venerdì 28 luglio 2023

Il baratro po-etico in cui tutto degrada: la Vora, di Mara Venuto

Non potrebbe realizzarsi una robusta architettura poetica (ma questo vale anche, generalmente, nelle altre espressioni artistiche) se non si attinge, dapprima, alla profondità del proprio vissuto esperienziale, per capire, comprendere, qual è il segreto nocciolo che ribolle laggiù, che agita i nostri sonni e preme, urge, per essere messo in luce. Naturalmente, questa materia primeva e quasi del tutto inconscia deve essere poi “lavorata” dall’intelletto dell’artista, e questo è ovvio. Allora, nulla di più indovinato e sacrosanto è nel titolo di questa recente raccolta poetica di Mara Venuto: Vora. Indovinato ed emblematico, perché, partendo proprio dal presupposto che il titolo è, in qualche modo, sintesi del contenuto, dell’argomento o dei temi che l’autore va ad esprimere nei suoi versi, questo termine, vora, tratto dalla tradizione lessicale pugliese ma chiaro anche in altre culture, sarebbe giusto la metafora del baratro inconoscibile e magmatico che è in noi. Ma si tratta di un baratro particolare, qui, non personale ma una sorta di precipizio etico in cui il implode tutta la realtà circostante. E' anche il latente, l'inconoscibile che è segretamente riposto in noi, ma è soprattutto un luogo (o non luogo) di oggettivo disagio.
Mara Venuto è senz’altro poetessa autentica e sensibile, attenta osservatrice dell’animo umano ma soprattutto del rapporto tra umanità e ambiente sociale: lo abbiamo già ampiamente notato e confermato in una breve nota di lettura circa La lingua della città, la precedente interessante raccolta poetica della nostra autrice. Qui, in Vora, Mara Venuto affonda la sua “lingua” nel baratro delle inconcludenze, delle sospensioni, dei mancamenti e quindi delle precarietà e dei bui di un’esistenza fortemente segnata da disvalori e da peculiarità negative che investono non solo il tessuto sociale e territoriale, ma anche, appunto, il comportamento e le relazioni umane: “Alla terra perpendicolare la caduta, / la vergogna dei cani deposti a marcire…”. Mara Venuto, con la sua sensibilità poetica, acutizza giustamente il degrado e la caduta sempre più in basso nel baratro che, come una vera e propria vora-gine, tutto inghiotte e distrugge, ma lo fa per evidenziare e per allarmare prima di tutto sé stessa e poi l’intera società, su tali problematiche negative dell’esistenza; e la poesia non è pure denuncia civile, etica e morale?
Ma non è rassegnazione, quella di Mara Venuto. La sua poetica canta, con versi perentori e asciutti, ricchi di rimandi allusivi, una realtà che si precipita nell’oscurità, ma nonostante ciò appare sempre un orizzonte, un confine di luce dolce e pacato, uno scenario che sottintende un recupero, una redenzione, una speranza… “Patria di case e tumuli / che sostano in piedi / e non muoiono con noi, / la nostra terra…” Come pure i ricordi, la memoria, forse unici viatici in grado di frenare la caduta verso il basso, la perdita definitiva della nostra umanità! (“Un sacramento è rimasto in quel muro. / Lungo stanze di pari colore, fra odori estranei / la misura del tempo è ferma alla calza del padre / piena di carta come un pallone…”).

Proponiamo per i nostri lettori qui di seguito alcuni testi tratti da "Vora", di Mara Venuto, peQuod Edizioni, 2023; prefazione di Giovanni Laera


Alla terra perpendicolare la caduta,

la vergogna dei cani deposti a marcire.

Vagare innocenti a due a due,

sui talloni il peso del domani e il suo travaglio,

la lucida sapienza delle viole.

In eredità lasciarsi calici dove nessuno beve

e restano come un danno nelle mani.

 

 ***

 

La notte di San Lorenzo cadevano i pudori

e il mare era rosso di fuochi artificiali.

Le mani aggrappate ai fianchi e agli occhi,

le bocche adolescenti aperte

fino a strappare gli angoli

un film muto per corpi inadatti a esibire le voci.

 

Ancora intatti sapere l’orrore di invecchiare.

 

Rigurgitare vissuti acidi su madri deboli

e ossa lancinanti di fronte alla vita.

Dentro le nostre spoglie e i letti sfatti

si apre il buco in cui sparire.

 

 ***

 

La senti questa vora che tradisce,

sulla bocca dove cade il conto delle ore

è orma impressa e distrutta,

l’amore dei nostri deboli intenti.

 

Lasciarci scomparire.

 

All’occhio velato e a quello rapace

emergere come larva,

bozzolo che nutre la volontà.

Con i denti aggrapparci al fiore

e strappare i petali come bocconi.

 

 ***

 

Non esiste più il luogo

e non esistiamo noi nel luogo.

Avevamo risposte a domande pesanti

e le abbiamo fatte morire

dentro a nessuna espressione.

Il luogo eravamo noi e

poi l’abbandono.

Rifiutare una terra e averla fra i denti

come fibre indigerite

mentre si cerca un posto.

 

 ***

 

Dalla tua finestra il mare non esiste,

affoga nell’inverno meridiano

rivelato dalla trasparenza.

Sopra i giardini della serra comune,

atterra in un verde aspro la strada provinciale.

Tutto è provinciale,

l’ambizione e il rancore,

nella pace del pomeriggio,

nel silenzio colante.

A fatica si naturalizza una memoria familiare,

si fanno talee dalle radici sepolte,

mai rassegnate all’esilio.

Viviamo altrove, era scritto.

 

 

 ***

 

 

Scorrere con acqua e reliquati,

trovare purezza nel filtro,

la misura del tempo

è nei muri rabboccati.

Invecchia il coraggio

fioriscono lampioni in città

non si vede la bestia nel buio,

una ragione per odiare.

 

Patria di case e tumuli

che sostano in piedi

e non muoiono con noi,

la nostra terra

terra del sangue e del tradimento

aspetta

le dominazioni, la tregua

nulla.

Il mio paesaggio sprofonda

e non si disfa intero.


Mara Venuto è nata a Taranto, vive a Ostuni. Tra le sue pubblicazioni premiate: i monologhi teatrali Leggimi nei pensieri (2008), The Monster (2015, testo finalista al Mario Fratti Award 2014 di New York per la  drammaturgia italiana); le raccolte poetiche Gli impermeabili (2016), Questa polvere la sparge il vento (2019), La lingua della città (2021). Ha curato e pubblicato numerose antologie, tra cui un ciclo di volumi al femminile; è inclusa in molte opere collettive di poesia, prosa e teatro. È presente in volumi critici dedicati alla poesia italiana femminile. Suoi testi originali e corti teatrali sono stati rappresentati con buon riscontro di pubblico e critica; sue poesie sono state tradotte e pubblicate in otto lingue. È stata ospite di Festival internazionali di Poesia, tra cui: IX Festival di Poesia Slava a Varsavia nel 2016; XV Festival Trirema e poezisë Joniane a Saranda (Albania) nel 2021; XXVI Festival Ditët e Naimit a Tetova (Macedonia) nel 2022.



mercoledì 19 luglio 2023

La poesia di Giovanna Secondulfo in "Cenere e ciliegie"

Cenere e ciliegie è il titolo di questa interessante e artistica raccolta poetica di Giovanna Secondulfo, edita dalla Daimon Edizioni nel corrente anno. Dico anche artistica, perché, oltre alla veste tipografica ben curata, il libro è corredato anche di immagini fotografiche all’inizio di ciascuna sezione di cui è composto. Ma naturalmente il nostro principale interesse sta nel contenuto della raccolta e nella modalità di scrittura poetica utilizzata dall’autrice. Già il titolo è alquanto esplicativo, ed è formato da due termini che suggeriscono una contrapposizione. Infatti, la prima espressione, cenere, sembra voglia riassumere, in un certo senso, tutto quanto è destinato a consumarsi, a diventare, appunto, cenere; con ciliegie, invece, c’è da sottintendere una sorta di rinascita, in un ciclo perenne che vede la natura risvegliarsi e gli alberi rifiorire.
Giovanna Secondulfo attraversa quindi questi stati d’animo che tendono, da una parte, alla consapevolezza che la realtà circostante ha un progressivo calare di tono fino all’esaurimento delle energie (“Albeggia lontano una luce, / il vero che brucia / l'iride scomposto, / cola la cera / dalla lucerna / in preghiera…”), mentre dall’altra appare uno spiraglio di luce e di speranza, in ciò che la natura offre a simbolo di rinnovamento e di rinascita (“…È un sorso nero e bianco di vita che sarà. / Una promessa segreta di felicità”…). In questo alternarsi dimidiata tra cenere e ciliegie, la nostra poetessa riesce a trovare un equilibrio di continuità e di appagamento, specie nella memoria e nei ricordi che la legano alla sua terra natia: “Sono nata laggiù, terra feconda, / d'estate rovente, / rose rosse con il capo all'ingiù, / femmina pure. / Di nocciole e uva sapida l'aria, / ai piedi di un monte arrabbiato, / sbuffi di fumo e lanci di pietre.” Il tipico ambiente vesuviano si manifesta infatti in molte delle sue poesie in questa raccolta, dove il dolce e l’amaro, l’asprezza e la morbidezza, la violenza vulcanica e i colori vividi della terra e del cielo, si mescolano in un tutt’uno di forza creativa, di potenziale distruttore-rigeneratore di frutti e di umori, di caratteri e di sentimenti, di emozioni e di genialità.
La raccolta si divide dunque in due sezioni, cenere e ciliegie, ma introdotte da una pre-sezione intitolata semplicemente “poesia”, come a voler disporre su un ideale ripiano i motivi ispiratori, le intuizioni e le ricerche preliminari che daranno poi corpo a tutta la raccolta. Raccolta che in tal modo si presenta organicamente realizzata, con un celato filo conduttore rappresentato da una parola poetica efficace e propositiva, nonché con un procedere fluido e gradevole, anche per la scelta di centralizzare i versi, captando in tal modo maggiormente l’attenzione del lettore.
Ma ecco qui di seguito alcuni suoi testi, tratti appunto dal libro "Cenere e ciliegie":

Verde di poesia


Verde di meriggio,

di sole pallido

ad asciugare ciò che resta,

acquitrini di rane festanti

e grilli nascosti.

Verde di cielo annoiato,

sbuffi di immagini poco disegnate,

formicai in fila solenne

e gazze nascoste su rami agghindati.

Verde di me,

riflessa in armonia di tempi passati,

verde di desideri

fermi dietro le spalle,

verde di vita che,

carponi,

zoppicante,

per mano

è tornata.

 

 ***

 

La mia poesia

(omaggio ad Agnese Coppola)

 

Sono venuta,

scalza,

erba alta e caldo tra i noccioli.

Bianca la veste,

stirata dall'aria,

e capelli alle spalle discinti,

pennellati di oro.

Occhio aperto

sul davanzale dell'orizzonte

a dire parola,

incisa nel palmo della mano,

chiuso finora.

Parola,

stanza aperta,

glicine in fiore a capanna di sogni,

zolla di zucchero,

terra bagnata dopo la pioggia,

carezza.

Il tuo dono, il mio respiro,

avara di prendere il largo,

ammainare la vela,

singhiozzare tra i giorni,

consolare.

 

***

 

Cenere e ciliegie

 

Sono nata laggiù, terra feconda,

d'estate rovente,

rose rosse con il capo all'ingiù,

femmina pure.

Di nocciole e uva sapida l'aria,

ai piedi di un monte arrabbiato,

sbuffi di fumo e lanci di pietre.

Sono nata da acqua di sale,

scale e scogli di gelati al caffè

e passi di piedi lungo una via

che di meta di vita il sapore ora ha.

E canti, corse di cielo,

foglie secche e angoli di muro in preghiera

di futuro che adesso c'è.

Sono nata laggiù

da una terra in festa,

magia di luci,

oca grigia in un recinto,

ventre di vacca,

trubbea rossa di ciliegie

e arance amare.

Sono nata su un fianco di terra precaria,

dove le mani stringono i sogni

e hanno braccia lunghe di umanità.

 

 ***

 

Vendemmia

 

Rivedo le mani,

il sole che sorge

tra i rami,

i filari vedovi di colore.

Grappoli e pampini cadere.

E la sera,

brace spenta,

tini traboccanti,

l'odore si spande

tra i vicoli.

Settembre è allegria, raccolta e riposo.

Settembre è incontro, fatica e bellezza, un

dipinto scolorito e frizzante,

la vendemmia dell'anno che va,

bagaglio pesante di

malinconia. È un sorso nero e bianco di vita che sarà.

Una promessa segreta di felicità.

 

 ***

 

Mamma

 

Ti tesserei sulla linea del tempo

con ore di rosso

e minuti di verde,

tempo di un tempo

di punti lontani,

aghi di filo e mani

su un braciere di fuoco

quasi spento.

E storie di fate, maghi e merletti

con fiori blu

su pietre bianche

e tutto l'arancio di una cucitura di passi lenti

che ancora io sento.

 

 ***

 

Commiato

 

La fine del giorno arriva,

la luce abdica e i pensieri si lasciano sdraiare sotto le coperte.

Qualcosa finisce e lascia sul tappeto briciole di egoismo,

bello provare a non essere quello che siamo,

spingere la linea più in là, nel recinto più vicino e venderlo come scomodo.

La luce è abdicata, si dorme un sonno finalmente tranquillo,

in attesa di un'alba che regala speranza di nuovi

e felici sentieri.

Non ne sentirò la mancanza

 

 

 ***

 

Addio

 

Andare

domani,

cieli più tersi i pensieri,

passi desueti,

finestre di grano,

la terra bagnata sa di terra.

Che sento?

Aria nuova,

tra i miei lunghi capelli, brivido bambino,

malinconia laggiù di te.

Ti lascio e vado,

corro via dalla nebbia,

dorme sul lago, eterea, funesta, meravigliosa.

Ti lascio passare,

scorrere via acqua del tempo, altro io vado a cercare.

Ti abbraccio ora,

non prevedo ritorno

 

 

 ***

 

Me stessa

 

Braccia aperte,

cuore chiuso,

dei chiodi la ruggine

ha cancellato la testa.

Le trappole usate,

parole,

a pungere prima,

tagliare poi

l'ultimo briciolo di coraggio per volare via.

Le gabbie non amano,

celano il dramma del drappo

che gli occhi sentono

della follia.

Non sento, ma vedo,

non resto,

L'amore indossa un'altra veste,

me stessa.


Brani tratti da:

Giovanna Secondulfo, Cenere e ciliegie, Daimon Edizioni, 2023


Giovanna Secondulfo ha origini vesuviane, ma vive a Milano, dove insegna lettere.  Impegnata in numerose iniziative culturali e sociali, è da sempre appassionata di scrittura.   Collabora con diverse case editrici ed ha contribuito alla realizzazione di diverse raccolte antologiche, come “Rosso” con Ivvi Edizioni e  la più recente silloge “Il colore delle parole” con Jack Edizioni. Premiata più volte in concorsi letterari, giurata in diversi concorsi letterari,  è autrice delle  sillogi poetiche “Angoli di vita”, edita da InEdition e  “Cenere e ciliegie” edita dalla Daimon Edizioni. E’ stata insignita del premio Sorellanza 2021 dalla prestigiosa associazione My Emotion Life”, con cui collabora alla realizzazione  di incontri poetici nel programma settimanale “Pillole di Umanità”. Giurata in diversi e noti premi poetici è il presidente del premio poetico “Benvenuta Sorellanza”.




"Così l'anima invoca un soffio di poesia": poesie scelte di Rita Pacilio. Lettura critica di Franca Alaimo


Accogliamo qui di seguito una approfondita analisi critica di Franca Alaimo per il libro "Così l'anima invoca un soffio di poesia", di Rita Pacilio

Così l'anima invoca un soffio di poesia

poesie scelte di Rita Pacilio, Marco Saya Ed., 2023

         «La poesia è soprattutto linguaggio»: così risponde Rita Pacilio, intervistata da Gabriele Ottaviani (“Convenzionali”, 12 Aprile 2022), ribadendo la funzione precipua della scrittura poetica come strumento di rivoluzione etico-estetica attraverso la decostruzione di un sistema comunicativo piatto, ripetitivo, fatto di una serie di convenzioni utili al mantenimento dell'ideologia e della cultura dominanti.

Nasce anche da questa postura intellettuale l'interesse dell'autrice per il deragliamento linguistico dei cosiddetti malati mentali, i più vicini alla libertà creativa dei poeti. Ad essi è dedicata una sezione dell'ampio volume edito recentemente da Marco Saya, nel quale converge il meglio delle sillogi già pubblicate da Rita Pacilio nell'arco di un ventennio.

Osservando i malati mentali nella loro dimensione quotidiana l'autrice sceglie di nominarli per sottrarli all'anonimato in cui i “diversi” vengono di solito abbandonati (Loro sono lì, nel posto più lontano della solitudine) come inutili cose senza identità: Alfonso ha le ali di un angelo bianco e Massimo disegna nature morte, e poi c'è lei, l'addensata di sorellanza viva, che, pur costretta nella camicia di forza, persino l'aria avrebbe sconfitto; e soprattutto li riconsegna allo spalancamento verbale all'interno di uno spazio poetico in cui possano non solo riconoscersi, ma alonarsi di un privilegio sacro (Ho pensato che Dio ama l'insicurezza/ e le sfumature dei dirupi) secondo un parallelismo non troppo peregrino con i mistici, i cosiddetti folli di Dio, che proprio per il loro linguaggio insolito, fuori dalle formule della preghiera canonica, sono sempre stati stigmatizzati dalla Chiesa.

Dallo stesso atteggiamento immagino consegua la predilezione dell'autrice per la musica jazz con il suo fraseggio improvvisato (alcuni testi di questa raccolta sono dedicati, infatti, ai cosiddetti mostri sacri di questo genere musicale, quali Billie Holiday e Charlie Parker) ma sempre tenuto costantemente insieme dalla logica armoniosa del ritmo, che è anche il presupposto della struttura versificatoria della Pacilio, al di là di metri e rime canonici.

Di fatto, il linguaggio della Pacilio, e non solo in questa sezione, si accende frequentemente di un'ardita visionarietà, specchio di una spiritualità che fa emergere nei suoi testi l'invisibile che brucia dentro e oltre le cose visibili, in virtù di un sogno conoscitivo, in cui gli opposti si abbraccino per tornare all'unità del Tutto. La chiave di indagine è il sentimento dell'amore e il suo contrario. La scrittrice, proprio perché vede la realtà e il suo inquieto disordine ed ha preso piena consapevolezza del male e del dolore, li elegge quali temi della sua scrittura, affidandole il compito di elaborarli, poiché è soprattutto dalla discesa ai propri inferi che si può risalire alla luce, secondo la lezione magistrale lasciataci da Dante.

La produzione poetica di Rita Pacilio è intessuta, infatti, di molti riferimenti autobiografici, come nella bellissima silloge “Quasi madre”, il cui titolo allude già ad un doppio disamore, quello della madre, ormai in preda alla demenza senile, per la figlia e di quest'ultima per la madre, se è vero che anche la figlia fallisce spesso nell'amore dell'accudimento Si tratta di testi coraggiosi, spesso dialogati (sebbene le parole sembrino il più delle volte non passare dall'una all'altra) in cui la memoria del passato incrina la volontà di pacificazione, acuendo la ferita iniziale, portando alla superficie frammenti di gesti e messaggi risalenti all'età infantile della poetessa che ostacolano il passaggio dall'odio al perdono, sebbene non lo precludano per l'insistere della tensione emotiva verso la comprensione con cui, come dice la stessa parola, afferrare i lembi del trauma e ricucirli.

Mi sembra di ravvisare in questa drammatica autoanalisi l'attitudine propria della sociologa Rita Pacilio che a Giorgio Moio (“Cinque colonne Magazine”, 19 Febbraio 2023) dice: «Attraverso e mi lascio attraversare come sociologo, ma soprattutto come persona, dalle varie patologie degli esseri umani che vivono una condizione di alienazione, marginalità, sofferenza”. Come sociologa, l'autrice sa bene come il trauma per antonomasia sia la mancata accoglienza genitoriale, proprio perché sperimentato in un'età senza difese, così come ci ha raccontato in “Quasi madre”;  ed è per questo che il filo conduttore del sillabario poetico di Rita Pacilio resta, in tutte le raccolte, l'indagine del sentimento amoroso in tutte le sue sfaccettature, perfino in quelle più degradanti, come possono esserlo il sesso a pagamento, lo stupro, il possesso inteso come atto di dominio e non di condivisione. Tutti i versi sono segnati da una partecipazione vibrante, da una struggenza di perduta innocenza, ma anche da una necessità di verità sostenuta dalla forza delle virtù teologali della Fede e della Speranza, di cui sembrano farsi angeli nunzianti la bellezza e la grazia della Natura e il bene che gli uomini sanno reciprocamente scambiarsi. Occasione tutte di quello stupore coincidente con la ricerca di Dio – innanzitutto, nell'interiorità di ogni uomo – senso autentico dell'atto del poetare.

Il capovolgimento semantico delle parole, spesso adottato dalla Pacilio, e talvolta portato alle conseguenze estreme dell'absurdum, come si diceva all'inizio di questa nota, contiene, infatti, a mio parere, anche un elemento di cristicità, se è vero che il verbo del Figlio di Dio capovolge le gerarchie, riscatta la donna dalla sua inferiorità, rinnova la Tradizione, smarca la pratica religiosa dalla paura, e consegna all'Umanità intera una paternità amorevole. Ora se questa sequenza di azioni viene spostata nell'ambito scritturale della poesia religiosa o più ampiamente spirituale, qual è quella di Rita Pacilio, dobbiamo convenire che essa s'avvera con pienezza.

Rita Pacilio ci dimostra, come scrive Christian Bobin che “abitare poeticamente il mondo” «è molto difficile, ma è fattibile. Ed è tanto più necessario che il mondo si perda, si rovini, si laceri. È molto più necessario che si aprano qua e là dei pozzi di luce”. Poeta è, insomma, chi dalla distruzione salva quanto serve alla ricostruzione, chi dal dolore ricava semi di luce per ripiantare la vita non nell'oscurità del Male ma nella chiara luce dello Spirito. A tutto questo mi sembra si accordi perfettamente il titolo stesso del volume: “Così l'anima invoca un soffio di poesia”.

Franca Alaimo

Rita Pacilio (Benevento, 1963) è poeta e scrittrice. Sociologa di formazione e mediatrice familiare di professione, da oltre un ventennio si occupa di poesia, musica, narrativa, letteratura per l’infanzia, saggistica e critica letteraria. Direttrice del marchio Editoriale RPlibri è Presidente dell’Associazione Arte e Saperi. È stata tradotta in nove lingue. Sue pubblicazioni:

Per la ​​poesia​​: ​Luna, stelle e ... altri pezzi di cielo – (E.S.I. 2003); Ciliegio forestiero (LietoColle 2006); Tra sbarre di tulipani (LietoColle 2008); Alle lumache di aprile (LietoColle 2010); Di ala in ala (Pacilio – Moica, LietoColle 2011); ​Gli imperfetti sono gente bizzarra (La Vita Felice 2012); Quel grido raggrumato (La Vita Felice 2014); Il suono per obbedienza (Marco Saya 2015); Prima di andare (La Vita Felice 2016); Al polso porto catene (RPlibri 2019); La ferita dei fulmini (GaEle Edizioni d’Arte 2019); La venatura della viola (Ladolfi 2019); Quasi madre (Pequod 2022); Di ala in ala con Claudio Moica (RPlibri 2022); Così l’anima invoca un soffio di poesia – poesie scelte - (Marco Saya 2023).

Per la prosa poetica: Non camminare scalzo (Edilet 2011); L’amore casomai (La Vita Felice 2018).

Per la saggistica: Pretesti danteschi per riflettere di sociologia (Guida Editori 2021); Assunta Finiguerra: il fuoco della poesia (RPlibri 2022); Sui prerequisiti retorico-valoriali del fare poesia Rivista Metaphorica, semestrale di Poesia, Anno I numero 2 (Edizioni Efesto 2022).

Per la narrativa: Cosa rimane (Augh Utterson 2021); Il bambino d’oro (Pequod 2022).

P​er la letteratura per l’infanzia: La principessa con i baffi (Scuderi Editrice 2015; Cantami una filastrocca (RPlibri 2018); La favola dell’Abete (RPlibri 2018); La vecchina brutta e cattiva (RPlibri 2019); Tre gemelline ballerine (RPlibri 2022); Tre gemelline sognano (RPlibri 2023).

https://www.rplibri.it/rita-pacilio/

 

 



mercoledì 5 luglio 2023

"La strada verso il canto": l'articolato itinerario esistenziale di Rossana Jemma

C’è sempre un punto di partenza, e generalmente questo punto è oscuro, incerto, perché dubbiosa e incerta è inizialmente l’anima che tende a chiarirsi, una volta incamerati gli infiniti perché che la vita va impostando quotidianamente. E questa ricerca è comunque più assidua, più convinta, nelle anime dei creativi e in particolare dei poeti, che continuamente si interrogano sui grandi e fatidici quesiti che la realtà circostante ci sottopone. E non si tratta soltanto messaggi provenienti dall’esterno, bensì, e in modo direi anche più drammatico, di domande che emergono pressanti dalla propria realtà intima. Il poeta è consapevole e sensibile, forse più degli altri, perché riesce a trovare, anche saltuariamente, questi “momenti” quasi evanescenti, in cui estraniandosi da tutto il mondo circostante, riesce a concentrarsi e a mettersi in “comunicazione” diretta con il proprio inconscio. Trovare la strada, dunque, una strada che porti all’illuminazione? Non è detto, ma comunque una strada che sia percorribile con fiducia e curiosità, anche se questo dovesse comportare una sorta di tristezza o di delusione (a dirla con Baudelaire, come la nostra Autrice in modo aderentissimo al suo progetto poetico, suggerisce citando in esergo alla prima sezione alcuni versi del Poeta).
Ma dove potrà condurre questa strada? Ovvero, che cosa l’Autrice vuole raggiungere, quale meta o quale stato (interiore o virtuale) la nostra poetessa tenta di traguardare?... Forse non è tanto il traguardo, ma il viaggio in sé verso qualcosa, che interessa Rossana Jemma, perché è il cammino, il percorso, in fondo, che può fruttare emozioni e scoperte, conoscenze e speranze, non proprio l’arrivo, fonte di possibili amarezze e delusioni: “E perché non - ogni sera - / la chimera incurante / che non preclude niente?...”.
La strada verso il canto diventa così il giusto itinerario dei sogni e delle speranze, a prescindere dalla meta, che comunque sta lì, asintotica e (forse) irraggiungibile. Laddove il canto non è altro che l’aspettativa di uno stato d’essere più libero, più illuminato, più “naturale”, similmente ad una farfalla che vive intensamente la sua breve vita, prima di essere travolta dalla realtà di una terra che sgretola ogni ala.
C’è dunque questa intensa consapevolezza della necessità di imboccare questa strada verso il canto, di intraprendere un viaggio in avanti, malgrado tutto, malgrado gli ostacoli che ne rendono arduo il procedere: e sono ostacoli descritti bene, metaforicamente, nelle tre sezioni del libro (Buio e aritmie, Fantasmi e presenze, Canto e speranza). Tre sezioni, tre prospettive diverse, che si congiungono al termine nell’evanescenza della speranza, ultima sezione introdotta con una citazione della Dickinson: “La speranza è quella cosa piumata che si viene a posare sull’anima, canta melodie senza parole e non smette mai”.
Ottimo libro, con il quale Rossana Jemma costruisce con una modalità lirica veramente pregevole la sua idea di percorso esistenziale, fatto di solidi ricordi, di incertezze, di delusioni ma anche di illuminazioni, di sogni e di speranze.


Ritmo spezzato

 

Il cammino ebbe inizio

con una forte esplosione

 

Si spezzò il ritmo

si fermò il cuore

 

Li sommerse il fragore

tutto fu ronzio di fondo

 

Accordi stonati

nell’urna dell’inazione

 

 *

 

Farfalla

 

Una mano forte ti colse

quand’eri farfalla

appena dischiusa

fremente

in mezzo alle vibrazioni

dell’aria frizzante

Un tocco di roccia friabile

ti spinse su in alto

ti rese più abile

poi finì col bloccarti

al suolo

e in un cupo assolo

ti spappolò le ali

 

 *


Avvinghiata al buio

 

Avvinghiata al buio

pregno di disincanto

ogni tanto

rivolgo un inno sacro a Dio

- ch’Esso sia o non sia -

ormai così assenti gli uomini

Piegati da dita potenti

- capo chino verso il basso -

ora incapaci di cogliere

della terra i sussurri

Intenti a giocherellare

come putti ignari del male

o pure a osservare

da dietro vetri scuri

che inghiottono l’anima

come si muore in guerra

come inghiotte il nostro mare

 

(dalla sezione “Buio e aritmie")

 

 ***



In sogno sveglia

 

Stanotte nel sonno

ho ancora parlato con te

Senza nome ma così attento

di voce vera - eri -

di sguardo limpido

di carni fragili e languore

che veglia tanto reale mai fu

 

Vivida nel sopore

di un sogno palpabile

quale dei due me è veritiera vita?

Il risveglio - ogni dì -

possibile nell’incedere

delle ore illusorie?

E perché non - ogni sera -

la chimera incurante

che non preclude niente?

 

Attendo ancora

l’apparizione che Morfeo concede

nutrimento di corpo e mente

e troppo mortale - col giorno -

indossare gli abiti

del rinascere - talvolta -

mi è insufficiente

 

In questo pulviscolo d’incontro - forse -

ci uniremo veramente

 

 *

 


Fantasma

 

Sarei tornata un pomeriggio

in quella strada spoglia

- senza via d’uscita -

Avrei salito le tue scale

per entrare già colpita

nella tela dell’intelligenza

- a lungo agognata -

Avrei avanzato lieve

in volute di fumo

trapassando gli arredi

e - di sbieco riflessa -

crocifisso in quel dipinto

avrei incontrato te

e - senza scampo -

avrei ritrovato me stessa

 

(dalla sezione “Fantasmi e presenze”)


***


Salvata dal canto

 

Ero ancora sul ciglio di me stessa

- sopra un tiglio stamattina -

quando un canto d’usignolo

come incanto mi ha destato

 

Una giornata di nuova poesia

sorta da queste melodie

- omaggio di madre Natura -

potè ricominciare e poi finire

 

Nel suo ristoro verde-antico

dall’alto di un florilegio

nutrito con difficoltà

proverò ancora a sostenere il cielo

 

 *

 

 

Ancora vivo

 

L’Eternità - tutta -

sento racchiusa

tra il sole e la sabbia

in un anfratto accecante di pace

 

Il Paradiso - intero -

espande in me

la sua nitida assenza

da un prato di ciclamini al mare libero

 

Perciò respiro e ancora vivo

 

(dalla sezione “Canto e speranza”)


Brani poetici tratti dal libro La strada verso il canto, di Rossana Jemma, RPlibri, 2023, prefazione di Maria Allo.

Rossana Jemma vive e lavora a Parigi, ma ha sempre mantenuto un forte legame sentimentale e professionale con l’Italia. Docente di italiano e francese, traduttrice e operatrice culturale, ha tradotto e/o collaborato con diversi artisti, drammaturghi contemporanei e poeti tra cui Ricci/Forte, Randazzo, Ceresoli, De Novellis, L. Prosa, Zinna, Maffei, Badea, Pollina. Anche in qualità di traduttrice e studiosa di poesia, ha collaborato a molte pubblicazioni (su Caproni, Pascoli, Marinetti, Pozzi, Buzzati, Zanzotto, Bontempelli…) e a diversi incontri culturali sulla letteratura. Ha collaborato alla pubblicazione del doppio volume di prose e poesie inedite di G. Caproni Caproni a 100 ans, con cura e traduzioni di M. Rueff, R. Jemma e J.P. Ferrini (edizioni Po&sie n. 137-138) e partecipato a diverse rassegne e festival internazionali volti a diffondere la letteratura, il teatro e la musica italiana in Francia tra cui «Les Italiens à Paris», «Festival del libro e della cultura italiani», «Le pouvoir de la parole: les nouvelles dramaturgies italiennes», «Festival Canzoni & Parole». Nel 2021 ha ottenuto la menzione d’onore al Mediterranean Poetry Prize. Sue poesie sono apparse in diverse riviste e antologie di settore. La strada verso il canto è la sua opera prima.




lunedì 3 luglio 2023

La "Tenebrezza" di Davide Cortese

Riproponiamo ben volentieri qui Davide Cortese con una sua recente opera letteraria, Tenebrezza, edita da Giulio Perrone con il Marchio “L’Erudita”, ricordando il suo particolare dettato poetico che già avemmo modo di apprezzare e segnalare in Zebù bambino (Transiti Poetici 27 marzo 2022). Anche qui, Davide Cortese dimostra la sua grande padronanza e fluidità del verso, e la sua maestria nell’uso delle parole e dei neologismi costruiti con sagacia a rappresentare schemi e situazioni particolari per le quali, diversamente, sarebbe necessario un lungo giro di parole. Ma veniamo subito al titolo, che è sempre la parte fondamentale di una raccolta poetica (e comunque anche di uno scritto di narrativa o di altro genere), perché richiama immediatamente, e in sintesi, il tema o la modalità espressiva dell’opera. Tenebrezza, dunque: pare più che evidente la fusione di due termini, tenerezza e tenebre, che, come dottamente afferma Anna Maria Curci nella prefazione, sottintende un ossimorico stato d’animo pervaso da un contemporaneo sentimento di tenerezza travagliato da sensazioni di perdita e di abbandono. Naturalmente c’è molto di più, e occorrerebbe un ulteriore approfondimento critico che questo spazio non ci permette, limitandoci solamente ad una breve nota di commento, che sia però utile ad illustrare l’opera e a proporla all’attenzione degli appassionati di poesia che ci seguono su questo spazio virtuale. Davide Cortese, originario di Lipari ma residente a Roma, è poeta di grande valore che merita l’attenzione del pubblico e della critica, perché la sua poesia si distingue certamente, nel grande mare della produzione attuale, per l’efficacia propositiva dei contenuti e per la sua forma espressiva. Ma tornando brevemente a Tenebrezza, il colpo di genio di Davide in questa sua raccolta, che si mostra compatta e robusta, sta nell’individuazione e successiva estrinsecazione lirica dei due aspetti emotivi che lo interessano e lo coinvolgono: la delicatezza, la semplicità, l’innocenza e la meraviglia di fronte all’opera del creato (tenerezza), e il dubbio, l’ignoto, la tenebra che la stessa realtà mostra con l’altra faccia. Tutto ciò è vissuto con un grande equilibrio, o se vogliamo, consapevolezza: “Respiro / e le mie narici sono i piatti della bilancia / dove in ogni istante si pesano / il mio cuore e la piuma.” Il Poeta Cortese vive dunque questo mondo dimidiato tra le due sensazioni emotive, affidando al sé altro la maschera della tenebra: “È in tutto somigliante al mio / il viso della tua marionetta. / Ha negli occhi una triste tenebra / a cui il sole ha confidato un segreto…
La poesia riesce dunque ad integrare sensazioni opposte, come è evidente appunto nelle tematiche di questa raccolta, incanalandole nel medesimo percorso lirico con un’unica impronta originale che può ora riassumersi proprio in quella “tenebrezza” già espressa nel titolo.
Continuiamo il viaggio nel suo mondo poetico di “Tenebrezza” proponendo ai nostri lettori alcuni brani tratti dal libro.


Respiro

e le mie narici sono i piatti della bilancia

dove in ogni istante si pesano

il mio cuore e la piuma.

Io respiro

e non c’è niente che mi scagioni

dall’accusa di essere vivo.

 

 ***

 

È in tutto somigliante al mio

il viso della tua marionetta.

Ha negli occhi una triste tenebra

a cui il sole ha confidato un segreto.

Gli trema nell’iride un’attesa

che soffia sull’ombra del fuoco.

In tutto somiglianti alle mie

le labbra della tua marionetta:

vi è sopra adagiato un canto

che riposa nel profumo della notte.

Nulla io so del mio spettacolo

come questa tua antica marionetta.

 

 ***

 


Non siamo che reduci dal più abbagliante degli splendori.

Tutto ciò che di più saggio abbiamo detto,

noi lo abbiamo detto da bambini.

La più alta vetta dell’arte,

l’abbiamo toccata da bambini.

La gloria a cui aspiriamo da grandi,

noi l’abbiamo posseduta da piccoli:

ed era soltanto l’umile tappeto

davanti al tempio sfavillante

della nostra gioia.

 

 ***

 

Ho vissuto nella mia Lipari

come un naufrago nato sull’isola

che un giorno l’avrebbe salvato.

Disperatamente senza salvezza

perché già salvo senza rimedio.

Mille volte i miei sogni hanno compiuto il periplo

[dell’isola,

come tigre che vortica in una gabbia d’oro.

Naufrago sulla mia isola

ho avuto una tragica sete d’approdo.

Ho creduto a una promessa della tempesta.

A riva ho raccolto il messaggio nella bottiglia

scritto da un demone

di cui nella conchiglia

si ode la voce che sussurra di andare.

Ho speso la luce dell’adolescenza

a immaginare

cosa mai c’era

al di là del mare.

 

 ***

 

Dimmelo, Terra

nella luce acerba del frutto

sul dorso verde dell’insetto

che mai, tu mai morirai

ché il tuo canto è negli occhi d’oro della tigre

nel volto antico del ragazzo mare

nella pagina segreta del cielo

voltata da un’ala nera.

Prometti, Terra.

Giura fiore al seme.

Solenne, prometti di non morire.

Io non potrò mai in eterno

guardare a te come a un’ultima ape.


(Brani tratti dal libro Tenebrezza, di Davide Cortese, Giulio Perrone Editore, 2023)


Davide Cortese è nato nell’isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all’Università degli Studi di Messina con una tesi sulle “Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane”. Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, titolata “ES” (Edizioni EDAS), alla quale sono seguite le sillogi: “Babylon Guest House” (Libroitaliano) “Storie del bimbo ciliegia” (Autoproduzione), “ANUDA” (Aletti). In seguito ripubblicato in versione e-book da Edizioni LaRecherche.it, “OSSARIO”(Arduino Sacco Editore), “MADREPERLA” (LietoColle), “Lettere da Eldorado”(Progetto Cultura), “DARKANA” (LietoColle) e “VIENTU” (Poesie in dialetto eoliano, Edizioni Progetto Cultura). I suoi versi sono inclusi in numerose antologie e riviste cartacee e on-line, tra cui “Poeti e Poesia”, “Poetarum Silva”, “Atelier” e “I fiori del male”. Nel 2004 le poesie di Davide Cortese sono state protagoniste del “Poetry Arcade” di Post Alley, a Seattle. Il poeta eoliano, che nel 2015 ha ricevuto in Campidoglio il Premio Internazionale “Don Luigi Di Liegro” per la Poesia, è anche autore di due raccolte di racconti: “Ikebana degli attimi” (Firenze Libri), “NUOVA OZ” (Escamontage), del romanzo “Tattoo Motel” (Lepisma), della monografia “I MORTICIEDDI – Morti e bambini in un’antica tradizione eoliana” (Progetto Cultura), della fiaba “Piccolo re di un’isola di pietra pomice” (Progetto Cultura) e di un cortometraggio, “Mahara”, che è stato premiato dal Maestro Ettore Scola alla prima edizione di EOLIE IN VIDEO nel 2004 e all’EscaMontage Film Festival nel 2013. Ha inoltre curato l’antologia-evento “YOUNG POETS * Antologia vivente di giovani poeti”, “GIOIA – Antologia di poeti bambini” (Con fotografie di Dino Ignani. Edizioni Progetto Cultura) e “VOCE DEL VERBO VIVERE – Autobiografie di tredicenni” (Escamontage)

Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà