sabato 19 aprile 2025

Marco Masciovecchio e la sua "Roma, sotto a 'sto celo"

Volentieri torniamo a parlare di Marco Masciovecchio, valente poeta romano, dopo la interessante pubblicazione di due anni fa (“Poco più di niente”, mia nota su Transiti Poetici https://transitipoetici.blogspot.com/2024/01/il-poco-piu-di-niente-nella-poesia-di.html). Questa volta il suo lavoro poetico si è concretizzato in un modo e in una forma diversa, il che evidenzia il grande e urgente impeto di esprimere il proprio nucleo creativo letterario utilizzando anche diverse modalità, proprio per veicolare al meglio il proprio dettato e ciò di cui si intende parlare. Per questo, presumo, Marco Masciovecchio, ha voluto sperimentare il registro del romanesco per costruire la sua visione di quotidianità e di vita sociale e familiare, riuscendo benissimo nell’intento: ed ecco dunque Roma e l’indovinato sottotitolo sotto a ‘sto cielo. La raccolta è integrata e arricchita da note critiche di tre importanti poeti: Davide Toffoli, Emanuela Sica (che è anche la direttrice della Colla “Plenilunio” della nota Casa Editrice Delta3) e Anna Segre, i quali approfondiscono doviziosamente il contenuto del libro, ciascuno soffermandosi e dettagliando vari aspetti e i propositi dell’autore nel progettare quest’opera letteraria.
Quello che salta subito evidente agli occhi del lettore è la gradevolezza del dettato poetico, espresso in un romanesco fluido e attuale, molto aderente ai temi trattati, ai personaggi, alle raffigurazioni. Sono molte le belle e argute descrizioni dei personaggi, inseriti in un contesto sociale di una città dai mille volti e con una storia millenaria, che ha generato usanze, tradizioni e modi di dire ancora attuali. Una sorta di Spoon River romanesca, come sembrerebbe, o addirittura una riproposta, seppur parziale, delle tematiche e del dettato trilussiano. Ma Marco Masciovecchio conserva intatta la sua originalità, la sua novità ben riuscita nel raccontare la sua Roma sotto a ‘sto cielo, con versi assolutamente privi di ironia o di amarezza, bensì lucidi e schietti, senza mai cadere nella falsa retorica di facili stereotipi o cliché artificiosi costruiti a bella posta. Un cuore grande, quello che si nota in questi versi, una passione senza remore e senza timori, senza zone oscure o addirittura ambigue.
Ecco qui di seguito un saggio della sua perizia poetica di questa sua recente raccolta.


IO

 

Ecchime qua, me chiamo Marco,

nome comune, gnente de speciale

sortanto un poro Cristo

che ogni giorno cade

che quanno s’ariarza sente er dolore

che da la carne ariva all’osso.

 

Sotto a li piedi, secoli de storia,

sopra la capoccia sortanto er celo

e sotto a ’sto celo… Roma.

 

 ***

 

LA COMMARE SECCA

 

La commare secca

nun chiede mai er permesso,

nun aspetta. Ariva puntuale,

bussa a la porta, raschia co’ le dita,

nun je ne frega un cazzo se nun risponni

trova lo stesso er modo de fasse spazio.

Te la ritrovi dritta ar capezzale,

te fissa, te frega l’urtimo respiro,

scappa via de corsa pe’ le scale

deve da lavorà, je tocca core!

 

 

 ***

 

 

MI’ PADRE MORÌ D’ESTATE

 

Mi’ padre morì d’estate

dopo du’ anni co’ la testa assente,

devastato compretamente.

De quer Dio che n’aveva viste tante,

nun c’era arimasto gnente.

 

Er medico sur fojo certificò: senile, demente!

Er cervello ’na lampada, sfarfalla eppoi se spegne.

Te ne sei accorto de quante vorte

so’ venuto a cercatte nei buchi neri de la mente

coll’occhi nell’occhi tua, persi pe’ sempre?

 

Sai, me l’hai stracciato er còre

quella matina quanno t’ho fatto io la barba,

e senza un fiato hai incominciato a piagne.

Forse co’ un sarto sei aritornato in quell’istante

a quella matina, quanno ancora regazzino,

la prima barba me la facevi tu, senza un motivo.

 

 ***

 

A PEPPE

 

A Peppe je s’è fermato er còre

e mó chi je lo dice a la famija

a furia de salì e scenne dall’imparcature,

65 anni, 25 chili sur groppone

60 euro in nero pe’ 10 ore.

Bruciato sotto ar sole.

 

A Peppe je s’è fermato er còre

dopo che s’è magnato le solite ciriole

è annato su veloce come un gatto

ma er legno der pianale è mezzo rotto

un angiolo che cade facenno er botto.

 

Se semo messi in cerchio ma lui è arimasto

fermo, come un sacchetto voto de cemento

e noi se semo messi tutti a piagne.

 

A Peppe, je s’è fermato er còre.

Un antro nummero sur contatore.

 

 

***

 

LA MOSCA E LA FARFALLA

 

’Na mosca de città, appiccicata ar davanzale

cioccanno ’na farfalla svolazzà

de fiore in fiore je disse

“a bella, er zucchero fa’ male,

a furia de succhià te viè er diabete!”

 

La farfalla, un po’ schifata schiudenno l’ale

“a bella mia, invece de famme la morale,

pensa a te che campi più o meno come me

e l’ova le fai su le carogne in putrefazione!”

j’arispose continuanno a succhià nettare dar fiore.

 

La mosca nun c’ebbe er tempo d’arisponne…

’na ciavattata je diede l’estrema unzione.

 

 ***

 

LA GIORNATA MONDIALE DE LA POESIA

 

Pe’ la giornata mondiale de la poesia

tutti li poeti scenneno in piazza

quarcuno in quarche villa

quarcuno drento locali de fortuna.

Ognuno declama li versi sua

libberi, quartine, rime,

snocciolati freschi pell’occasione.

 

Ma la poesia più bella

la recita in silenzio un ceco,

che baciato dar sole su la guancia,

arzanno lo sguardo nero ar celo

immaggina l’arcobbaleno.

 

 Brani tratti da:

Marco Masciovecchio, Roma. Sotto a ‘sto celo, Delta3 Edizioni, 2025; prefazione di Davide Toffoli. Postfazione di Emanuela Sica. Nota critica di Anna Segre.

Marco Masciovecchio nasce a Roma nel 1967. Ha frequentato la facoltà di Architettura di Roma, svolgendo contestualmente le più svariate attività lavorative.
Vive a Ciampino e si occupa di Salute e Sicurezza sul lavoro per una multinazionale. Marco è un fotoamatore, ha partecipato a concorsi nazionali e internazionali e a mostre collettive. Nel 2023 ha pubblicato il suo primo libro di poesia: Poco più di niente (Ensemble, Roma). Alcuni dei suoi testi poetici sono presenti in raccolte e antologie. Roma, sotto a ’sto celo è la sua seconda pubblicazione in versi.



mercoledì 16 aprile 2025

Jonathan Rizzo e la sua "Anamnesi Famigliare"

Non è certamente un libro facile né leggero, questo di Jonathan Rizzo, dedicato alla sua famiglia e come appunto l’autore argutamente ha intitolato: Anamnesi famigliare. Non è un libro che, come tanti, si legge con piacevole noncuranza, quasi per diletto, per lasciarsi andare a lievi e superficiali emozioni. È invece un libro che prende, che bisogna leggere tutto d’un fiato, assaporandone tutte le pagine, le parole, i dettati intimi, le storie concitate, le profonde e umanissime riflessioni, lasciandosi coinvolgere con brividi, emozioni più o meno forti, abbracciandone e condividendone empaticamente il contenuto, il carico umano e psicologico che vi appare.
È un libro complesso, un diario, un lungo racconto a cielo aperto, senza remore, senza ma, senza formalismi, sia nel contesto e sia nelle modalità di scrittura. È un libro totalizzante.
Già il titolo, come dicevo, è quanto meno indovinato ad esprimere un quadro molto dettagliato degli ambiti emotivi e sentimentali della famiglia dell’autore, attraverso una serie di storie in cui le figure della madre, del padre, del fratello e persino dei nonni, sono messe in luce soprattutto nel rapporto psicologico e affettivo nei loro confronti. Ne risulta un racconto che, proprio in virtù dell’esaltazione affettiva, l’autore ha sapientemente costruito utilizzando sia la modalità narrativa che quella poetica, essendo consapevole che una sola delle due forme non sarebbe stata sufficiente ad esprimere la sua totale potenzialità emotiva. In effetti, si può affermare che tutto il libro, anche se la maggior parte dei brani sono in prosa, sia fortemente poetico, in quanto tutti i testi hanno sicuramente, almeno, il gradevole flusso della scrittura in versi.
Ma ancora più interessante, e originale, è l’interazione tra l’autore a altri pregevoli poeti che hanno dato il loro contributo immedesimandosi nella figura della madre, del padre, del fratello, del nonno: Francesca Del Moro, Giorgio Linguaglossa, Gianpaolo Mastropasqua e Vittorino Curci, Gabriella Musetti. Non una semplice prefazione o introduzione, ma una vera e propria interferenza, in senso più che positivo, di questi validi poeti nella storia e nei familiari dell’autore, ponendosi essi stessi in prima persona al centro di vicende personali analoghe: un’operazione ben riuscita, un’integrazione che valorizza ancora di più tutto il contenuto del libro.
Anche il linguaggio di Jonathan Rizzo, in questo libro, è immediato, diretto, privo di filtri ipocritamente etici e morali, ma specchio sincero di un pensiero e di un cuore che non ama le false convenienze, gli stereotipi, le formalità, il melenso perbenismo. E qui la poesia, che sia in versi o che sia più distesa nei brani di narrativa, risalta come polla d’acqua cristallina in un deserto di falsa umanità.

01. Io Credo Tu Usi Soliloqui

(I.C.T.U.S.)

 

Dalla finestra della corsia d’ospedale

svetta la cupola del Brunelleschi.

 

Non potremmo essere maggiormente malati di fiorentinità.

 

Gigli amari m’ingialliscono le mani.

 

Appoggio la testa al vetro

stanco come un gargoyle di pietra

schiaffeggiato dalla pioggia a raffica.

 

Cerco la pace in una preghiera laica,

ma le mie parole sono sconnesse.

 

Le vedo opache,

non riesco ad afferrarle.

 

Così che neanche questa notte

il mio Dio mi comprenderà

e potrà salvarmi.

 

Sono condannato ad un’altra notte sconfinata

di cui non capisco lo scorrere del tempo.

 

 

***

 

04. IO e LEI

 

IO, l’ho uccisa IO.

IO con la mia assenza,

con la mia indifferenza.

L’ho uccisa IO

con il mio silenzio sordo

mentre LEI mi parlava, mentre urlava.

L’ho uccisa IO

non riuscendo a camminare sui ponti,

facendoli saltare in aria.

L’ho uccisa IO

non sapendo lavorare per denaro,

ma bruciandolo ai raggi solari

alle pazze notti barcollanti nei locali lunari.

L’ho uccisa IO

in fuga per il mondo.

In fuga da LEI,

sempre più lontano da LEI,

senza una cartolina, una telefonata,

un abbraccio, il calore del ritorno.

L’ho uccisa IO, il figlio.

Ventre secco di serpenti in grembo.

IO L’ho uccisa ed adesso non c’è più, LEI.

Mia madre Patrizia.

 

***


Mes grand-parents

L’amore ai tempi della terza classe (Epilogo)

Autunno 2017 a neanche tre giorni di distanza l’uno dall’altra dopo una vita insieme lunga molte vite, oltre le loro di figli e nipoti, inseparabili come hanno vissuto, si sono spenti i coniugi Angelo Rizzo ed Annamaria Gasperi in Rizzo. Qual è l’ultimo pensiero prima di morire non è dato saperlo. Si pensa ancora prima di morire? E se sì, lo si può comunicare con l’ultimo sguardo vigile e febbrile, lascito di una vita intera? Ai vivi rimangono solo i ricordi e racconti. Forse anche ai morti.

Brani tratti da:

Jonathan Rizzo, Anamnesi famigliare, puntoacapo Editrice, 2024

lunedì 14 aprile 2025

Una recensione di Paolino Marotta per "Di cielo, di nuvole e di vento", di Monia Gaita

Ospitiamo qui molto volentieri l'approfondita nota critica del prof. Paolino Marotta sul recente libro di poesie "Di cielo, di nuvole e di vento", della poetessa Monia Gaita, Rubettino Editore 2024.



Ancora una volta Monia Gaita è capace di affascinare il lettore  con  un testo poetico innovativo e complesso,  che indaga il labirinto  delle emozioni e delle dinamiche interiori.

"Di cielo, di nuvole e di vento” rappresenta un affascinante viaggio lirico nel profondo dell’anima umana, sviluppato su un doppio livello: uno più intimo e personale, legato all'esperienza del dolore e della nostalgia, ed uno più universale che si apre a riflessioni sul destino collettivo e sulla condizione umana.

In questo tentativo il linguaggio lirico amplifica il valore universale delle esperienze narrate e diventa il mezzo per esplorare la memoria, il dolore interiore e la trasformazione personale.

Si configura così  un’opera polisemica, aperta a molteplici interpretazioni, che utilizza una narrazione fortemente metaforica e simbolica, nella quale il paesaggio interiore si fonde con quello naturale e dà vita ad immagini evocative di perdita, rigenerazione e resilienza.

Con una sensibilità che oscilla tra la sofferenza e la bellezza, la poetica di Monia Gaita si struttura attorno ad una profonda tensione esistenziale  che esplora le fragilità, i paradossi e le lacerazioni dell’uomo, additando una possibile via di uscita verso la riconciliazione. 

Nel contesto dell’opera si intrecciano temi esistenziali, naturali e sociali in un continuo dialogo tra la condizione umana e il fluire del tempo, temi che potrebbero essere così sintetizzati:

resilienza: emerge da subito il tema del dolore, del fallimento e della perdita, ma nel contempo spunta il messaggio che la sofferenza si può sempre trasformare in un processo di rigenerazione umana, grazie al quale dopo la caduta ci potrà essere l'occasione per una nuova ripartenza.

dialogo tra l’io e il mondo: l’autrice sublima le esperienze personali in riflessioni universali. Questo passaggio segna un’importante presa di coscienza che innalza l’individualità a dimensione sociale, per cui l’esperienza personale  assume il rango di destino comune. 

- natura e interiorità: il mondo naturale diventa specchio dell’anima, per cui elementi come il cielo, le nuvole e il vento diventano protagonisti del paesaggio interiore e, in quanto tali, possono aiutare a comprendere i sentimenti di incertezza, le fragilità e nel contempo la direzione del rinnovamento.

- memoria e identità: la memoria, spesso dolorosa, e le cicatrici del passato non vengono rinnegate, ma diventano elementi costitutivi di una nuova identità e di una nuova consapevolezza che rifiuta l’oblio.

- causalità ineluttabile: "tutto accadde perché doveva, tutto accade perché deve", come se ogni evento, anche il dolore e la caduta, fossero predestinati.                  

Si coglie una tensione tra l’impossibilità di sfuggire a questo fato e la necessità di reinventarsi, di rimettere in moto i sogni e di curare le ferite dell’anima.

senso di desolazione: il cuore umano, ferito da errori, perdite e sofferenze, esplora un paesaggio emotivo segnato dalla fatica di recuperare la bellezza e la verità. Subentra la consapevolezza che la lotta per il bene possa rivelarsi inutile perché destinata a fallire  in un mondo frammentato e in crisi.

- rinascita e rigenerazione: pur in mezzo alla desolazione e al dolore, si avverte una tensione verso il rinnovamento, un  desiderio di ricostruire, di “riscrivere la vita”, di riparare il cuore ferito, di trasformare la cenere in luce e di dare spazio a nuovi sogni, per quanto fragili.

- interazione con la natura: nell’opera di Gaita la natura assume un ruolo simbolico fondamentale, diventando specchio dell’anima e del suo mutare: dagli uccelli agonizzanti alle foreste che, nonostante tutto, continuano a crescere, fino agli elementi naturali che sembrano partecipare al ciclo di vita e di morte, la natura incarna sia la forza distruttrice del tempo che la promessa di una rinascita futura.

- critica sociale e introspezione:  si sviluppa una critica serrata alla società e alle sue ingiustizie, denunciando la freddezza, l’ingratitudine e l’opprimente peso delle convenzioni. Permane un profondo conflitto tra il desiderio di libertà e l’impossibilità di sfuggire a sé stessi e alle proprie colpe, in una continua oscillazione tra disperazione e speranza, tra il riconoscimento dell’ineluttabile destino e l’impulso a rinnovarsi nonostante le cicatrici del passato e le ombre del presente.

- conflitto tra speranza e disillusione: l'aspirazione ad un mondo migliore, simbolizzata da un "nuovo cielo" privo di fratricidi e lotte di potere, si scontra con la realtà di un sistema corrotto, che continua a perpetuare le stesse ingiustizie.  Il "carrello elevatore della felicità" e il "laccio emostatico sul cuore" sono metafore che evidenziano l'assenza di strumenti efficaci per guarire le ferite dell’anima e della società.

- il corpo e la memoria: sono altri temi ricorrenti nel volume di Gaita, dove il corpo diventa simbolo di fragilità, di vulnerabilità e di sofferenza. L'immagine del cuore come edificio da restaurare "con calcinacci, piastrelle rotte e scarti" evoca l'idea di un'anima ferita, che non può essere riparata facilmente. Il tema del corpo danneggiato si intreccia con il passaggio del tempo e la memoria che conserva i traumi e le cicatrici, ma anche i desideri non realizzati.

 

Linguaggio e stile:

- ricchezza metaforica: un linguaggio denso di simboli e di metafore per amplificare il valore universale delle esperienze narrate.

- tonalità elegiaca e visionaria: una malinconia e un pessimismo di fondo, uniti a lampi di speranza che emergono dal dolore.

- ritmo narrativo frammentato: costituisce la modalità espressiva preferita in quanto rispecchia un’anima che non accetta di integrarsi con la normalità e il quotidiano; una modalità capace di dar voce all’irrequietezza del pensiero e al carattere episodico delle emozioni con riflessioni intime, a volte apocalittiche.

Conclusioni

Quest’ultimo lavoro di Monia Gaita rappresenta un esempio di come la poesia possa diventare uno strumento potente per esprimere l’inquietudine interiore, ma anche per sollecitare la ricerca di un senso più profondo dell’esperienza umana.

La poetessa ci propone una duplice visione dell’esistenza umana: da una parte un  destino implacabile che determina e limita, dall’altra la disponibilità di ampi spazi di resilienza, innovazione interiore e rinascita. In assenza di strumenti efficaci per guarire le ferite dell’anima e della società, bisogna evitare che si sviluppi nell’uomo un senso di impotenza e di paralisi emotiva.

Proprio l'incessante ricerca di significato conferisce al lavoro di Gaita una dimensione profondamente riflessiva e rigenerante, che va al di là del pessimismo che permea le sue parole.

Si coglie chiaramente la tensione verso una possibile "fioritura", una rinascita che rimane pur sempre un'aspirazione sfuggente. 

Nel conflitto tra la speranza e la disillusione, traspare l’aspirazione per un mondo migliore (un "nuovo cielo") ma anche la consapevolezza del persistere di un sistema corrotto che continua a perpetuare le stesse ingiustizie.

In questa cornice, la poetessa non cerca risposte facili e finisce per ammettere che

- il cambiamento è una possibilità lontana e incerta, che si scontra continuamente con l'intransigenza e l'indifferenza del mondo che la circonda;

- “il sogno non ha una buona aspettativa di vita…non ha nemmeno un guscio, due chele e un pungiglione per difendersi…",  perchè le speranze sono destinate a fallire se ostacolate dalla realtà che ci circonda.

In questo senso, la poesia di Monia Gaita rappresenta un grido di resistenza, un appello a rimanere umani e sensibili in un mondo che purtroppo appare in disfacimento.

 Paolino Marotta, 12/4/25

sabato 12 aprile 2025

L'immediatezza del dire poetico in "Ciliegie" di Francesca Romana Rotella

Con “Ciliegie” la valente poetessa Francesca Romana Rotella continua il suo ammirevole percorso poetico già iniziato con la sua precedente silloge “Un rossetto e un taccuino”, di cui avemmo modo di parlare su Transiti Poetici con una mia nota in proposito (https://transitipoetici.blogspot.com/2024/10/la-dolce-ironia-di-francesca-romana.html), evidenziando come l’autrice si ponesse al centro di un vissuto quotidiano, in una realtà anche minuta e ordinaria, fatta della normalità ripetitiva dei giorni, brava ad osservare e raccogliere immagini e stati d’animo anche i più inusuali.
È interessante notare come la trama e la struttura poetica della nostra autrice non sia cambiata, nelle due raccolte prodotte, e questo è indizio della sua considerevole maturazione, fino ad ora, avendo ormai affermato il suo progetto propositivo e ricavandosi così uno spazio importante e meritato nel panorama della poesia italiana attuale. Ciliegie, dunque, in qualche modo costituisce la naturale continuazione della silloge precedente, come se l’autrice avesse ancora qualcosa da dire, come se il suo discorso e le sue riflessioni poetiche sul mondo non si fossero del tutto esaurite o prosciugate, ma ancora urgenti da esporre. E in realtà penso che sia proprio così. La poesia può avere un flusso inarrestabile, il poeta può continuare a lavorare sugli stessi temi esprimendoli in versi sotto infiniti aspetti, angolature e prospetti, ampliando o restringendo, alludendo o significando in altri modi e dimensioni. E sempre mantenendo il proprio stile di scrittura, la propria impronta formale.
Qui Ciliegie è la verità in tempo reale di un’osservazione a tutto tondo della realtà circostante, narrata al presente (“Nonna mi porta le ciliegie appena lavate”) ma evidentemente riferita ad una realtà nostalgicamente trascorsa, più genuina nelle intenzioni e nelle azioni. L’immediatezza del dire della nostra autrice non fa che denunciare ancora di più un sistema di vita, personale, familiare e persino sociale, frantumato e banalizzato, come quello attuale. Il rammarico, seppur lievemente velato dai versi intelligentemente metaforici, si evidenzia nella chiusa: “ma chi lo dice ora a nonna / che io con quest’occhio non vedo più / la ciliegia, / né la testa sua grigia.
E così la poesia di Francesca Romana Rotella in Ciliegie prosegue nell’attenta osservazione del tutto, dalle strade di Roma all’amore, al desiderio di svincolarsi da una realtà ingombrante per vivere una serenità di cieli azzurri, dalla consapevolezza della fragilità dei castelli di carta, dei sogni e delle illusioni, all’amarezza delle tragedie e dei drammi. Ma il suo dire non è mai mesto, semmai adombrato lievemente di tristezza nei punti in cui esprime maggiore nostalgia. Comunque è un dire poetico fluido, continuo, a volte ironico, in cui riesce a indicare e a far risaltare anche le minime cose, in una quotidianità che va evolvendosi forse senza controllo: la poesia di Francesca Romana riesce magistralmente a fissarla e a rivalutarla, ed è questo uno dei tanti pregi della nostra brava autrice.

Ciliegie

 

Nonna mi porta le ciliegie appena lavate

è arrivata l’estate

e con lei le finestre sempre aperte

l’azzurro prepotente

le luci a casa spente

il sole

il primo amore

le belle di notte

le gonne corte

il frinire delle cicale

le lucciole al Gianicolo 

le lunghe giornate al mare

il gelato leccato, caduto e spiaccicato

Trastevere in festa

la granita al limone, all’amarena, 

a quel che resta.

La mia mano tiene la ciliegia bagnata

appena lavata

nell’estate che è tornata,

ma chi lo dice ora a nonna

che io con quest’occhio non vedo più

la ciliegia, 

né la testa sua grigia.

 

 ***

 

Strade di Roma d’estate

 

Camminando per le strade di Roma

d’estate, sento l’odore del ferro

dei binari che sono caldi

e sanno di sangue.

Sapete che il sangue sa di ferro

e il ferro sa di sangue?

Su queste strade di Roma d’estate

trovo mazzi di fiori secchi

sciarpette colorate, orsacchiotti

e nomi scritti

elenco di chi ha visto come ultima cosa

una strada di Roma

sono Mauro, Stefano, Giulia

e continua…

Figli, fratelli, amici e compagni scomparsi

su queste strade di Roma che ora

d’estate, non sono più affollate

ma rubano vite e inghiottono singhiozzi

strozzano i respiri e perdono i battiti.

Queste strade di Roma vecchie, rotte, bucate

d’asfalto, sampietrini, tombini,

voragini e geyser

strade che ingoiano carne giovane 

che mai più sarà restituita.

Per questo le strade di Roma d’estate

hanno l’odore del ferro

che è l’odore del sangue

che è l’odore di 

Mauro, Stefano, Giulia

e continua…

 

*** 

 

Gli amanti

 

Cosa si dicono di notte gli amanti,

cosa si dicono prima di addormentarsi?

Si promettono fughe

si confessano fantasie 

con le quali vogliono sporcarsi.

Bisbigliano alla luna,

sussurrano al cuscino

parlano a finestre

da cui non possono affacciarsi.

 

 ***

 

Castello di carte

 

Si può biasimare un castello di carte

per essere ciò che è?

Il temporaneo

miracolo equilibrista

di carte da gioco,

sapientemente adagiate 

da abili mani d’artista.

Non è in fondo colpa sua 

se illude e incanta 

per ciò che non è,

l’immagine di un’imponente fortezza,

messinscena dell’umana destrezza,

poiché basta un soffio di bimbo

un’insignificante brezza

ed ecco che traballa, rovina, crolla

e, infine, si spezza.

 

 ***

 

Per volare

 

Per volare è necessaria leggerezza

e io ne ho molta

per questa felice coincidenza

mi trovo spesso a decollare.

A volte raggiungo altezze maestose

vedo aquile in picchiata

puntini anziché persone

ma arriva poi la delusione

la notizia, l’assenza 

mi ricordo che non c’è paracadute.

Spiaccicata in mille pezzi su un prato brutto

riacciuffo frammento per frammento

ogni mio minuscolo pezzetto

e riprendo bipede

in silenzio 

il mio cammino.

 

Brani tratti da:

Francesca Romana Rotella, Ciliegie, Edizioni Ensemble, Roma, 2025. Postfazione di Anna Segre

Francesca Romana Rotella (Roma, 1975) si è laureata in lingue e letterature straniere con una tesi sullo scrittore e poeta spagnolo José Jiménez Lozano. Partecipa a poetry slam in locali dei circuiti romani. Con Ensemble ha pubblicato Un rossetto e un taccuino (2023), la sua prima raccolta poetica

Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà