mercoledì 28 maggio 2025

La pianta del buio, di Francesco Gabellini

Ricercare l’essenza di sé e della realtà circostante, rovistando nei più profondi lacerti della nostra anima, del nostro inconscio: questo il lavoro dell’artista, del creativo, e in ultima analisi, e forse con una accelerazione e un’enfasi maggiore, del poeta. Qui, in questa silloge di Francesco Gabellini, prima raccolta in lingua italiana edita da RPlibri, importante casa editrice che dà spazio a selezionatissime voci poetiche di spessore, la ricerca di un senso, o perlomeno di una giustificazione, nell’esistenza, nella quotidianità delle cose, nei comportamenti dell’uomo, è piuttosto evidente.
E si tratta di una ricerca continua, insistente, fortemente voluta e direi quasi ostinata, perché il poeta ha necessità di "svelarsi" in profondità, di penetrare la realtà e le cose anche a costo di non trovare nulla che lo soddisfi, o che lo convinca: asintoticamente il poeta ricerca una verità, ovvero la possibilità di una speranza, un orizzonte che gli dia una qualche certezza. Ne segue un’indagine pedissequa nel baratro di sé e della storia, delle vicende umane e sociali attuali che influenzano e coinvolgono lo spirito d’osservazione del poeta. Francesco Gabellini non è da meno, e in questa corposa raccolta poetica, egli indaga alla ricerca della pianta del buio, come lo stesso titolo suggerisce, sintetizzando emblematicamente l’intento dell’autore. Troverà alla fine qualcosa? Egli non teme di indirizzare la sua ricerca a largo raggio, la sua sonda poetica raccoglie messaggi da ogni parte, materiale, sentimentale o anche trascendentale, o anche da soggetti/oggetti che non potrebbero mai dare una risposta. Non per nulla egli riporta in esergo un bellissimo verso di Paul Celan: “È tempo che la pietra accetti di fiorire”.
L’intento evidente della poetica di Francesco Gabellini, in questa raccolta, è dunque essenzialmente quello di trarre anche dal mistero più recondito celato nella realtà delle cose, e anche in quel magma instabile dell’animo umano, un filo conduttore, un delicato “refe” che possa collegare le radici delle cose, e traendole così dal buio dell’inconsapevolezza, o dell’inconscio, per riportarle alla luce attraverso la parola poetica.
È un’operazione delicata. Ma consapevole della sua bravura nel gioco dei versi, Francesco Gabellini punta ad una schiettezza diretta, o con qualche elegante allusione, nel descrivere la realtà, che sovente appare squilibrata, oscura, sconnessa (“...lancette abbandonate ancora / scandiscono le ore”…).
Il recupero di un senso dalle radici buie delle cose (e del nostro essere) è dunque veicolato attraverso questo suo dettato poetico veramente adeguato ed efficace, il che conferma il grande afflato emotivo ma anche l’eccellente stile di scrittura dell’autore, senz’altro meritevole di essere letto e seguito.

 Rafia

 

Passa un filo sottile dentro ogni terra

che lega le radici e tiene saldo il mondo.

Colonne dacqua negli abissi

tenute insieme da un gemito debole

e continuo, il fischio delle meteore

nella notte, mantiene le stelle sospese.

Tutto si tiene in sé a malapena, ma insiste.

Lancette abbandonate ancora

scandiscono le ore.

 

Ed ecco il carro che trasporta

le suppellettili del nostro amore:

il tuo canterano, la timida mimosa,

la pazienza dei giorni lunghi e monotoni.

È un carro sbilenco, le ruote a malapena

si orientano, trainato da due mosche

cavalline, avanza a stento nella palude.

A ogni curva il carico sinarca,

il carro minaccia di andare a ruote allaria.

Ogni amore è un carico instabile

tenuto insieme da un filo di rafia.

Così va, nel cadere non cade.

 

***

 

Gita al binario morto

 

Gita al binario morto,

qui, dove è giunto il nostro andare,

agli orti abbandonati, alle figure

depredate, alle vostre parole

nel tempo perverse, alla liturgia

delle inferriate, alle metafore avvilite

dallunivoco segno, indeclinabile.

 

Gita domenicale, quasi un pellegrinaggio,

con la nonna, i bambini e il cane,

alle rinunce, alle opere dismesse,

alle povere file di case,

cassettiere di credenze sgomberate

dove mai nessun dio è risorto,

nudità abbaglianti, spaventate.

 

Per secoli di stragi impunite

un minuto di silenzio,

durante il quale pensare ad altro,

alle urgenze del vivere finalmente in pace.

Ma siamo venuti dunque

per vedere fiorire la silene bianca,

di notte, da sola, in mezzo ai sassi.

 

***

 

Qualità del morire

 

La voce alla radio elenca le città

dove più alta sarebbe la qualità del vivere.

La luce livida del mattino, indulgente,

accarezza le tende distratte.

 

L inverno sembra avere pietà nelle cose.

 

Dentro lalito tiepido delle case

sembrano unopera le vostre vite mute,

dietro al silenzio liquido dei vetri.

 

E nessuno disse mai del luogo

dove migliore sarebbe per luomo il morire.

 

Vivere riguarda quello che la mano

timorosa tocca.

 

La tua morte la porti sempre con te,

in grembo, rannicchiata in posizione fetale

o dentro al petto che pulsa,

come un secondo cuore.

 

Eco silenziosa e speranza

ancora, di infiniti,

penultimi amori.

 

***

 

Funerale del poeta

 

Preferisco le poesie e ancora meglio

quei componimenti di poche righe

dove lo sforzo della vista si riduce al minimo.

Tutto intorno è la pace del bianco, della pagina grande.

 

Come dopo una lunga nevicata

dal paesaggio svettano i pali magri delle antenne,

le torri, i cipressi del cimitero e i campanili.

I pioppi cipressini iniziano a muoversi,

alberacci che spuntano allimprovviso

come figure esili dello scultore Giacometti.

Camminano con passi lenti verso le case

piene del silenzio della sera.

 

Il suono delle campane si fa più chiaro, allora,

un discorso monotono di tocchi radi.

Laria è nitida e trasparente,

il profumo dellincenso invade le stanze.

 

***

 

Gli onnivori

 

Luomo mangia tutto.

Estrae piante e funghi e li mangia.

Costringe gli uccelli a scendere dal cielo

e i pesci a uscire dal mare, e se li mangia.

Indossa sahariane chiare di lino e foulard di seta

che poi si mangerà, luomo mangia strade e case.

 

Conduce altri uomini in cima alla montagna

per vedere lontano e insieme si mangiano il paesaggio.

Luomo divora interi boschi,

nemmeno le suppellettili sui mobili di casa si salveranno.

 

Luomo ha ritagliato sagome di cartone

con le quali costruire un pubblico per i suoi teatri.

Il silenzio nelle biblioteche è violato

dal rumore martellante delle mandibole.

Luomo si mangia le parole.

I ristoranti sono le nuove cattedrali.

 

La domenica luomo si mangia i suoi figli

e nellultima ora del giorno

luomo mangia anche sé stesso.

 

***

 

Qualcosa che ci riguarda

 

E dovera locchio che vede tutto

quando morì da solo

nel suo appartamento di trenta metri quadri?

 

E venne ritrovato dopo due mesi.

 

Si sentivano le grida di gioia dei bambini

che giocavano giù in strada a un due tre stella

e il canto damore di un merlo.

Forse era primavera e qualcuno

col viso coperto per il forte odore,

era salito su in casa, preoccupato,

chiedendosi se lavanzato stato di decomposizione

fosse qualcosa che ci riguarda tutti.

 

Brani tratti da:

Francesco Gabellini, La pianta del buio, RPlibri, 2025; introduzione di Antonio Bux; postfazione di Gianfranco Lauretano

Francesco Gabellini (Riccione, 1962) è poeta, educatore e autore teatrale. Ha pubblicato sei raccolte di poesie in dialetto romagnolo: Aqua de silénzie (AIEP, 1997), Da un scur a cl’èlt (La vita felice, 2000), Sluntanès (Pazzini, 2003), Caléndre (Raffaelli, 2008), A la mnuda (Ladolfi, 2011), Nivère (Raffaelli, 2021). Zimmer frei (Il vicolo, 2016), raccoglie cinque suoi testi teatrali, sempre in dialetto romagnolo. Sue poesie sono inserite in varie antologie dedicate alla poesia contemporanea in dialetto. La pianta del buio è la sua prima pubblicazione in lingua italiana.




 

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