martedì 24 luglio 2012

Le "asimmetriche coincidenze" di Giancarlo Serafino


Torna su queste pagine, dopo un po' di tempo, ma sempre frizzante ed attuale, Giancarlo Serafino, con le sue poesie che sono staffilate potenti, capaci di incidere profondamente nel tessuto molle dell'indifferenza e dell'apatia. Quello che serve in poesia è infatti lo scuotimento dei sensi, il pungolo, il "pizzicotto" che ti fa risvegliare dal torpore indotto dalle abitudini e dall'omologazione generale. Sono qui proposte le "asimmetriche coincidenze", un titolo che svela le storture e i paradossi, mettendo sotto agli occhi (e al cuore) del lettore le verità che non sappiamo mai riconoscere e ribadire, neanche a noi stessi.
Merita, Giancarlo Serafino, una ulteriore ri-lettura per trarne ancora spunti di riflessione: gli amici, che ringraziamo, sapranno certamente annotare i loro preziosi commenti.

Asimmetriche coincidenze

Derrate

       …e che saremo mai
stretti nella morsa
con la ciminiera in gola
e tasche in gramaglie?

Se vomitiamo sesso
è che siamo ubriachi di lusinghe
derrate melatoniniche
che ci hanno lucidato il pelo.

    …e se poi la città c’inghiotte
in un feretro di notte
stiamo come fronde corrose
in nere zone industriali.

Muta

Non mi rinfranco.
Mi pesa il cuore ed il cervello.
Richiami di tritoni
lungo la costa dei binari
e passi di cani
ansie
strascicate
da una muta a brandelli
setaccio d’avanzi
del poco amore che mi resta.

Stazione

Fuggivo.
La calma è apparente
ma lo stomaco non mente.

Così ho vomitato nel w.c.
alla stazione.
Teatro aperto
circospetto
all’invasione degli dei.

Allodole

Entrando un odor di zolfo:
invece tu eri con un angelo
bello che era bello
non so quanto divino
spiumato al quadrivio
nel crocchio della circostanza.

Ci guardammo leali
che eravamo tre parentesi
uguali, allodole senza ali.

Bivacco

Cantieri e ciminiere
un parcheggio breve
per spulciarci timori.
Lussureggiando
svuotiamo il sacco
abbandonando
invisibili tracce
di vissuto sul selciato:
rimasugli alimentari
da bivacco, nutrimento
per galassie, sugo
non industrializzato.

Sensori di presenza

Perché tanto timore
per briciole d’amore.
Ora ci muoviamo goffi
sotto i sensori rossi:
scarnifichiamo la presenza
dissolvendo voglie
prova d’assenza
in totale paralisi.

Troveranno involucri
corrosi dalla ruggine
baci di polvere
ombre senza pene.

Fibra

Non so quale sia la ragione,
ma canto se vedo la fibra
che affida il cielo
in abbondanza
ai volti e alle mani.

Come se la mia si fosse esaurita
per i troppi tilt del cuore,
e cieco mi corre un desiderio
di energia
a scoprire il vero






della natura delle cose.
Per pagano intendimento
di bellezza
o
per cristiano asservimento
di colpa.

Attrazione

Se ruotiamo senza collisione
è per legge d’attrazione:
ci guardiamo distanti
da diversi quadranti:
eppure pensavo
che saremmo rimasti invischiati
nell’unto della prassi
ma l’abbiamo evitato

tanto
come aironi tra bitumi
non avremmo mai volato.
Meglio
guardarci senza dirci
rimanendo pure diritti
a leggerci la pelle.

A volte

A volte il desiderio morde
come una medusa
in tranquille acque.
E’ il volo di una capinera
sotto un acquazzone,
uncino di un male
privato e sociale.

Ma liberarsi in un godimento
concilia il sonno
di ogni dio nell’Universo
per quella dimensione naturale
d’incontro di linee
che fanno quadrare brame.
Se amore è dato...

Lievito

Arruffato tra la profusione
dell’oleandro
cesellavo passaggi
d’armonia
tocchetti d’assaggio
nel mare delle mie Termopili.
Certo che morire
è poco saggio
ai piedi di un feticcio!
Ma lievito è
...quel riprendersi del cuore
il battito.

Piccola mia resurrezione!

Gomme bruciate

La bella bocca
solca...

collina o guanciale
ricongiunge
il flusso
tra le due sonde:
così
si annoda
trasversale
il fraseggio di bocche
tra pile annerite
di gomme bruciate.

Atavico rito

Con il sole jojo
che traballa
la testa mi gira
il cuore mi sballa.

Troppo in alto
mi sono arrampicato
su rami di vene.
In basso un manto in rigoglio
da una criniera di seme.
Arricciato stordito
affusolato vacillo
ma non cado.


E’ atavico il rito
di rigenerare il caos
alterando semantiche
interlocuzioni.
Invito ancestrale
per il bronzeo occhio.

Scarabei

In un metro quadrato
eravamo la trinità dell’aro.
Una ventata di sabbia
nella gabbia-guardiola
e una fiamma sola
ad accendere il mare.

Poi tutto è passato
e sono stato a guardare
uno scarabeo stercorario
affaticato a trascinare
una pallottola di futuro.

Forge

Spiga negli occhi
è il tuo pulsare
forse schiavi del mare
se c’inchinammo
in un atto d’amore.
Poi il lento variare
ci dissolse in un limite
di sguardi invalicabile.

Dolce fatica di cercare!
Accumuliamo nel salmastro
forge arroventate
per la fine dell’estate.

Senza tegole

Attratto da un tratto
di scoglio
mi son scoperto
nudo.
Senza tegole
un capriccio di fumo
in libertà.

Ho pisciato
vicino ad un luna park
spento:
la ruota ferma
un omino di pece
rideva
e pioveva, pioveva sulle sue
e sulle mie scoscese.

Un gabbiano mi ha guardato
dal braccio dell’omino
e si è alzato al di là
del mio limbo.

Incertezze

Incerti ci saremmo presi per mano.
Ma fiammammo osservando le paranze da lontano.
Uno scoglio in due. Muti per apparenza
aspettando...
Parlavano solo frangente e gabbiano.
Ma per principio d’evasione
quello scoglio presto fu nuvola
e tradì l’attesa: soffiammo così nell’altezza
sui colori della pelle.

Resta d’aglio

Ci sono posti che sono altari
e tu sei agnello
in vani scoperchiati.
E non sai per quale rito
levighi corpi con la lingua
per farne un’ostia di lusinga
un impasto pellesaliva.

E con l’ombra che avvolge
se non fosse per il faro
d’un metronotte
non sapresti dove esistere
se in fondo al pozzo
o sul bordo d’una diga.
Si sa: nel mondo usa e getta
è gran fatica conservare
il rosario dei momenti
labili sentimenti a volte
appesi come resta d’aglio.

Un balsamo

Bere negli occhi stille di vita
e leggere tutta la fatica
di un fiore tormentato
dalla salsedine.
Nella fronte umida conchiglia
concava la mia lingua
per affresco di frenesia.
Ma tu chi sei?
Dal mare spumeggiando
m’hai avviluppato in un uragano
che non promette sole.
Ma la luce è nello sguardo
velato da prato sottomarino
e nel tuo essere tra gli scogli
un cuscinetto di timo.

Oh bramosia di un attimo!
Ti respiro per quel che basta
un balsamo e tiro avanti.

Giancarlo Serafino (Campi Salentina 16 Luglio 1950) ha pubblicato, nel 2003, “Passaggio d’estate”, Zane Editrice, con presentazione di Giuseppe Vese. Sempre nel 2003 è stato Premio Athena per la poesia “Nenia che galleggia sull’Adriatico”. Ancora per la Zane Editrice nel 2007 ha pubblicato “Per canto e per amore” con la presentazione di Giuliana Coppola. Nel 2011, per i caratteri di CFR edizioni, ha pubblicato “Poesie sociali e civili”, a cura di Gianmario Lucini, con note di Enzo Rega ed Antonio Spagnuolo. Presente in antologie nazionali: “Impoetico mafioso” “SalentoSilente”, “La giusta collera”, “Oltre le nazioni”, “Ai propilei del cuore”, ”A che punto è la notte”, ultimamente è stato inserito nel primo volume della CFR “Enciclopedia degli autori di poesia dal 2000”. E' poeta apprezzato nel web, dove sue poesie appaiono in diversi blog, gruppi letterati e riviste (egli stesso è amministratore del gruppo “Cenacolo”). Docente e Psicologo vive e lavora a Lecce.

domenica 15 luglio 2012

L'Umano vibrante nella poesia di Nazario Pardini


Non il rimpianto di una umanità più buona e autentica, quando la "natura si sacrificava paganamente sui roghi, nei forni e sulle corti, per consegnarci i suoi profumi", non la denuncia più o meno velata di ingiustizie, delle eterne ingiustizie che sconquassano il tessuto sacro della pace e della collaborazione: ma un più veemente e vibrante canto, sebbene controllato con poetica maestria, che possa costituire memoria fondamentale e patrimonio culturale per proseguire consapevoli e giusti sulla strada evolutiva della storia. Questo, in sintesi, è quello che si può trarre dai testi di Nazario Pardini, che qui di seguito offriamo alla lettura attenta degli amici che ci seguono. Si tratta di una poesia matura, forte, icastica, che si snoda con tonalità altamente musicali, e che riverberano nell'animo del lettore affezioni e sensazioni veramente intense.
Chiediamo agli amici poeti di aggiungere qualche loro gradito commento o riflessione, perchè la poesia di Nazario Pardini, con la sua musicalità e i suoi richiami, è senz'altro punto di partenza per ulteriori scandagli nei nostri cuori e nelle vicende del nostro mondo attuale.





Cantavamo
 
Cantavamo, paese, se affogavi nel giallo dei granturchi.                           
Cantavamo sui pavimenti
dove si stagliava la luce del camino.
Cantavamo sopra gli alari
arroventati dalle pire delle potature
(la loro colpa era quella di avere chiuso la stagione).
Cantavamo romanze,
i cui eroi vincevano battaglie
che noi perdevamo ogni giorno, ogni ora
(cavalli bianchi, cavalieri e palafrenieri incorruttibili dal tempo).
Anche le madri cantavano già vecchie trentenni
e muovevano le mani gesticolando sui ritmi.
Mani tumide per le umide terre delle prode.
Eppure ogni anno la natura si sacrificava paganamente
sui roghi, nei forni e sulle corti,
per consegnarci i suoi profumi
(profumi che io conobbi sempre eguali
e che sembravano non soggetti a mutamenti).
Cantavamo romanze e stornelli
coi vinelli freschi del novembre.
Quando le botti ci accompagnavano
coi loro vocalizzi profumati,
rossi e iterati come gli strappi delle roncole.
I padri coi riti tramandati dagli aruspici etruschi
roteavano il primo liquido nel vetro predicente                           
per misurarne il corpo. Era la festa delle cantine,
la stessa festa che più volte presso gli antichi
avrà veduto Bacco e Cupido aggirarsi divertiti
al suono di zufoli e litofoni.
Cantavamo preghiere che Pan ci ispirava di ringraziamento
pei fulvi grani, pei pampini rossicci o pei vermigli frutti;
preghiere che i pagani
consegnarono pietosi nelle mani
dei cristiani facendosi santi.
Cantavamo senza perché la madre eterna
potesse anche essere ingiusta.
La pregavamo sulle strisce d’oro dei tramonti;
se esplodeva nei protervi affollamenti estivi;
se cadeva stanca meritandosi la morte;
o se riposava sotto i diluvi e le gelate.
E sembrava persino ringraziarci
o chiederci perdono
per le siccità, per le carestie o le morti precoci;
lo faceva turgida coi crisantemi e gli asfodeli
sui  suoi cimiteri
aperti al cielo colle loro croci.

(Da "Radici". Edizioni Giuseppe Laterza. Bari. 2000)


Giù per i sassi 

Giù per i sassi
e in mezzo alle rovine
zoppica il piede incerto e vacillante;
la mente torna
su templi e mura ardite,
su donne della Caria
di forme trasparenti,
prospicienti i fianchi.
                                       
Bianchi uccelli
stendono le ali
sopra i viali di una tarda sera
e passeri su lastre di millenni
beccano insetti su scavati solchi
da carri tusci di antenati antichi.

Vacilla il piede sopra sassi austeri
e l’animo si turba
se la vista si rivolge al cielo,
al giorno che termina la sera.

Sassi di marmo
crepuscoli di fuoco
vita leggera satura di morte:
corte le strade della nostra gente
drizzano templi
sopra verdi mari
immensi altari per i loro dèi.

(Da "Le voci della sera". L’Autore Libri Firenze. 1995) 


La fuga

Il rumore del popolo vaniva
allo strèpere del treno. Le madri,                                     
i padri con i figli si accalcavano
alle barche. Non c’era più timore
tra di loro; bramavano soltanto
penetrare sulle luride zattere            
adatte per i porci. Si pestavano.
L’umanità spariva. I genitori
premevano le braccia sopra i corpi
indifesi dei figli. Dalle bocche
usciva un po' grigiastro (come quando
si agita il vento nelle forre e porta
in alto il turbinio) un fumo denso.
E si era aperto il mare. Là accalcati
gemiti umani defilati ai venti
zuppati di salmastri e di miraggi.
Era il fiottìo dell’onde ormai affidato
alle mani grecali. La speranza
era la fuga. Si pensava di certo
ad un paese nuovo
che offrisse quel motivo sacrosanto
di vivere di pace e di lavoro.
Lasciavano alle spalle quei natali
d’odio e d’eccidio di anni in cui il regime
aveva reso vano ogni pur minimo
valore di esistenza. Più la patria,
più la terra degli avi o un solo lembo
di cielo, d’orto, o di giardino che
ricordasse qualcosa della verde
giovinezza o della veneranda
vecchiaia, permaneva. Solo brama
di fuga. Solamente antiche voglie
di rinverdire libertà sognate
anche a rischio di morte o peggio ancora
di morte della prole, li spingevano
su quel mare turbato dalle grida
di speranza, di dolore e di sgomento
su fuscelli di legno. E venne terra.
Terra amara di scogli dove le onde
divelsero le mani abbarbicate
alle livide sponde. Dove i flutti,                                       
con irruenza, spesso si prendevano                                                               
solo i corpi di carne. Ormai gli spiriti
avevano di già varcato i limiti
tra sogno e realtà, tra turbamento
e pace. Dai relitti                                                                
si vide uscire un volo di falcate.      
Saranno stati angeli.                                                                          
Ma forse solamente dei gabbiani
nelle sembianze uguali a stormi d’anime.

(Da "Si aggirava nei boschi una fanciulla". Casa Editrice ETS. Pisa. 2000) 

Carso

Sopra i suoli innevati dei declivi                                                    
del Carso, ci apparve poi una donna                                             
novantenne, coi fiori nelle mani
tremolanti e insicure. Tra la neve                    
(rossa neve di morte fu il suo dire
del quale noi restammo assai perplessi
e certamente avvinti) rovistava                       
per dissodare un varco. Poi si aprì
ai nostri occhi una voragine di un
cunicolo di monte. Sono tipiche,
in quei pianori carsici, le foibe.
Pochi i raggi di sole incastonati
in quei tepali brevi di stagione
tra la neve macchiata  dal livore
delle rocce supreme. Con la voce
rotta dall’emozione volse l’occhio                  
al nascosto strapiombo: “Inverne fosse
che contenete i resti di mio figlio
in fondo al ventre buio, ricevete
questi colori memori di luce.
Fate che questi sprazzi di giardino
che vide i nudi piedi barcollanti
di lui che fu bambino, gli ricoprano
i resti mescolati assieme a tanti
di cui conosco i nomi. Il solo cippo
al quale posso dire una preghiera
è questa nuda pietra, silenziosa
compagna di due legni messi in croce
che solo io conobbi e solo io
ne eressi l’esistenza. Troppe voci
non si udirono più, troppo potere
si scordò di quel sangue”. La mia anima
si rivolse alla donna che in silenzio                                
chiedeva solamente                                                                                                                          
rispetto del dolore. Ripeteva
le solite parole un po' sconnesse
tra di sé. “Coi camion, mi dicevano,                               
li portano al lavoro.
Camion zeppi di giovani e di vecchi.
Ma tornavano vuoti.
E vuoti ritornavano dai lividi
sentieri. Mi dicevano che i camion
li avrebbero portati sul lavoro
in cima al monte. E muti ritornavano,
ritornarono vuoti verso il piano”.

(Da "Si aggirava nei boschi una fanciulla". Casa Editrice ETS. Pisa. 2000) 



Da “Il canto di Saffo”

* * *
[…] Vorrei vedere di Elena il barbaglio
sopra il suo viso chiaro, vorrei scorgere
di Elena il portamento, il femminile
incedere. Di ciò sono bramosa,
di questa libertà che provo anch’io
nel fondo del mio seno. E questo è umano,
è divino ed eccelso. Quest’amore
che strugge il mio sentire, la mia carne.
Cola sudore, un tremito mi preda,
mi faccio verde, più verde dell’erba
mi vedo, che la morte così tanto
lontana poi non pare. Ed il tuo trono
è vario e le tue trame sono subdole
Afrodite. Raggiungimi, raggiungimi.
Già un’altra volta ti giunse la mia
voce distante. Tu l’esaudisti.
Avevi messo al giogo del tuo carro
passeri lievi. Ed eri trascinata
sopra la terra bruna dal frullio
folto dell’ali. È questo il carro d’oro
che strugge la mia anima e dattorno
alita canti, suoni e incantamenti;
non di certo lo fanno i carri lidi,
o il greve stridere bronzeo dei fanti,
od il nitrire tetro delle guerre. -

(Da "Il Canto di Saffo" in "Alla volta di Leucade". Baroni Editore. Viareggio. 1997)

Ignoto verso il mare

Il cielo è terso e il bianco della luna
quasi inneva i miei campi. I passerotti
rapinano il tepore delle piume
sui rami che sperano dal cielo
nuove buttate da donare ai nidi.
È febbraio. Non vedi per i campi
traccia di paesani; tutto è fermo.
Persino lo svolare
attende l’ora calda. Mi soffermo
sul prato più vicino a casa mia,
calpesto il suolo,
e il piede batte fesso sul tostato.
Ma è il mese che si avvia
a prometterci speranze; la mimosa
staglia il suo giallo sopra la campagna
e ricorda il colore di ginestra
che gonfierà l’estate. A te mi dono
mese di nostalgie! Di quando a sera
ci si accostava al fuoco con un animo
già pronto ad incontrare primavera:
il piede scalzo, le corse fra le vigne,
la sorpresa di un nido tra i filari.
E ti rivivo,
seppur la mia speranza
non cova rami in fiore;
e anche se negli spasimi
di due colombi sopra la grondaia
me la ricordo lesta,
ora è la voglia d’altro
che mi riporta a un fiume
e mi trascina ignoto verso il mare.

(Da "L’azzardo dei confini". BookSprint Edizioni. Salerno. 2011)

Nazario Pardini è nato ad Arena Metato (PI). Laureatosi prima in Letterature Comparate e successivamente in Storia e filosofia all’Università di Pisa è inserito in Antologie di un certo rilievo; per citarne alcune: “Delos” (Autori contemporanei di fine secolo) edita da G. Laterza, Bari 1997; Antologie Scolastiche “Poeti e Muse” edite da Lineacultura, Milano 1995, 1996; Antologie “Blu di Prussia”, di E. Rebecchi, Piacenza 1997 e 1998; Antologia Poetica “Campana” di P. Celentano, A. Malinconico, e Bàrberi Squarotti, Pagine, Roma 1999; G. Nocentini, “Storia della letteratura italiana del XX secolo”, S. Ramat - N. Bonifazi - G. Luti, Helicon, Arezzo ‘99; Dizionario Autori Italiani Contemporanei, Guido Miano Editore, Milano 2001; Dizionario degli autori italiani del secondo novecento, a cura di Ferruccio Ulivi, Neuro Bonifazi, Lia Bronzi, Edizioni Helicon 2002 e in innumerevoli Antologie di Premi Letterari. (Docente di Letteratura Italiana), ha pubblicato 22 opere di poesia, prosa e saggistica, fra cui :  Alla volta di Leucade, Mauro Baroni Editore, Viareggio 1999, con prefazione di Vittorio Vettori, finalista al Premio Viareggio e vincitrice dei Premi Letterari: “Violetta di Soragna”, Parma; “Mirabella Aeclanum”, Mirabella Eclano (NA); “Tanzi”, Firenze; “Le Muse”, Pisa; “Paestum”, Pestum; “Il Forte”, Forte dei Marmi; “Micheloni”, La Spezia. Radici, Casa Editrice Giuseppe Laterza, Bari 2000, con prefazione di Aristide La Rocca, vincitrice del Premio Letterario Paestum; Si aggirava nei boschi una fanciulla, Casa Editrice E.T.S., Pisa 2000 (Nella terna Mussapi, Pardini, Baudino, al Premio Pisa 2000);  Riccardo. Racconti brevi, Edizioni Booksprint, Buccino 2010, vincitrice del Premio “San Maurelio”; L’azzardo dei confini, Edizioni Booksprint, Buccino 2011, vincitrice del Premio Letterario “Arti Letterarie”, Torino, del Premio “Aeclanum”, Mirabella Eclano, del Premio “Pontremoli”, del Premio “Toscana in Poesia” e de Premio “Val di Vara”. è critico e prefatore. Molte delle sue opere sono state edite come vincitrici di Premi Editoriali. È stato invitato dal direttore dell’Istituto di Cultura Italiana a New York a presentare la sua attività letteraria. E’ stato tradotto in Francese, Inglese, in Spagnolo.

martedì 10 luglio 2012

Musica e poesia nei versi di Federica Giordano


Musica e poesia, poesia e canto, melodia e ritmo. Il sentire e il vibrare dei suoni nell'intimo, con una poesia accorta e delicata, emergono evidenti nel dettato poetico di Federica Giordano, nuova voce femminile ma già dotata di ottimi registri e originalità di espressione, che non è mai monotona, bensì ricca di variazioni tonali. E la sua poesia abbraccia tutto il possibile, dalla riflessione intima alla descrizione dei quadri esterni, che comunque offrono lo spunto ad ulteriori meditazioni e riflessioni. Il che fa di Federica Giordano una poetessa completa, ottima osservatrice, autentica, capace di tradurre in versi qualsiasi situazione, sentimento o stato d'animo.
Proponiamo qui di seguito, per i nostri affezionati lettori, sei poesie: le prime quattro inedite, le ultime due tratte dalla sua raccolta "La parte che ti ho affidato", BoopenLed Edizioni, libro che è stato recentemente presentato con successo a Sant'Anastasia dal Circolo Letterario Anastasiano.
Saremo grati a tutti gli amici che vorranno aggiungere qualche loro interessante commento.

Ad un liutaio di Praiano

Salvo nel suo guscio d’ostrica,
vive col tempo degli intagli.

Solitario davanti agli attrezzi,
aspetta che l’intarsio guidi la mano
come si fa con la carezza,
che l’occhio si stringa dopo la sosta
sul piano di lavoro del mare,
che quel suono sentito su pagine antiche
non gli sia troppo lontano.

Poi rintanato tira la voce ai figli
raschiando il palissandro,
luminoso ciliegio, apre le labbra,
gli allarga le vocali,
gli scava il timbro nella gola.

Solo nel suo guscio d’ostrica,
l’artigiano del mare,
l’ebanista di suoni.

***

Le nostre mura

Voglio pensare
che sia sempre lì
il suono che abita la casa,
che io possa trovare
i tuoi segni grattando
con le unghie le nostre mura.

Posso dire domani
senza che mi crolli addosso
il dominio delle ore.
Senza che il cardo
dove cammino si butti
disilluso, nel vuoto.

Mi prendo il tempo che serve
per farti bambino.

Sarò sempre sull’orlo
spiegazzato della curva,
il ponte mobile
tra fede e misura.

Irresponsabile!

Quante uscite di scena
silenziose o a grande voce
oltre la visione.
La memoria è il regno della neve.

Il soffio che io cerco.
Voglio che tu metta sulla mia mano
la perla dell’infanzia più segreta,
quel passato che escogita lunghe trame,
che ancora fa cosa, ancora misura.

E’ la contrazione involontaria che nascondi,
l’impressione che non vuoi dare,
e poi casuale, l’invenzione.

E’ questo che nelle unghie
voglio serbare.
Niente segna il corpo
più del lavoro.
La sfregatura delle mura,
e i lividi sulle dita
mi fanno mani da sarta
segnata ma viva.


***

Pompei

Bianco sboccia un palmo
dalla gracile terra
come tonda conchiglia,
come scheletro di gesso
si apre la mano dal terriccio;
ossute si stirano dita
nel cielo, vino rosato nel vetro,
gli insetti cuciono ronzando
le sagome alla pietra.
Emerge dal sonno
quell'umida mano,
oltre lo strapiombo della storia,
dove il gabbiano plana,
poggiando le ali alle ombre
dimagrate della sera,
lì dove le cose cadono insonni .

Quella pietra longilinea
è il risveglio di madre antica,
posata sul suo resto,
il movimento anchilosato
dell'affresco.

***

Sotto una lampada rotta

Sotto una lampada rotta,
si raccoglie come una lumaca
la voce del teatro.

Quel verso corale
che ha unito
i bianchi ascolti.

Una voce d’inverno,
forse nostalgia della neve,
i suoni azzurri affidati alle nebbie.

Visi da commiato
con in bocca una fresia,
un applauso ai fiori.

Voglia di ascoltare
lì a Montedidio.

***

Le sorgenti

Riecheggiano attraverso gli anni
i rumori del passato sommerso.
Acque svelte e pure,
riempiono svelte
gli orci dei contadini sudati
sotto il sole delle campagne,
lo sguardo all’aratro e alle figliuole;
le mani rosse come la terra dei campi,
lo scricchiolare delle carriole.
Anche le donne accorrono
agili alla conca naturale,
saltano sulle asperità
dei visi delle madri, rughe di Puglia.
Le giovani spose, con tonfi regolari,
sciacquano via la prima notte di nozze,
la sera precedente era finita presto,
quando la luce dietro le persiane
si era spenta prima,
il bianco candore delle lenzuola,
pulizia sorgiva sotto occhi
partecipi e bocche chiuse.
E pulizia delle anime della gente,
si confessa sommessa,
acqua corrente, pensieri e parole
di genitori e di prole,
insieme, i ragazzini
in là guardano al mare,
saltellano sugli scogli,
scrutano in basso, cercano i granchi.
Le donnine si bagnano le gonne.
Dal cuore della terra
l’acqua continua a parlare,
il popolo si accorda e canta,
canta storie e sorprese,
la vita del “tristu Furese”.

(Testo tratto da “La parte che ti ho affidato”, Boopen Led Edizioni).

***

Un’altra idrografia

Sussurra l’acqua
gocciolando alla grondaia.
Uno scricchiolio legnoso
risponde, resiste tra fitte corde di pioggia.
Giunge all’orecchio,
continua il ticchettio dei tetti,
lo scroscio delle pozzanghere
sovrabbondanti.

Sul mio viso c’è un’altra idrografia,
più silenziosa delle altre.

 (Testo tratto da “La parte che ti ho affidato”, Boopen Led Edizioni).

Federica Giordano è nata a Napoli nel 1989.
Si è laureata con 110 e lode in Lingue e Culture moderne con una tesi in traduzione letteraria dal tedesco dal titolo “Traduzione e traducibilità della poesia. Porcellana di Durs Grünbein”.
Nel 2008 ha pubblicato la raccolta poetica "Nomadismi", Edizioni Il Filo.
Nel 2009 è stata autrice del testo in musica "Favola di Mezzanotte", musicato dal compositore G. Mancusi.
Nel 2011 ha pubblicato il volume di poesie "La parte che ti ho affidato", Boopen Led Edizioni.
Suoi testi hanno ottenuto segnalazioni a premi e concorsi, tra i quali il Concorso "Omaggio a Mario Luzi.
Alcune sue poesie vengono pubblicate su riviste specialistiche e siti di poesia.
Numerose le partecipazioni a reading poetici e rassegne letterarie.
Tra i suoi interessi, la musica e il tango argentino.









mercoledì 16 maggio 2012

Le "meditazioni al femminile" di Michela Zanarella

Una poesia sincera, aperta alla vita e all'amore, quella di Michela Zanarella, giovane poetessa padovana ma già esperta nel manipolare la parola poetica, per trarne la migliore forza espressiva. Sono "meditazioni", quelle che qui presentiamo, tratte da un libro edito che avrà sicuramente fortuna, che si soffermano sulla vera essenza della vita e sulla plasticità e bontà delle immagini, del proprio mondo intimo come di quello esteriore.
Abbiamo scelto alcuni suoi testi, tratti appunto dalla raccolta edita "Meditazioni al femminile" (Sangel Edizioni), nella certezza che i molti amici lettori vorranno esprimere un loro spassionato commento.



LAPILLI  DI  VITA

In queste ossa
viaggio
e insieme mi porto
lapilli di vita.
Scavo calore
consumo il fiato,
amo.
Voglio andare
con la pelle
a restare magia
nel destino.
Voglio esplodere
di te
e sapere il sapore
del mare.

INSIEME OLTRE

Sogno un altrove,
un respirare
nuvole ed eterno
a nutrirela schiena
di vapori ancora intatti,
ancora nostri.
Insieme oltre gli schemi della fine,
ci spingeremo alati
sulle assi del tempo,
come a scoprirci nudi
per la prima volta,
nervosi d'amore,
pronti a scavare intimità
d' acque e universo.
Non svaniranno le falangi
in fiamme,
non morirà il sudore avido
di gioco,
consumeremo il cielo
gocciolando innamorati sui marciapiedi
del destino.
Fradici di sensi
esisteremo anche
dove assente è l'infinito.

MONGOLFIERE

Una lacrima cresce tra le mani,
diventa fiume in corsa nelle vene
appena ti allontani.
Non vivo senza il chiaro dei tuoi risvegli,
quando mi baci prima di partire
e stringi il cuscino per annusare l’odore
che ci ha unito nell’infinito.
Ho ascoltato il canto delle serrature
fingendo che fosse solo musica,
ho visto il tuo sorriso svanire
dietro gli angoli d’uno sbadiglio.
Dormo ancora.
Appari dentro i colori d’un arcobaleno
voli nelle mongolfiere dell’anima,
spargi coriandoli di vita dalle sponde del cielo,
accompagni un bimbo al parco della giovinezza,
un uomo abbracciato alla propria immagine
che gioca con palloni di luce
nelle strade bianche della libertà.
Il sogno respira la mia mente.
Trovo una pagina di terra da riempire,
scrivo col fiato qualche domanda,
chiudo gli occhi
e parlo di te alla solitudine.

E  RESTIAMO  COME  VELE

Davanti a noi il cielo accantona
nuvole e lontananza,
soli di ghiaccio e panni rossi.
La vita è lì
che ci scorre negli occhi
e nelle vene
tra grossi dubbi e silenzi.
Suonano i passi
dellerughe che scrivono
il tempo dentro e fuori
le carni.
Ci avvolge la notte,
la furia del giorno
una terra materna
ed un mare che sfila sussurri
dondolante.
E restiamo come vele
ad aspettare che si spogli
un sorriso all'orizzonte.




PADRE

Padre,
mi vanto del colore e del suono
che ridendo rincorri
per stagioni e grembi di luce.
Dico alla pelle
quanto entrambi affondiamo radici
in estro e città.
Occupi sempre più
il profondo del mio giocare alla vita,
quello spazio di somiglianza calda
alle vetrine di un sogno.
In parte nel tuo asfalto di uomo
cerco vapori d'eterno orgoglio,
quel silenzio che so
veliero di grande calore.


SCARTAFACCI DI VITA
(a Pier Paolo Pasolini)

Nelle fragilità del tempo,
tra miserabili scartafacci di vita
è ancora umano
amalgamare parole e coraggio
al costato
di un glicine e ad obliqui occhi
di città.
Pier Paolo, patimento oscuro
è dentro le vestali del tuo quartiere
e nel ciclo di pietre assorte
a diventare silenzio.
Tradito come un autunno
in maledizione
è stato il tuo canto di verità.
Non si accorsero che assassinando
un guscio secolare di saggezza
estirpavano fiore universale di poesia.

DEI TUOI NAVIGLI
(ad Alda Merini)

Era bacio maledetto
quell'arteria di luce
chiusa nelle ultime saggezze
di novembre.
Quello sguardo ingordo di poesia
svaniva dietro impulsi astratti
d'autunno.
La morte molestò ilsuono
dei tuoi Navigli,
sconvolse il verde dei tuoi respiri.
Alda, io in te cerco radice ai miei silenzi,
sogno riparo ad un equivoco di solitudini.
Intorno a una grandezza di ciglia
e orizzonti,
i miei umili spiragli d'istinto scapigliato
come intoccabili destini
alla tua memoria concedo.

MEDITAZIONI AL FEMMINILE

Mi scopro
in una gradevole epidermide
insieme ad arterie e volontà preziose.
Non mi curo del tempo
e del silenzio
che entrano come pioggia.
Il cielo e l'amore
appagano il mio fiato
dopo un privilegio
divino alla vita.

Michela Zanarella, poetessa, scrittrice, giornalista, ama la letteratura e l'arte in ogni sua forma ed espressione. E' nata a Cittadella (Padova).
Inizia a scrivere poesie nel 2004 e scopre un talento naturale nella espressione della vita in versi.
Ottiene alcuni risultati nel campo della poesia come le menzioni di riconoscimento nei concorsi Beniamino Capparelli nel 2005 e Don Luigi Riva di Varese.
Ottiene pubblicazioni in diverse antologie di poesia a tiratura nazionale.
Pubblica una sua prima raccolta di Poesia dal titolo Credo con L'associazione culturale MeEdusa. La raccolta ottiene un buon riconoscimento popolare con una tiratura di mille copie.
Partecipa attivamente alla diffusione della poesia sia come mezzo di comunicazione sia come elemento di dibattito tra i giovani.
Tra le sue passioni troviamo la letteratura internazionale con particolare interesse per la letteratura francese, lo studio dei grandi pittori della storia, i viaggi e la conoscenza di nuove culture. E' stata ospite alla trasmissione radiofonica di Rosanna Perozzo su Radio Cooperativa a Padova.
Alcuni articoli sono presenti su quotidiani quali il Mattino di Padova, il Gazzettino di Padova, il Padova, la voce dei Berici.
Ha partecipato alla trasmissione televisiva "Poeti e Poesia" di Elio Pecora su Televita, a Roma.
Risvegli, ed. Nuovi Poeti, è la sua seconda raccolta poetica.
Ha ottenuto il primo posto assoluto al premio"Calogero Rasa" di Palermo, secondo posto al premio "L'aquilaia", Grosseto, secondo posto al premio "Invito alla poesia" di Trieste, menzione speciale al premio "Irpinia mia" di Avellino.
Ha iniziato a scrivere i primi racconti nel gennaio 2008.
Ha collaborato alla realizzazione del libro "Solitudini dentro" di Carmen Tomasi, ed. Nuovi Poeti.
Nel 2009 ha ottenuto menzione di merito nel concorso internazionale poesia e immagine "Marco Pantani", si è classificata al terzo posto al "Premio Animo Animale" di Pordenone, primo posto al Premio "Anime e luci 2008", a Padova, secondo posto al premio "La Rondine", di Trento.






martedì 8 maggio 2012

Nuovi inediti di Alessandro Canzian


Ricordo di aver iniziato questa fortunata rassegna di poeti e di poesie "in transito" proprio con Alessandro Canzian, poeta e critico, nonché responsabile della Casa Editrice Samuele di Fanna (Pordenone). Grazie a lui, molti poeti hanno trovato spazio in questa rubrica.
Riproponiamo ora, molto volentieri, altri testi del validissimo Alessandro Canzian, tratti da "Histoire D'O" - (versi attorno al Luceafarul), un poemetto dal tono delicatissimo, confidenziale, immediato, in cui l'amore è visto e vissuto intensamente, nel ricordo ma anche nel momento contingente.
Attendiamo, come sempre, i graditi commenti dei lettori affezionati e degli amici poeti.


                    *

                                   E poi
è quando più ti manca il fiato
che la ami. Quell'immagine

inconsistente che fa memoria.
                 Quella goccia di saliva
- dalla tua bocca alla mia bocca -
che ti manca e che sublimi
col cibo o la Grafenwalder.

Ma che non passa dal cifrario
       delle cose dette e non andate.

                  *

È pericoloso dirsi amore,
dirsi il mio corpo è solo tuo.

Perché poi uno ci crede
creandosi un'iconologia dell’altro,
quasi un dizionario dei dettami,
                delle carezze.

E poi arriva un insetto qualunque
che si appoggia sulla pelle,
              e non è più tua.

               *

Dicono la poesia sia grande
            quand’è necessaria,
quando te la chiede il mondo
-in realtà lo dice Guido ma
è come lo dicessero tutti-.

Fa un po’ ridere questa presunzione.

Sopratutto se per scrivere hai
bevuto birra doppio malto e hai
                     pianto tanto,
ma non lo puoi dire.

             *

                   Sai, potrei dirti che
ho provato un male inimmaginabile
a sentirti andare via.

Che ho pensato anche di morire
nel banale desiderio
                di farti un po' del male.

O potrei dirti che sono felice
                    che tu sia felice,
ma sarebbe una bugia.

E allora non ti dico nulla
            per non sbagliare ancora.

                     *

Che poi siamo stati fortunati.

Che se t'innamoravi di lui che
avevamo già una casa due auto
un criceto che scappava dalla gabbia
un qualcosa di preso in prestito e
non tornato, qualche figlio
              - non credo solo uno -
pensa che guaio sarebbe stato.

Così almeno, non abbiamo fatto soffrire
                   quel criceto.  

                    *

Oggi ho visto un uomo che
                        sembrava felice.

Usciva dal lavoro di corsa
                    col sorriso slanciato.

E mi sono chiesto se anche lui
                  torna a casa in questo modo.

Dove tu lo aspetti, le calze
prese all'Adriatico di Portogruaro
            e il reggiseno sotto
col brillantino luminoso in mezzo

-tutte cose che abbiamo comprato
insieme, ma non gliel'hai detto-

                            A volte
siamo così banali nei pensieri.

                     *

Oggi ho voglia di stare male.

Di ricordare i pomeriggi in cui
dicevi “assolutamente oggi non voglio
                             fare l'amore”,
e si finiva col gioco delle ombre
                 - l'uno dentro l'altra -
senza nemmeno accorgersene.

Le cose migliori vanno fatte
                        parlando d'altro.

*

Ieri ho incontrata una presunta
                                   poetessa,
poi tu mi hai scritto che sei triste
ed era da tanto che non ti sentivo.

E ho pensato a quel mio professore
del Liceo, diceva "Ragazze se il
vostro ragazzo dice che siete più
belle quando piangete state
attente, cerca solo un pretesto per
                                 picchiarvi".

E allora mi chiedo se anche io
ti ho fatta piangere per averti
                   un pò più bella.

                    *

“Però le cose cambiano”
mi dici dallo zenith
                    d'un accento
che non mi è possibile tradurre.

E forse hai ragione che
il male ha da venire
per curare ciò che resta
                         delle cose.

                          Ricordo
quella volta di Bordano
- alla Casa delle Farfalle -
tu ridevi della mia paura
degli insetti e non sapevi
che anche una farfalla sa far
                                     star male
quando ha le ali troppo grandi.

                        *

Ti racconto la mia malinconia.
È l'entrare in un negozio sapendo
che già ci sarai stata a braccetto
con lui, o mano nella mano, o
in una qualunque altra forma
                                affettuosa
che ti ha legata a un altro uomo.

È l'ascoltare una donna che mi vuole
curare la tristezza con un'ora
                               - forse due -
nel letto, quasi madonna dolorosa
                       in un atto di pietà.

È il ricordare il sorriso del tuo volto
                        sapendo che lui lo bacia.

E questo sapere che ti ho amata
per 3 anni sette mesi e quindici giorni
e qualche movimento della terra
                               intorno al sole.

                     *

              Ti racconto la tua dolcezza.

É la tua mano che posa la mia mano
                                     sul tuo seno
-e nemmeno te ne accorgi, io
provo a scostarmi ma tu
                                    ritorni-.

É il mio toglierti le scarpe interrompendo
                              i tuoi discorsi
-il tempo ci ha in fondo regalato
                         due paia di ciabatte -.

É il tuo abbraccio che evita le labbra
con dentro agli occhi un'altra cosa.

L'amore è un libro che si chiude
con un ultimo estratto scritto
                     sulla quarta di copertina.

                         *

Ti racconto cos'è la mia passione.

È un letto che da solo mi è troppo
                     stretto e corto,
e con te troppo lungo e vasto

-ci abbiamo fatto il Kamasutra
intero e anche la seconda edizione,
                             ricordi?-

È l'averti guardata così a fondo
                     da farti vergognare.

E l'averti desiderata sulle scale
              mobili d'un supermercato

-e ti eri girata e mi avevi sorriso-.

Ed era il sentirti dire che sei casa
dove farmi entrare per un bene
                      solo mio, solo nostro.

                            *

Ciò che resta di noi, dopo di noi.

Una pioggia al di là delle montagne
o un verso come una bocca di leone
                                 sferzata dal vento

-una citazione, un plagio delle cose-.

Qualche memoria dentro i muri
                      d'una stanza, o in macchina

-il tuo odore tra le strade di Padova
e Udine, e Claut, dicono che
l'elenco dei ricordi sia già
                                  una bella poesia-.

E un tremore nelle mani per il troppo
                                      amore provato.


                          *

Sono stato al laghetto dopo più
di un anno dalla nostra apocalisse.

                   Tutto era come allora.
Gli stessi steli d'erba le stesse
                                    papere
-almeno credo- la stessa polla
d'acqua dove ti regalai la stessa
                                    rosa.

Mancavano solo i nostri baci
                                   lunghi,

il tuo sentirti bella dopo
aver fatto l'amore e il mio
sentirmi l'unico uomo
                                  per te.

Mancavano anche i tuoi occhi
dello stesso colore dell'acqua.


Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà