mercoledì 11 giugno 2025

"Pronome Personale / II Persona Singolare", di Lucilla Trapazzo: una nota di lettura di Viviane Ciampi

Pubblichiamo qui volentieri una nota critica di Viviane Ciampi per il recente libro di poesie Pronome Personale / II Persona Singolare, di Lucilla Trapazzo, Bertoni Editore, con prefazione di Giuseppe Napolitano.

Ci troviamo nel mezzo di un viaggio ellittico e radente, lieve e radicale, nel cuore instabile del linguaggio.
Lucilla Trapazzo (poeta ma non solo: traduttrice e performer) intreccia filosofia e tenerezza, luce e ombra, in una poesia che non afferma, ma interroga. I suoi versi nascono da un’urgenza interiore e si muovono con precisione intima, cercando la fenditura da cui far passare la voce. È una scrittura che si dispone al rischio: quello di dire l’amore senza aggettivi, di abitare il pronome, di restare sul margine tra presenza e dissolvenza.

            Siamo vetro e vento
            in corsa dalla notte
            al mare


Il “tu” evocato in questa raccolta non è solo destinatario affettivo, ma anche specchio e doppio, figura del riconoscimento e della perdita. La parola poetica si fa materia viva ‒ a tratti pietra, a tratti sabbia ‒ e prende forma nel tempo instabile dell’attimo, tra passato che scivola e futuro che non promette. Ogni poesia è una soglia, ogni immagine una minuscola epifania che trattiene, per un istante, ciò che sfugge.

            Saperti ancora incendio sulla lingua
            senza domani


Il lessico è limpido, ma mai semplice, con immagini che si accendono vivide, di grande sensualità:

            Mi porgi una fragola. La sento
            ingorda sulla lingua.


Ogni scelta è calibrata, ogni silenzio, eloquente. In sottofondo, si avverte il respiro di un pensiero che ha imparato a non forzare il senso, ma a suggerirlo, lasciando spazio alla vibrazione, all’eco, alla risonanza. In questo libro, l’identità non è un punto fermo, ma un moto ‒ fragile, luminoso ‒ verso l’altro, verso il nome che non si possiede. Del resto già la copertina ‒ firmata dalla stessa Lucilla Trapazzo ‒ suggerisce fin dal primo sguardo la poetica dell’intera raccolta: non c’è un solo volto, ma due figure prossime e insieme sfuggenti, immerse in un bianco che non è vuoto ma spazio mentale, zona di passaggio. Il titolo si intreccia visivamente con il disegno: II Persona Singolare diventa allora non solo un riferimento grammaticale, ma una tensione relazionale, un dialogo aperto tra presenze che non si lasciano afferrare del tutto.
È in questa sospensione ‒ tra la seconda persona e l’ignoto ‒ che il libro trova la sua forza più autentica.
Una raccolta che lascia il lettore esposto e pensante. Come solo la vera poesia sa fare.

                                                                                                Viviane Ciampi

 

 

mercoledì 4 giugno 2025

Michele Zacchia e il suo "taccuino dell'ospite"

Nei creativi, e quindi negli artisti e soprattutto nei poeti, troviamo sempre una sorta di disagio esistenziale, stratificazioni più o meno persistenti di insoddisfazione, e una ricerca asintotica di punti di equilibrio che possano in qualche modo risolvere in positivo questi disagi. Si sa, i poeti non si fermano mai, e ne consegue un lavoro tenace di ricerca in sé e nella realtà circostante, dei perché e dei percome. Non si sottrae a questa indagine pertinace il giovane e già maturo poeta campano, ma residente a Roma, Michele Zacchia, che con questa sua seconda raccolta, intitolata Il taccuino dell’ospite, edita da RPlibri con una puntuale prefazione di Antonio Bux, manifesta veramente in modo ottimale, e con una impronta poetica del tutto personale, questo vago malessere del vivere quotidiano.
Viaggio spesso, non torno sempre”: è l’esergo che apre la raccolta, ed è forse qui incentrato il progetto poetico del nostro giovane autore. E ancora specifica: “frase scritta su un muro di Roma”. Come anche nei testi successivi, Michele Zacchia non usa un titolo ma in calce a ciascun brano inserisce un luogo, una data, una modalità che completa e chiude il brano stesso. Un modo originale che forse solo pochi altri poeti sono abituati a utilizzare.
Ma tornando al contenuto di questa interessante raccolta, è opportuno soffermarsi un attimo sul titolo, Il taccuino dell’ospite. Qui, è evidente l’intenzione dell’autore di raccogliere tutta una serie di osservazioni, “annotandole su un taccuino”, durante il suo, o i suoi, viaggi o spostamenti da una città all’altra, da un luogo all’altro. Non si tratta, evidentemente, di viaggi inventati o immaginari, ma effettivi, reali: il percorso naturalmente è casuale, ma ciò che è essenziale è l’acutezza delle riflessioni, dei pensieri e delle emozioni che l’autore sa molto bene cogliere da queste esperienze e dai luoghi che ha attraversato.
L’itinerario che sottotraccia risulta dall’attenta lettura della raccolta non è però, beninteso, un mero reportage di viaggio: è anzi, al contrario, la sorgente necessaria e vitale che offre all’autore l’opportunità di esprimere la sua vis poetica, delineando versi e brani da angolature, prospettive e modi di indagare, percepire, osservare, fortemente personali ma che spiccano e risaltano dallo strato superficiale continuo e monotono di una realtà che appare lontana, disgiunta dall’anima dell’autore. Tale operazione rende i testi della raccolta percepibili e condivisibili da tutti, perché l’autore pur partendo da segnali emotivi che gli suggeriscono i luoghi e i momenti del suo itinerario, ne sublima e ne codifica il contenuto, arricchendoli con allusioni, ricordi, trascendenze. Michele Zacchia dimostra infatti di possedere un’ottima padronanza della parola e del dettato poetico, riuscendo a creare con i suoi versi un caleidoscopio di immagini e di sensazioni, laddove la parola, o anche l’intero sintagma, ha uno spessore semantico davvero eccezionale.

Proponiamo ai nostri lettori, qui di seguito, alcuni brani tratti dalla sua raccolta.


La cristalliera ottuagenaria che ti abita

in sala ne sa più di noi in fatto di.

Ne riconosci le ante legnose e intarsiate,

tutte mature. Decrepite se le guardi meglio.

Il vetro cascante col disegno del

fiore papavero, finto e consunto.

D’altri tempi questa cristalliera, obsoleta immobile.

«È Art Nouveau!» diceva tua nonna,

tu non l’ascoltavi, dicevi «brutta come lei»,

rancida nell’osso. In questo incastro fuori moda

la pretesa di superare il passato.

L’oggetto di un lessico famigliare che t’accorgi

di allontanare, sei finita al mercatino,

l’hai data via in cambio d’aria.

 

          casa di sconosciuti, Città del Vaticano

 

 

***

 

In questo albergo-cimitero

che inscatola le vergini del nuovo settembre,

richiamo alla spada i miei vecchi amici. Mi

piacerebbe commuoverti coi versi, in

falde acquose minacciose, profonde

le dita nella gastrite melmosa delle tue pareti.

 

Poter curare le ferite del giovane solstizio

misurandoti le ginestre al braccio, discernere

se non tutti, almeno i buoni annunci, da

gli alberi del corso che respirano l’aria piombo.

Nella forma dell’urbano caos stringere a me stella,

coi palmi tesi attendere la tua discesa.

 

          stazione ferroviaria di Ostiense, Roma

 

 

***

 

Esiste nella gente una tutta superficie

di versi e galanterie periferiche, snodati

come note di luce al firmamento, liberi

dalle schiavitù grasse del rumore. Svegliare

i piccoli col nome, e dormirli grandi, senza

età di numero. Matematica consuetudine

di crescere diversi. Com’è sembrare sangue,

cadere in goccia scendere, rotolarsi nelle garze

per asciugare. In queste immense giornate ci

risponde il cielo che posa a terra il suo splendore.

 

Morirsi: è lasciare incedere il passo al sangue,

penetrarsi commiserazione, stringere le

palpebre al buio. A tenere la natura ferma

nel suo intento non c’è modo e spazio-tempo.

 

          Santa Maria Capua Vetere, dove sono nato

 

 

***

 

Oggi ti rileggo Roma, e vivo nelle strade il tuo

corpo di ferro. Nella tradizione si fa ombra

l’età eterna, quando andando verso sud,

si fa nuda la stirpe che è Storia.

Nel ventre delle tue origini è ancora fresca l’orma

del bianco, l’orto, il Giardino appena sotto. Nella

Cappella più segreta la meraviglia dell’arte è il tuo

donare. Lungo il corso d’acqua teverino la gazza

che incontro mi è amica, l’occhio nero

è il richiamo del pesce:

 

ho come una sensazione profonda di

appartenerti nel centro.

 

          bus 781 direzione Piazza Venezia

 

 

***


Nel giorno più isolato dell’estate, è l’ombra del

vulcano spento a sentire la mancanza delle rive. La mitologia

matura nelle brame dei tuoi desideri. Il celeste cielo celeste

è sfigurato nelle braccia.

 

L’immaginario della consolazione, sotto la sfera del disfare,

non si definisce il mare, sconfinato nelle bestie delle onde,

e il travalico del selvaggio rende obliquo tutto il dentro

del mio petto.

 

          camera tua

 

***

 

Sia il verbo di fronte il cono d’ombra del silenzio,

trillante nelle vesti del discorso, nei vecchi

proverbi, nella provincia dei tuoi fianchi, e la rosa,

tempestiva fioritura del mese. Senti il nome dell’ospite?

 

Richiama l’attenzione dell’organo, e il pulsare, l’infezione,

tutti oggetti incauti nello scavo. E ancora l’ospite si annida

si ritrova: germe del contatto. Recipiente in vetro soffiato,

profondo nel trasparire:

si ospita l’ospite, da sé, nello scrigno della premura.

 

Nella gabbia toracica un riflesso, è luce incastrata a tasselli:

elenca precisa le ronde notturne senza più strada.

 

          un posto in cui non sono mai stato

          non so se farò ritorno


Brani tratti da:

Michele Zacchia, Il taccuino dell'ospite, RPlibri, 2024; introduzione di Antonio Bux


Michele Zacchia (Santa Maria Capua Vetere 1999) vive a Roma. Ha conseguito la laurea in Lingue e Culture Moderne all’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, e recentemente all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” nel Master di Editoria, Giornalismo e Management Culturale. Ha frequentato l’Universitat Autònoma di Barcellona e il Chichester College. Copywriter, redattore, traduttore. Collabora e ha collaborato con numerose testate giornalistiche, tra cui The Wise Magazine e il quotidiano La Libertà di Piacenza. Il suo principale impiego in ambito culturale è legato alla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci – Premio Strega, con la quale collabora per l’organizzazione di eventi culturali. Ha pubblicato La Teoria del cerchio (Controluna, 2022), e sue poesie sono state selezionate e pubblicate su varie riviste online, tra cui L’Altrove – Appunti di poesia. Già curatore di un manuale di test universitari, ha tradotto un testo in lingua spagnola di Juan De Ávila, Memorial Segundo.

 


sabato 31 maggio 2025

I "Testi in apnea" di Adrian Suciu

Ho avuto il piacere di conoscere Adrian Suciu, poeta romeno, in occasione di un recente incontro artistico letterario ad Avigliano Umbro, organizzato in collaborazione con Lucilla Trapazzo, nota poetessa, traduttrice ed esperta di poetica internazionale. La poesia, grazie anche alle buone possibilità di condivisione globale che la società attuale permette, sia attraverso l’uso della rete e sia anche di persona, con gli spostamenti tra un paese e l’altro, tra una nazione e l’altra, divenuti ormai relativamente semplici, viene così proposta, affidata e fruita (mi si lasci passare questo termine, che però individua molto bene il concetto) a livello direi universale, al di là della lingua di ciascun paese; e qui divengono naturalmente preminenti i rapporti umani e amicali che si possono instaurare tra un poeta e l’altro, di nazionalità diverse, tra un gruppo di autori e l’altro, laddove la traduzione perfettamente eseguita nella lingua del luogo accogliente, non è caratteristica primaria, ma piuttosto lo è la modalità di porgere i versi al pubblico, la musicalità, le vibrazioni che suscitano nell’anima l’ascolto della poesia in lingua originale.
È ciò che è accaduto proprio ad Avigliano Umbro, alla fine dell’aprile scorso, durante il Festival della poesia a Fortezza Alta.
E dunque uno dei tanti bravi poeti che venivano dall’estero, nella fattispecie dalla Romania, è proprio Adrian Suciu, del quale qui volentieri riportiamo alcuni testi poetici tratti dal suo libro Testi in apnea.
Si tratta di una raccolta omogenea che evidenzia la grande propensione dell’autore per le argomentazioni di carattere privato ma che hanno sicuramente un largo interesse sociale. Versi in apnea perché forse soffocati, o trattenuti, da una società globale che sovente si mostra conformista e abitudinaria, appiattendo o denigrando quelli che sono gli afflati di uno spirito creativo quale quello di un artista o di un poeta, che non vede ostacoli alla libertà di esprimere sentimenti ed emozioni anche forti, ma sinceri e schietti.
La poesia di Adrian, in questa raccolta, è diretta, e in molti tratti è anche simbolica, laddove il simbolismo maschera una realtà cruda e ipocrita, sia nei confronti del sentimento, dell’amore, e sia in ambito più squisitamente sociale, come nelle realtà quotidiane di questa nostra martoriata epoca.
Del resto Adrian da esperto giornalista, oltre che da poeta, riesce a cogliere lacerti di negligenze, storture e ipocrisie nel tessuto della società, non solo romena, ma anche globale, e ne individua poeticamente i capitoli principali, utilizzando un linguaggio idoneo, asciutto, ricco di allusioni e velatamente ironico.
Un libro di poesie, quello di Adrian Suciu, che coinvolge emotivamente il lettore, dandogli l’opportunità di riflettere su tanti temi umani e sociali che la “poesia in apnea” cerca di far emergere in superficie dell’anima.

 

visione

 

dicevi: hai gli occhi grandi

e maestri nel comporre il fumo!

 

vedevo fuochi leggeri

sul bordo della luna, capivo perché

il mio braccio scottava

 

ti racconterò, pensai, delle erbe

uno dei vecchi amanti delle barche

ancora consente i canti del vento

sulle banchine

 

la gioia si arrampica sugli specchi fino al mattino…

nel sogno troveremo una luce fredda che

ci intaglia e ci abbandona

ti vedrò accanto al mio corpo nudo; ti dirò:

per questo lui manda le ombre assetate di giovinezza

ai lunghi pioppi

per questo il mio riposo diventa ebrezza e

davanti a essa dovresti zittire!

 

 ***

 

madre

 

Mamma, ti porteranno notizie su di me

i mercanti stranieri;

loro passano la dogana con impudenza, io non ci riesco ancora!

Guardo da vicino la terra, mi piace che

tu passi, annerita dall’erbe,

ti canteranno di me le sorgenti essiccate, io non ricordo

il loro canto.

Raccolgo il mio corpo come se tirassi un’ancora cieca

dal mare; è chiusa a chiave la nave, madre

il montante invecchia e il suo buon legno,

disceso sui fiumi del Nord, mormora preghiere.

Le piogge che tu ascolti ininterrottamente scriveranno

di me sulle tue finestre

Scoprirai che

passo le mie notti

sul terreno stanco. Gli uccelli della primavera

annusano il frutto. Il sole legge le rughe del mondo,

Non li capisco, non li vedo…

 

 ***

 

un tempo gentile

 

C’è una velocità cruenta intorno. Una rapidità dura e tagliente.

Non si trova un appiglio. Il freddo fulmineo invade

il petto

come i piccoli fiori che invadono gli occhi di coloro che sfuggono.

Le vibrisse del gatto rosso

inquadrano un paesaggio con passanti e ruote. I depositi azzurri

pompano i treni, giorno e notte.

L’erba non germoglia in fretta. La velocità viene dal diavolo.

Ma arriverà anche un tempo gentile e l’amore si assesterà.

 

*** 

 

la donna della città laggiù

 

Ho conosciuto una donna che odora di latte

e ha il sapore di lamponi. L’ho salutata

e ho conosciuto una donna che odora di pioggia

e ha il sapore di acero.

Il Consiglio dei Saggi mi ha lodato per le donne

che ho conosciuto, mi ha nominato

Colui Che Sa Fiutare e mi ha dato una fascia color visciola

da mettere sul petto. Mi hanno chiamato l’Assaggiatore

e mi hanno mandato come bibliotecario nella città laggiù.

Qui ho una fotografia con mia madre, una locusta impagliata

e una pelle di vitello.

 

Da qui passa solo la donna

che odora di legno bruciato e ha il sapore di cenere.

 

 ***

 

dell’amore

 

Dell’amore parliamo solo in sordina, come due angeli

che dubitano del Padre. Dormiamo lo stesso sogno

come se fosse la stessa carota mangiata dai due operai

della fabbrica dove si lavano le carote. I nostri gatti

sono diventati cani, le nostre pulci sono diventate libellule.

 

Un diavolo nero pizzica le mucche da dietro e loro danno il latte

che noi beviamo. Si sa che gli stupidi

muoiono più spesso dei saggi.

 

Per questo, per amore

scegliamo soltanto la saggezza.

 

 ***

 

la memoria delle cose perse

 

La poesia è il prolungamento della mia mano destra.

Se dovessi perdere la mano destra, la poesia

diventerebbe il prolungamento della mano sinistra, in memoria

della mano destra. Se dovessi perdere la mano sinistra

e se dovessi perdere ancora, la poesia si avvicinerebbe

di più a me.

 

In memoria delle cose perse.


Brani tratti da:

Adrian Suciu, Testi in apnea, Edizioni I Quaderni del Bardo, 2023.

Traduzioni dal romeno di Roxana Lazar e Valeriu Barbu.

Noto giornalista, collaboratore di numerose testate, editorialista e produttore di programmi televisivi, Adrian Suciu è attualmente presidente della Sezione Stampa Culturale dell’Unione dei Giornalisti Professionisti della Romania e presidente dell’Associazione Culturale Direzione 9, la più potente e attiva organizzazione privata in Romania dedicata alla poesia. È un importante promotore culturale, organizzando eventi letterari e artistici, campi di creazione, i festival nazionali e internazionali. Nato nel 1970, è considerato uno degli scrittori più importanti emersi dopo la caduta del comunismo in Romania. Autore di romanzi, poesie e drammaturgie, i suoi libri hanno una diffusione notevole e hanno più edizioni. Ha vinto numerosi premi letterari nazionali e internazionali. I suoi scritti sono stati tradotti in arabo, ebraico, inglese, francese, tedesco, italiano, ungherese, spagnolo, ecc. È presente in numerose antologie di letteratura romena contemporanea pubblicate in Romania o all’estero.

venerdì 30 maggio 2025

Ivan Pozzoni e il suo Collettivo di nuova socio/etno/antropologia estetica

 

Mai stanco di procedere in profondità nelle sue indagini sui comportamenti dell’attuale società mondiale, specialmente in riferimento alla letteratura e alla poesia, Ivan Pozzoni, eclettico poeta nonché grande e solerte promotore di nuove idee e pensieri filosofici e letterari, e perché no?, anche di carattere sociale ed economico, propone un suo recente lavoro letterario, che è in sintesi una raccolta di poesie, ma vuole essere anche, e forse soprattutto, una modalità diversa di fare e intendere la poesia, giusto come egli stesso afferma nelle sue lunghe e dettagliate prefazioni. Il titolo della raccolta, Kolektivne Nseae, edita da Divinafollia nel 2024, vuole appunto suggerire questo suo diverso approccio al mondo della poesia, facendone un’analisi personale molto accurata e dettagliata, considerando in particolare le problematiche ad esso legate, e cioè l’autoreferenzialità di molti autori, le correnti poetiche, le difficoltà da parte dei lettori nell’interpretazione della materia poetica, con la conseguente insorgenza di una sorta di “malattia” e di distacco da essa.
Il titolo della raccolta è in polacco. Letteralmente, Collettivo di “Nuova socio/etno/antropologia estetica”, il che sintetizza, come dicevamo, tutto il progetto letterario dell’autore, che tocca, appunto, anche spondeo sociali, etnografiche e antropologiche.
Non essendo possibile qui dilungarci ulteriormente su questi argomenti, consigliamo la lettura del libro, nel quale è spiegato esaurientemente tutta la filosofia dell’autore.
Ne riportiamo invece alcuni brani.

Caronte, in riva al lago

 

Seduto su una roccia, in riva alle acque turbolente

macchiate di ricordi del mio Lete lacustre,

mi tramortisco col rumore ombroso delle onde

che cantano dei miei vent’anni, d’amori e attese blande.

 

Cerco un Caronte astioso e ansante,

che meni la mia barca sui fiumi d’Occidente,

rodato dosatore d’ansiolitici, seduta stante,

scorbutico maleducato, rude bifronte.

 

Cerco un Caronte, un Caronte vero,

temerario consulente abituato a transumanze d’ogni genere,

con remi, barba stanca,

obolo di scorta che difenda all’arma bianca.

 

Seduto su una roccia, rinvio a domani

l’insulsa immaturità delle mie mani.

 

***


Rogito ergo sum

 

Preda di un brutale scollamento tra Bund e BTP,

senza che ci tragga in salvo alcun modello CCCP,

la nuova parola d’ordine è investire sul mattone

che con il crollo delle borse inter-stellari ogni risparmio è un’illusione.

 

Se la banca ci concede un mutuo bisogna levare alti i nostri tedeum

e scaraventarci a scegliere tra un parquet o un linoleum,

nascono, come funghi, agenzie immobiliari ogni due m²,

immobiliaristi dall’occhio bovino che ci costringono a diventar mezzadri,

decerebrandoci in attività tipo il misurare una chaise longue,

con i neuroni ancorati a Malta come le navi di una Ong.

 

Lo Stato feudatario c’accorda lo ius primae casae

nuovi acquisti e ristrutturazioni sono adito d’ukase,

chi riesce, a fatica, a svincolarsi dal contratto d’affittanza

è bandito dalle liste del reddito di cittadinanza,

e avrà l’onore di finire a fare il barbone

con il culo sul divano davanti alla televisione.

 

Monolocale, cantina, bilocale, box, trilocale

cantori, senza ascensore, abituati a far le scale,

cerchiamo, allucinati, di non finire in uno slum,

al grido unanime di rogito ergo sum.

 

 ***

 

Dacia

 

Le aquile marciano sulle strade della Dacia,

in testa l’imperator Marco Ulpio Traiano

ha costruito una Romania aliena dalla fiducia,

meglio l’avesse organizzata Vespasiano.

 

Chi credeva che l’ordo militaris,

fosse sostituito dall’ordo consumaris,

dopo secoli di cambiamenti

tra pesti, recessioni e sbeffeggiamenti?

 

L’ordine mondiale è il dominio di una manciata

di miliardari difese da una munita barricata

i nuovi schiavi saranno tutelati da una scudisciata,

non dal Grande Fratello Vip o da una tv codificata.

 

Brani tratti da:

Ivan Pozzoni, Kolektivne Nseae, Edizioni Divinafollia, 2024

giovedì 29 maggio 2025

Il teatro delle voci in "Lengua de striga" di Tiziana Colusso

Davvero portentosa, non trovo definizione migliore, questa opera letteraria di Tiziana Colusso, Lengua de striga, per la sua complessità drammaturgica, ma anche per il profondo e toccante scenario di umanità, laddove per umanità intendiamo la persona interamente messa a nudo e che si mostra in tutte le sue miserie, i suoi affanni, i suoi difetti, le sue precarietà, la sua forte emotività, ma anche la sua gioia e le sue speranze: una umanità schietta, sincera e scevra da ogni schema o impalcatura imposta dal conformismo e dalla routine quotidiana della vita sociale. E si parla soprattutto di donne, donne che hanno sofferto e amato, donne vilipese, offese, violentate.
Un mondo di donne dunque, prevalentemente, protagoniste di vicende dolorose, come quella di Casa senza bambole, o quella del Precipizio, dramma teatrale basato sulla terribile vicenda delle due ragazze violentate al Circeo, ma anche figure centrali che con la loro audacia e coraggio, riescono nonostante tutte le avversità a riconquistare la loro dignità e la loro umanità.
Il luogo comune di Lengua de striga è un lungo coro di voci, un vero e proprio teatro delle voci, come bene suggerisce il sottotitolo del libro, voci di fantasmi dolenti che sussurrano, che si agitano, tentano di emergere, o meglio riemergere alla vita. Sono in fin dei conti le voci delle tante verità, dolorose e sofferenti, che ogni essere umano, in particolare le donne, tenta di esprimere, risalendo l’ardua china sociale del conformismo e dell’ipocrito perbenismo, che le vuole, ancora oggi, sottomesse e disponibili a tutto.
Tiziana Colusso, scrittrice e poetessa ben nota e apprezzata, utilizza qui la modalità del testo teatrale per raccontare le vicende delle sue protagoniste nelle nove scenografie. Ma ciò nonostante, la poesia non manca: la ritroviamo sicuramente nelle atmosfere di fondo, ma anche tra le righe della narrazione, nei personaggi e nei dialoghi, e sicuramente la filigrana poetica di cui sono nutriti i testi contribuisce ad avvalorare ulteriormente il loro contenuto, fornendo ad essi il necessario e gradevole lirismo, la morbidezza del dettato e le coloriture opportune.
La storia presa a riferimento, che sia reale o basata su romanzi o opere di altri autori recenti o del passato, fa da contraltare alla drammaturgia : è come se Tiziana riscrivesse la tragedia accaduta in chiave moderna; ma non c’è sovrapposizione: la vicenda è abilmente reinventata e riscritta, sull’eco di quella più antica. Così ad esempio in Precipizio, che ricalca la storia di Rosaria e Donatella al Circeo, così in Sparizione di Giovanna che richiama l’opera teatrale “Santa Giovanna dei Macelli di Brecht”, e così via anche nelle altre drammaturgie.
Un libro intenso, emozionante e coinvolgente, per il contenuto delle narrazioni e per la grande esperienza dell’autrice nell’utilizzare la drammaturgia per poter veicolare con maggiore efficacia le storie e le scenografie nella loro più complessa realtà e umanità.

Tiziana Colusso, Lengua de striga, Bertoni Editore, 2024

mercoledì 28 maggio 2025

La pianta del buio, di Francesco Gabellini

Ricercare l’essenza di sé e della realtà circostante, rovistando nei più profondi lacerti della nostra anima, del nostro inconscio: questo il lavoro dell’artista, del creativo, e in ultima analisi, e forse con una accelerazione e un’enfasi maggiore, del poeta. Qui, in questa silloge di Francesco Gabellini, prima raccolta in lingua italiana edita da RPlibri, importante casa editrice che dà spazio a selezionatissime voci poetiche di spessore, la ricerca di un senso, o perlomeno di una giustificazione, nell’esistenza, nella quotidianità delle cose, nei comportamenti dell’uomo, è piuttosto evidente.
E si tratta di una ricerca continua, insistente, fortemente voluta e direi quasi ostinata, perché il poeta ha necessità di "svelarsi" in profondità, di penetrare la realtà e le cose anche a costo di non trovare nulla che lo soddisfi, o che lo convinca: asintoticamente il poeta ricerca una verità, ovvero la possibilità di una speranza, un orizzonte che gli dia una qualche certezza. Ne segue un’indagine pedissequa nel baratro di sé e della storia, delle vicende umane e sociali attuali che influenzano e coinvolgono lo spirito d’osservazione del poeta. Francesco Gabellini non è da meno, e in questa corposa raccolta poetica, egli indaga alla ricerca della pianta del buio, come lo stesso titolo suggerisce, sintetizzando emblematicamente l’intento dell’autore. Troverà alla fine qualcosa? Egli non teme di indirizzare la sua ricerca a largo raggio, la sua sonda poetica raccoglie messaggi da ogni parte, materiale, sentimentale o anche trascendentale, o anche da soggetti/oggetti che non potrebbero mai dare una risposta. Non per nulla egli riporta in esergo un bellissimo verso di Paul Celan: “È tempo che la pietra accetti di fiorire”.
L’intento evidente della poetica di Francesco Gabellini, in questa raccolta, è dunque essenzialmente quello di trarre anche dal mistero più recondito celato nella realtà delle cose, e anche in quel magma instabile dell’animo umano, un filo conduttore, un delicato “refe” che possa collegare le radici delle cose, e traendole così dal buio dell’inconsapevolezza, o dell’inconscio, per riportarle alla luce attraverso la parola poetica.
È un’operazione delicata. Ma consapevole della sua bravura nel gioco dei versi, Francesco Gabellini punta ad una schiettezza diretta, o con qualche elegante allusione, nel descrivere la realtà, che sovente appare squilibrata, oscura, sconnessa (“...lancette abbandonate ancora / scandiscono le ore”…).
Il recupero di un senso dalle radici buie delle cose (e del nostro essere) è dunque veicolato attraverso questo suo dettato poetico veramente adeguato ed efficace, il che conferma il grande afflato emotivo ma anche l’eccellente stile di scrittura dell’autore, senz’altro meritevole di essere letto e seguito.

 Rafia

 

Passa un filo sottile dentro ogni terra

che lega le radici e tiene saldo il mondo.

Colonne dacqua negli abissi

tenute insieme da un gemito debole

e continuo, il fischio delle meteore

nella notte, mantiene le stelle sospese.

Tutto si tiene in sé a malapena, ma insiste.

Lancette abbandonate ancora

scandiscono le ore.

 

Ed ecco il carro che trasporta

le suppellettili del nostro amore:

il tuo canterano, la timida mimosa,

la pazienza dei giorni lunghi e monotoni.

È un carro sbilenco, le ruote a malapena

si orientano, trainato da due mosche

cavalline, avanza a stento nella palude.

A ogni curva il carico sinarca,

il carro minaccia di andare a ruote allaria.

Ogni amore è un carico instabile

tenuto insieme da un filo di rafia.

Così va, nel cadere non cade.

 

***

 

Gita al binario morto

 

Gita al binario morto,

qui, dove è giunto il nostro andare,

agli orti abbandonati, alle figure

depredate, alle vostre parole

nel tempo perverse, alla liturgia

delle inferriate, alle metafore avvilite

dallunivoco segno, indeclinabile.

 

Gita domenicale, quasi un pellegrinaggio,

con la nonna, i bambini e il cane,

alle rinunce, alle opere dismesse,

alle povere file di case,

cassettiere di credenze sgomberate

dove mai nessun dio è risorto,

nudità abbaglianti, spaventate.

 

Per secoli di stragi impunite

un minuto di silenzio,

durante il quale pensare ad altro,

alle urgenze del vivere finalmente in pace.

Ma siamo venuti dunque

per vedere fiorire la silene bianca,

di notte, da sola, in mezzo ai sassi.

 

***

 

Qualità del morire

 

La voce alla radio elenca le città

dove più alta sarebbe la qualità del vivere.

La luce livida del mattino, indulgente,

accarezza le tende distratte.

 

L inverno sembra avere pietà nelle cose.

 

Dentro lalito tiepido delle case

sembrano unopera le vostre vite mute,

dietro al silenzio liquido dei vetri.

 

E nessuno disse mai del luogo

dove migliore sarebbe per luomo il morire.

 

Vivere riguarda quello che la mano

timorosa tocca.

 

La tua morte la porti sempre con te,

in grembo, rannicchiata in posizione fetale

o dentro al petto che pulsa,

come un secondo cuore.

 

Eco silenziosa e speranza

ancora, di infiniti,

penultimi amori.

 

***

 

Funerale del poeta

 

Preferisco le poesie e ancora meglio

quei componimenti di poche righe

dove lo sforzo della vista si riduce al minimo.

Tutto intorno è la pace del bianco, della pagina grande.

 

Come dopo una lunga nevicata

dal paesaggio svettano i pali magri delle antenne,

le torri, i cipressi del cimitero e i campanili.

I pioppi cipressini iniziano a muoversi,

alberacci che spuntano allimprovviso

come figure esili dello scultore Giacometti.

Camminano con passi lenti verso le case

piene del silenzio della sera.

 

Il suono delle campane si fa più chiaro, allora,

un discorso monotono di tocchi radi.

Laria è nitida e trasparente,

il profumo dellincenso invade le stanze.

 

***

 

Gli onnivori

 

Luomo mangia tutto.

Estrae piante e funghi e li mangia.

Costringe gli uccelli a scendere dal cielo

e i pesci a uscire dal mare, e se li mangia.

Indossa sahariane chiare di lino e foulard di seta

che poi si mangerà, luomo mangia strade e case.

 

Conduce altri uomini in cima alla montagna

per vedere lontano e insieme si mangiano il paesaggio.

Luomo divora interi boschi,

nemmeno le suppellettili sui mobili di casa si salveranno.

 

Luomo ha ritagliato sagome di cartone

con le quali costruire un pubblico per i suoi teatri.

Il silenzio nelle biblioteche è violato

dal rumore martellante delle mandibole.

Luomo si mangia le parole.

I ristoranti sono le nuove cattedrali.

 

La domenica luomo si mangia i suoi figli

e nellultima ora del giorno

luomo mangia anche sé stesso.

 

***

 

Qualcosa che ci riguarda

 

E dovera locchio che vede tutto

quando morì da solo

nel suo appartamento di trenta metri quadri?

 

E venne ritrovato dopo due mesi.

 

Si sentivano le grida di gioia dei bambini

che giocavano giù in strada a un due tre stella

e il canto damore di un merlo.

Forse era primavera e qualcuno

col viso coperto per il forte odore,

era salito su in casa, preoccupato,

chiedendosi se lavanzato stato di decomposizione

fosse qualcosa che ci riguarda tutti.

 

Brani tratti da:

Francesco Gabellini, La pianta del buio, RPlibri, 2025; introduzione di Antonio Bux; postfazione di Gianfranco Lauretano

Francesco Gabellini (Riccione, 1962) è poeta, educatore e autore teatrale. Ha pubblicato sei raccolte di poesie in dialetto romagnolo: Aqua de silénzie (AIEP, 1997), Da un scur a cl’èlt (La vita felice, 2000), Sluntanès (Pazzini, 2003), Caléndre (Raffaelli, 2008), A la mnuda (Ladolfi, 2011), Nivère (Raffaelli, 2021). Zimmer frei (Il vicolo, 2016), raccoglie cinque suoi testi teatrali, sempre in dialetto romagnolo. Sue poesie sono inserite in varie antologie dedicate alla poesia contemporanea in dialetto. La pianta del buio è la sua prima pubblicazione in lingua italiana.




 

Alda Merini vista da Ninnj Di Stefano Busà