buio

cerca il punto dove scoppiare
nell’abisso del primo verde

nido di linfa cerca

                   una voce rischiosa:
zampillo in agguato in ascolto
su timidi steli
                         trillando s’adesca…
                        
                         gestanti parole chiedono di entrare.



IV

In lamine d’equilibri brucia
sull’asse dell’oscillazione

l’istante più esposto
della freccia
con la punta spezzata
nell’enigma
su capovolta acquaforte
                                       d’un introvabile esemplare
su cui fu inciso un nome.

( II, III e IV da raccolta edita)


V

Fiore di ghiaccio

Filigrane sull’iride 
di seta e di gelo
nate  / in grembo alla   /  notte
da silenzi di neve
da scintille fredde   /    e cristalli
                                       
fuori   /  d’ogni   /  nominazione

/  di sette luci in cammino
                                            trapunte nel   /  fiore
che immobile varca

i battenti   /  dell’alba
e  al   /  chiarore che avanza
discioglie
sgomento
l’ incanto.

( da raccolta inedita)


VI

Teatro vegetale

A tonfo ciottoli    si sporge
fuori asse
la sgranata cima
a cigolio    di venti
                  sfiatati d’echi    in ogni

voce trasfusa    in schegge
               in ogni goccia     carminio
che il bagolaro spreme
per fameliche    bocche
                 in questa   svolta  che    tenta
il vuoto d’aria    e resta

fluttuante il bosco
che prima    dello sguardo    vede
                          qui a fari spenti
a passi disuguali
         m’indebito    con    la morte
                e allento lo spago    che mi tiene.

( dal poemetto in corso di stampa: Latomia )


VII

Attorno all’asta spiralica
l’inesplicabile
addestra i segni
per nevischi e sdruccioli
su piani scorrevoli
o su scale abrase ai pioli

per gomene senza imbarco
istoriate su antiche mappe
reggendo l’ordine dei fili

o quello scarto in più
in bilico sul fiato.


VIII

Ruotare il corpo, cercare
il punto d’intarsio
con la pelle del bosco

           avviene
per attrazione dei contrari
il paesaggio dei profili, avviene

pensarmi adesso
in altre pulsazioni
e mi vedo coincidere
con lo stesso campo visivo

della sovrana roccia che mi guarda

e mi sconfina in un dettaglio
fuori asse
che rompe dentro
l’assetto alle parole

se penetro
nel fitto potrei
smemorarmi
sparire.

( da: Latomia )



IX

Lo seppe così, semplicemente

Davanti al bosco.

Tra le creature che attendono il buio

Al raduno distante

Fermò i suoi passi.

Lo seppe dentro

E l’attesa fu quieta:

Silenziosa,

Immensa

Vide levarsi la Notte, 




L’ultima.

(da Origine inversa)



X

(… )

Bistrata di pulviscolo
l’uscita si ritrae
prende una direzione acuta
per luce blu vacilla
              dove ti fermi a bere

prende altro rosso
l’acero trionfale
            senza fretta di nuovo
cambia volto il bosco

e si fa densa la scena
sulla pelle riscrive cifrati accordi
fruscii rasoterra
tra le felci
sono io che li cerco
io li guardo
cogli occhi di un altro

(…)

(da raccolta inedita)

Marisa Papa Ruggiero è nata a Roma, ma vive a Napoli, dove ha insegnato per un trentennio nei Licei. La sua attività creativa (poesia lineare-visuale, prosa e critica) è documentata in diverse pubblicazioni antologiche e in riviste quali: «L’area di Broca», «Offerta Speciale», «Oltranza», «Lettera Internazionale», «Novilunio», «Risvolti», «AD HOC», «Paradossi Visuali», «Accenti Mundus». In «Poesia» è apparsa nella rubrica a cura di Mariella Bettarini: «Donne e poesia». Tre sue raccolte poetiche: Terra emersa (1991); Limite interdetto (1993); Origine inversa (1995, Premio Minturno); Campo giroscopico (1998); Persephonia (2001, presentato più volte come evento teatrale); Oblique ubiquità (in Locus solus –2003); Energie di campo (in Al di là del labirinto, 2010). Tra i libri d’artista: Il passaggio dei segni (2003); tra le opere in prosa: Le verità bugiarde (2008). È stata redattrice delle riviste: «Oltranza» e «Risvolti». Ha collaborato come redattrice alla fondazione della rivista di letteratura «Levania».

domenica 29 luglio 2012

Echi montaliani nella poesia di Bruno Bartoletti


Nato a Montetiffi, Bruno Bartoletti è una voce importante nella poesia italiana contemporanea, e meriterebbe di essere ulteriormente diffusa e letta. Poeta colto, i suoi versi si strutturano in un susseguirsi dolce e pacato, quasi come in un dialogo con se stesso. Hanno interessantissimi echi montaliani, a mio parere, e la celebrazione del ricordo, della memoria, si unisce a quella dell'amore e dell'amicizia. Vi è anche, nelle poesie di Bruno Bartoletti, un rispetto sacrale nei confronti della vita e della morte, che il poeta di Sogliano al Rubicone tratta e affronta con grande spiritualità e competenza lirica.
Proponiamo qui di seguito alcuni testi poetici di Bruno Bartoletti, che in qualche modo confermano quanto da me ipotizzato circa il suo mondo poetico, ma gli amici lettori, che sempre ringraziamo per la loro affettuosa partecipazione, sapranno senz'altro aggiungere altre interessanti riflessioni.


A mia madre

Prenderemo anche noi il volo
quando la polvere ci asciugherà i capelli
e sulle labbra salirà odore di terra,
ma dietro queste ombrose mani
saremo per sempre, tu ed io, risorti.

Non ci saranno distinzioni allora
perché ogni granello è identico,
non si separa dall’insieme,
tante gocce formano il mare
e nessuna sopravvive
senza appoggiarsi all’altra.

Sarà questo l’infinito canto, il mistero
che ci separa dal nulla, sarà
come d’incanto il tutto, l’insieme
che ci raccoglie.

E quando tutto sarà finito, sarà
un’unica grande vela,
l’acqua la pioggia e il mare,
un’unica grande forza il nostro pianto.

***

La mia scuola

La scuola che mi vide bambino
non aveva nome.
Una scuola sospesa tra terra e l’azzurro
di un cielo infinito,
un’unica stanza coi banchi anneriti
e un retro più piccolo che non si sapeva a cosa servisse
le scritte intagliate, un’unica penna e un pennino macchiato,
cartelli sui muri, l’amico seduto al suo posto,
tre classi soltanto,
(le crepe lasciavano un senso di attesa)
la piccola scuola di Pietra dell’Uso.
Non era la Frank, la Pascoli o l’Alighieri,
la nostra nemmeno portava il suo nome,
ma solo quel numero uno trascritto sul muro,
accanto alla chiesa, la nostra piccola scuola.

Tremavo dal freddo, le mani arrossate, chiudevo l’astuccio,
pensavo a mia madre.
Ed ora mia madre con altri cammina, il filo è spinato, non hanno giardini,
ma solo una strada che sale al mattino.

E vennero i giorni del freddo, ben presto si incontra il dolore,
assenze e partenze, le strade si incrociano a monte
c’è sempre una lapide al segno del passo,
una lapide bianca e solo quel nome.

***

In un colpo di tosse se n’è andato, questa notte,
pensava la moglie fosse un grido,
un grido o un sospiro di dolore, forse un gesto
quello che per anni attese inutilmente,
una carezza spenta tra le risa.

Se n’è andato così,
senza nemmeno un segno del dolore,
una morte improvvisa,
di sfuggita, in un colpo di tosse.

Ma morire così lui che aveva
fatto la guerra e poi anni di miniera,
chi l’avrebbe mai detto morire nel suo letto,
in silenzio, quasi di nascosto.

***

Se fosse già domani la partenza,
lascia andare,
non voglio rattristarti.
Ogni cosa, la stanza, i miei quaderni,
i libri ancora sparsi sopra il tavolo,
il disordine che era a me compagno,
tutto sarà presenza,
e sentirai in un soffio ancora un’ombra
l’attesa che sarà per nuovi giorni.
Allora prenderai le mie parole,
aprendo questo libro
e un poco triste sarò nei tuoi ricordi,
sarò come la rondine tardiva
in volo sopra il mare.

Lascia stare,
la foto,le immagini, i ricordi,
lascia passare il tempo, arriverà
il silenzio.
Ma se fossi tu, se fossi proprio tu
a lasciarmi – non mi piace pensarlo –
io non potrei, non altro.
Ripiegherai il capo triste aspettandomi.
Anche nell’aldilà ti cercherei,
ci metteremo d’accordo per chiamarci,
un gesto con la mano, di lontano, oppure
appena un cenno con lo sguardo
e basterà quel cenno per capirci.

16-17 aprile 2012

***

Me l’aveva detto Madame Jeuland
una sera d’ottobre nel vento di Marsiglia

“si metta lì e scriva e non faccia come Leonardo
che si perse a studiare muscoli e nervi
e non vide mai la luce il suo cavallo”

disse ma ancora non sapeva che in verità
non era Leonardo ma Walter Simmons
- il ragazzo la cui macchina tutta Spoon River
aspettava di vedere in funzione -
a cui dovevo somigliare,

così mi sono ritrovato un libro bianco
come Bernardo Soares a riempire
il mio libro dell’Inquietudine.

Se mi nascondo è forse per paura,
mi piace il paralume, l’ascolto di farfalle
notturne, il verso dell’assiolo e l’ombra,
mi piace scivolare di nascosto, cercare
l’ombra, la carezza leggera di una storia.

Non ho altro, affetti sì, amici, la famiglia
e mio nipote, ed è già il mondo,
ma la scrittura, quella sì che resta
lontana, spenta.

Leggere sì, imparare, crescere ancora
o forse non smettere mai il sogno
di navigare, io che non sono mai partito
da Montetiffi, da casa mia, nemmeno quando
ero troppo lontano per pensarlo.

Ed ora, ora che stride questa cerniera
e non è non è più la stessa
e s’intoppa ogni volta più spesso,
ora che la memoria già cancella
le cose del presente, ci mettiamo
a pregare in silenzio, a ricucire
il passato, a non dir niente.

***

Sulle tombe cresce l’erba, a ciuffi,
il convolvolo s’arrotola alle croci,
vi si attacca come un ultimo grido,
si spalanca la rupe un mare grande
di silenzi e di echi.
Tombe uguali, piccole, ben curate,
piccole barche in attesa di salpare,
ognuna col suo gesto di attesa
nei silenzi.

Se potessi anch’io essere qui,
come erba o radicchio che cresce
al lume della luna,
addormentarmi così, con tutto il mondo
in ascolto e la terra smarrita.


***

A volte mi chiedo perché scrivo.
e non ho ancora trovato le risposte.
Se la parola è comunicare, la mia
si chiude nel silenzio, non affronta
la prova, non si espande,
sfinisce ogni richiesta.
Me lo disse il poeta, non importa,
forse non salverà nessuno,
eppure serve, forse non a te poeta,
serve a me che ascolto.
Dunque la parola è ascolto,
scultura del silenzio, eco,
è la parola mia, la mia voce,
non altra, solo quella.
Se qualcuno bussa attendo la risposta
e dalla voce comprendo,
così dalle parole o da un gesto
la mia voce.


***

Arrivo in ritardo, sempre.
Ma ormai ci sono abituato, la mia storia
ha tre anni di gap, tre anni persi
quando studente ancora incespicavo
su qualche frase. Come è strano il mondo!
La stessa frase che forse un giorno mi donerà
quel poco che mi resta.
Così vado a ritroso, come il gambero,
cerco la pietra, il sasso, oppure quella rena
che si gonfia e respira con il mare.
Questa è la mia scommessa, la rivincita.
Così, come per farmi perdonare, mi levo dall’anagrafe
tre anni, tre anni persi che devo un giorno o l’altro ritrovare.
Son cresciuto in ritardo, arrivato sempre tre anni dopo,
i tre anni miei quelli migliori, quelli
che ancora sogno la sera, quando cade
una stella dall’alto.

***

Sempre così la sera!
A me il sonno viene alle ventuno, un tempo non era così.
M’accoccolo in poltrona, sgrano gli occhi, guardo l’ultimo telegiornale.
Ma non reggo allo strazio, mi stropiccio gli occhi,
un po’ come il pipistrello della fiaba che lessi al mattino.
Ma alle ventidue mi sveglio, è quella l’ora in cui inizia il lavoro,
mi basta poco per riprendere il viaggio, appena un’ora,
e mi metto di lena.
Traccio un disegno, una traccia e poi la voce, una parola stanca
e un altro segno, seguo attento il profilo
e intanto vedo sull’altra poltrona, quella che sta davanti,
lentamente piegarsi la testa di mia moglie,
sta per prendere sonno.
Così lascio il lavoro e guardo, un po’ distratto, il capitolo ultimo
di una storia nemmeno tanto nuova, che la tele ci manda.

Una unione perfetta è la nostra, anche nel sonno, collaboriamo,
abbiamo fatto un patto, ci guardiamo le poche cose che meritano,
fino alle ventidue lei, poi vengo io, e il giorno dopo, così,
per non morire, ci raccontiamo il tutto, cambiando a volte
anche il finale, tanto non ha importanza,
ogni storia finisce a modo suo.

***

Come le mamme, anche i padri
non dovrebbero mai morire.
Ma questo non accade, non accade mai.
Così guardo la casa che si perde
dietro il diluvio, la strada bianca laggiù,
e il fiume, quasi un rigagnolo appena sotto il ponte.
È lungo il buio, troppo profondo e grande,
un buco nero e il piccone che ancora picchia,
una lampada oscilla, quasi spenta.
Dove si va? Mi chiedo. Dove mi portano?
Ho la giacca strappata, il volto sporco,
un peso. Oh potessi strapparmi questo peso,
questa zavorra che mi porto appresso!
Mi sono perso, non si torna indietro,
qualcuno ride e non sa, non sa la storia,
ma sono pochi quelli che non sanno.
Questo è lo strappo, la ferita buia,
il sole che non parla, non mi spiega
il senso.

E la mia casa guarda laggiù la strada,
la polvere che lascia il sapore dell’andare,
il non ritorno si tinge di dolore.
Troppo presto, mi dico, troppo presto per capire,
ma si fa in fretta, si cresce a poco a poco,
si metton su radici, ci si sforza di trovare ragioni,
non come gli altri, le nostre hanno radici ben più profonde,
si ode solo il grido, la rottura
di questo indefinibile silenzio.
E mia madre ancora di profilo, che stampa alla finestra
il suo sguardo, in lontananze perdute
disattese.

***

Se dovessi morire io prima di te,
- già ne ebbi un segnale -
negli anni dolcemente invecchierai,
finché la sera
te ne starai in un angolo assopita
e leggerai queste mie poche parole.
Sarò io a darti la mia voce,
come non feci mai,
ricordando il tempo che ti ho lasciata sola.

Così ti piegherai sopra il mio libro,
pagine bianche che riempirai,
a modo tuo,
nel tenue malinconico silenzio.
Guarderai dai vetri, in lontananza,
ogni piccolo segno del mio passaggio,
il grano già mietuto, l’erba nei campi.

E basterà solo quel gesto con la mano,
un cenno,
che ancora ripeterai nelle parole
di un libro aperto,
mentre una pallida luce si scolora.

Saranno giorni lunghi, attese,
il grano crescerà, saranno gli anni
a ricordarti di noi.
E mi vedrai ancora con l’affanno
o la gioia di tempi non lontani,
mentre la voce, la tua, già si piega
a ricercarmi invano.

***

Non c’era proprio nulla da capire

E' difficile ma succede
che quel giorno sbagliando strada io ti incontrassi,
ma non poteva essere una cosa seria io che ti incontravo
solo per sbaglio,
se solo avessi preso un’altra strada…
Mi è sempre stato difficile
proporti le mie ragioni.
Allora ti feci leggere La strada non presa
di Robert Lee Frost
per capire la differenza. Lasciamo stare
la giovane Helen (in fondo la colpa era sua)
che non era arrivata puntuale in ufficio
e venne licenziata, ma nel film le storie si inventano
mi hai detto e poi hai lasciato cadere il discorso.
Non c’era proprio nulla da capire.

Così me ne sono andato, per ore camminando,
per ore, senza pensieri, il paese non è cambiato,
ho assaporato il silenzio, il suo strano profumo,
perché il silenzio di notte ha un profumo di cose antiche.
E qualche volta di pane.
Nel campo c’erano i girasoli, il capo chinato
a terra, in cerca del sole sapendo che domani
il sole sarebbe tornato

E le cicogne volavano più in alto, le cicogne
che vidi solo nei film,
come il mio amico, anche lui caduto per caso
accanto alla strada, ai limiti della scarpata,
senza nemmeno un lamento, come dormendo.
Non c’era proprio nulla da capire.






Ho camminato così, senza pensieri,
ascoltando il rumore dei miei passi.
Anche questi hanno un particolare rumore,
una cadenza che si ripete quando si è stanchi
e non si sa che cosa pensare.
Questo è uno strano paese, ci si addormenta
e ci si lascia andare.

Oggi hanno sepolto una donna, o quello che ne era
rimasto. È strano come il dolore prosciughi.
E come è difficile a volte morire.
Non lo è stato per mio padre.
Mia madre ha sopportato anche questo, per lunghi anni.
Non cera proprio nulla da capire,
proprio nulla.

E sono rimasto così, con questo peso addosso,
me lo sono chiesto tante volte,
è così difficile morire?

***

Ho sempre pubblicato un libro bianco
un libro bianco che non ho mai scritto,
ma è quello più riuscito, dove le parole
dicono quello che devono dire, non inventano nulla,
il mio libro che si sfoglia a rovescio,
perché le storie vere sono quelle che iniziano dalla fine,
me lo dissero in tanti,
scrivi, come se le parole fossero lì, dietro l’angolo,
ad aspettare.

***

Forse anche di me diranno un giorno:
«Guarda come si è ridotto, lui che sapeva
recitare a memoria i versi dei poeti,
dagli antichi ai moderni, perché diceva
“non ha età la poesia, è eterna”».
E me ne andrò strisciando a stento poche frasi
di poltrona in poltrona, il capo un po’ piegato
e l’occhio spento.
Me ne andrò così, a poco a poco, senza sorrisi,
nella poca luce dei mattini,
o forse troppo in fretta, perché rapida
è la vecchiaia, non si annuncia,
improvvisa ti arriva.
«Come è cambiato, diranno, lo vidi proprio ieri,
sul balcone, nella sua sedia a dondolo, dormire,
un libro aperto coi fogli che il vento rigirava».

Per favore, nessuna pietà, nessuna pena,
l’uomo che ero è là, è ancora vivo,
forse ha preso un’altra strada, forse ritorna,
chissà e intanto aspetta.

Notte, 25 luglio 2012 


Bruno Bartoletti nasce a Montetiffi, una piccola frazione del Comune  di Sogliano al Rubicone (FC), dove tuttora risiede. Laureatosi in Materie Letterarie presso l’Università degli Studi di Genova con una tesi su Giovanni Pascoli, dopo la nomina come assistente ordinario alla cattedra di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Torino, nomina a cui rinuncia, si dedica all’insegnamento, svolgendo poi la funzione di Preside negli Istituti Tecnici. Uomo di scuola e promotore culturale, presso l’Università di Aix en Provence ha svolto un Dottorato di ricerca d’Etudes Romanes con un lavoro su Dino Campana. Si è sempre dedicato alla poesia fin da ragazzo, ma solo in età matura ha cercato di dare ordine e sistemazione al suo lavoro. Nel 1997 pubblica il suo primo volume di liriche, Trasparenze – Frammenti di memorie, nel 2000 Le radici, nel 2001 Parole di Ombre, nel 2005 Il tempo dell’attesa e nel 2012 Sparire in silenzio ricordando il vento delle strade per conto di Youcanprint Self – Publishing. Numerosi sono i riconoscimenti ricevuti e molte sue poesie e recensioni sono apparse su diverse riviste e antologie di autori contemporanei. Partecipa a conferenze di letteratura e a letture di testi poetici dell’otto – novecento.

Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà