E si tratta di una ricerca continua, insistente, fortemente voluta e direi quasi ostinata, perché il poeta ha necessità di "svelarsi" in profondità, di penetrare la realtà e le cose anche a costo di non trovare nulla che lo soddisfi, o che lo convinca: asintoticamente il poeta ricerca una verità, ovvero la possibilità di una speranza, un orizzonte che gli dia una qualche certezza. Ne segue un’indagine pedissequa nel baratro di sé e della storia, delle vicende umane e sociali attuali che influenzano e coinvolgono lo spirito d’osservazione del poeta. Francesco Gabellini non è da meno, e in questa corposa raccolta poetica, egli indaga alla ricerca della pianta del buio, come lo stesso titolo suggerisce, sintetizzando emblematicamente l’intento dell’autore. Troverà alla fine qualcosa? Egli non teme di indirizzare la sua ricerca a largo raggio, la sua sonda poetica raccoglie messaggi da ogni parte, materiale, sentimentale o anche trascendentale, o anche da soggetti/oggetti che non potrebbero mai dare una risposta. Non per nulla egli riporta in esergo un bellissimo verso di Paul Celan: “È tempo che la pietra accetti di fiorire”.
L’intento evidente della poetica di Francesco Gabellini, in questa raccolta, è dunque essenzialmente quello di trarre anche dal mistero più recondito celato nella realtà delle cose, e anche in quel magma instabile dell’animo umano, un filo conduttore, un delicato “refe” che possa collegare le radici delle cose, e traendole così dal buio dell’inconsapevolezza, o dell’inconscio, per riportarle alla luce attraverso la parola poetica.
È un’operazione delicata. Ma consapevole della sua bravura nel gioco dei versi, Francesco Gabellini punta ad una schiettezza diretta, o con qualche elegante allusione, nel descrivere la realtà, che sovente appare squilibrata, oscura, sconnessa (“...lancette abbandonate ancora / scandiscono le ore”…).
Il recupero di un senso dalle radici buie delle cose (e del nostro essere) è dunque veicolato attraverso questo suo dettato poetico veramente adeguato ed efficace, il che conferma il grande afflato emotivo ma anche l’eccellente stile di scrittura dell’autore, senz’altro meritevole di essere letto e seguito.
Passa un filo sottile dentro
ogni terra
che lega le radici e tiene
saldo il mondo.
Colonne d’acqua negli abissi
tenute insieme da un gemito
debole
e continuo, il fischio delle
meteore
nella notte, mantiene le stelle
sospese.
Tutto si tiene in sé a malapena, ma insiste.
Lancette abbandonate ancora
scandiscono le ore.
Ed ecco il carro che trasporta
le suppellettili del nostro
amore:
il tuo canterano, la timida
mimosa,
la pazienza dei giorni lunghi e
monotoni.
È
un carro sbilenco, le ruote a malapena
si orientano, trainato da due
mosche
cavalline, avanza a stento
nella palude.
A ogni curva il carico s’inarca,
il carro minaccia di andare a
ruote all’aria.
Ogni amore è un carico instabile
tenuto insieme da un filo di
rafia.
Così va, nel cadere non cade.
***
Gita al binario morto
Gita al binario morto,
qui, dove è giunto il nostro andare,
agli orti abbandonati, alle
figure
depredate, alle vostre parole
nel tempo perverse, alla
liturgia
delle inferriate, alle metafore
avvilite
dall’univoco segno, indeclinabile.
Gita domenicale, quasi un
pellegrinaggio,
con la nonna, i bambini e il
cane,
alle rinunce, alle opere
dismesse,
alle povere file di case,
cassettiere di credenze
sgomberate
dove mai nessun dio è risorto,
nudità abbaglianti, spaventate.
Per secoli di stragi impunite
un minuto di silenzio,
durante il quale pensare ad
altro,
alle urgenze del vivere
finalmente in pace.
Ma siamo venuti dunque
per vedere fiorire la silene
bianca,
di notte, da sola, in mezzo ai
sassi.
***
Qualità del morire
La voce alla radio elenca le
città
dove più alta sarebbe la qualità del vivere.
La luce livida del mattino,
indulgente,
accarezza le tende distratte.
L’
inverno sembra avere pietà
nelle cose.
Dentro l’alito tiepido delle case
sembrano un’opera le vostre vite mute,
dietro al silenzio liquido dei
vetri.
E nessuno disse mai del luogo
dove migliore sarebbe per l’uomo il morire.
Vivere riguarda quello che la
mano
timorosa tocca.
La tua morte la porti sempre
con te,
in grembo, rannicchiata in
posizione fetale
o dentro al petto che pulsa,
come un secondo cuore.
Eco silenziosa e speranza
ancora, di infiniti,
penultimi amori.
***
Funerale del poeta
Preferisco le poesie e ancora
meglio
quei componimenti di poche
righe
dove lo sforzo della vista si
riduce al minimo.
Tutto intorno è la pace del bianco, della
pagina grande.
Come dopo una lunga nevicata
dal paesaggio svettano i pali
magri delle antenne,
le torri, i cipressi del
cimitero e i campanili.
I pioppi cipressini iniziano a
muoversi,
alberacci che spuntano all’improvviso
come figure esili dello
scultore Giacometti.
Camminano con passi lenti verso
le case
piene del silenzio della sera.
Il suono delle campane si fa più chiaro, allora,
un discorso monotono di tocchi
radi.
L’aria
è nitida e trasparente,
il profumo dell’incenso invade le stanze.
***
Gli onnivori
L’uomo
mangia tutto.
Estrae piante e funghi e li
mangia.
Costringe gli uccelli a scendere
dal cielo
e i pesci a uscire dal mare, e
se li mangia.
Indossa sahariane chiare di
lino e foulard di seta
che poi si mangerà, l’uomo mangia strade e case.
Conduce altri uomini in cima
alla montagna
per vedere lontano e insieme si
mangiano il paesaggio.
L’uomo
divora interi boschi,
nemmeno le suppellettili sui
mobili di casa si salveranno.
L’uomo
ha ritagliato sagome di cartone
con le quali costruire un
pubblico per i suoi teatri.
Il silenzio nelle biblioteche è violato
dal rumore martellante delle
mandibole.
L’uomo
si mangia le parole.
I ristoranti sono le nuove
cattedrali.
La domenica l’uomo si mangia i suoi figli
e nell’ultima ora del giorno
l’uomo
mangia anche sé stesso.
***
Qualcosa che ci riguarda
E dov’era l’occhio
che vede tutto
quando morì da solo
nel suo appartamento di trenta
metri quadri?
E venne ritrovato dopo due
mesi.
Si sentivano le grida di gioia
dei bambini
che giocavano giù in strada a un due tre stella
e il canto d’amore di un merlo.
Forse era primavera e qualcuno
col viso coperto per il forte
odore,
era salito su in casa,
preoccupato,
chiedendosi se l’avanzato stato di
decomposizione
fosse qualcosa che ci riguarda
tutti.
Francesco Gabellini, La
pianta del buio, RPlibri, 2025; introduzione di Antonio Bux; postfazione di Gianfranco Lauretano
Francesco Gabellini (Riccione, 1962) è poeta, educatore e autore teatrale. Ha pubblicato sei raccolte di poesie in dialetto romagnolo: Aqua de silénzie (AIEP, 1997), Da un scur a cl’èlt (La vita felice, 2000), Sluntanès (Pazzini, 2003), Caléndre (Raffaelli, 2008), A la mnuda (Ladolfi, 2011), Nivère (Raffaelli, 2021). Zimmer frei (Il vicolo, 2016), raccoglie cinque suoi testi teatrali, sempre in dialetto romagnolo. Sue poesie sono inserite in varie antologie dedicate alla poesia contemporanea in dialetto. La pianta del buio è la sua prima pubblicazione in lingua italiana.
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