lunedì 13 maggio 2024

Una recensione di Roberto Nespola per "Mappe senza una terra", di Antonio Bux

Ben volentieri riportiamo qui una interessante recensione di Roberto Nespola per il recente libro di poesie "Mappe senza una terra", di Antonio Bux, RPlibri Edizioni, candidato al Premio Strega Poesia 2024.


Uno sguardo che brucia di radici, le “Mappe senza una terra” (RPlibri, 2023) di Antonio Bux

Attraverso un articolarsi di risonanze (in un presunto vuoto) Bux, in questa sua nuova opera (che è nella dozzina dei candidati al premio Strega poesia 2024) trasforma lo spazio in tempo e dunque il luogo in confronto. Tempo non tanto inteso come ricordo (o premonizione o contemplazione) quanto come esperire: una Erlebnis, un’esperienza vivente, intesa -con Dilthey- come “un rapporto di ‘empatia’ fra l’esperienza vissuta dal singolo individuo e quella vissuta dai suoi simili in altre epoche, anche remote”*, come un condensarsi caleidoscopico di vissuti che il poeta capta ed intuisce con il suo sguardo polimorfo e visionario, paranoico (nel senso di Dalì) e allucinato. Così come lo spazio, e dunque il luogo, viene auscultato e indagato più dalla soglia del cuore che da quella dello sguardo. Potrebbe sembrare l’inverso di ciò che accade nel Parsifal di Wagner, cioè nella musica, in cui il tempo si fa  spazio (“Du siehst, mein Sohn, zum Raum wird hier die Zeit”), forse perché in Bux vi è piuttosto un altro tipo di musica,  che è quella dell’inacustico, quella sottesa alla vibrazione del divenire che innerva tutte le cose e che ce le rende -al contempo- familiari e aliene: la musica dell’infrasuono e dell’ultrasuono, un qualcosa che si pone fuori della nostra piena coscienza, eppure il nodo è proprio la fusione dello spazio e del tempo, quell’incanto (o fattura?) che la poesia riesce a mettere allo scoperto – non importa cosa viene prima e cosa dopo, se il tempo o lo spazio o se i luoghi o lo spirito. Ed è così che il luogo diventa il concerto di un’esperienza interiore, l’esperienza di uno spirito in perenne lotta tra il risorgere e il dissipare. Giacché detta esperienza, difatti, in questo libro è carne che si fa paesaggio, verba caro, orizzonte esistenziale; un bruciare di radici (intendendo il genitivo come oggettivo). I luoghi oggetto di questi versi sono, allora, infinita cassa di risonanza; una modalità per cui il reale e l’immaginario si compenetrano; sono modi diversi di introiettare la realtà proteiforme e di pensarla come frattura, non solo geografica (le radici pugliesi e quelle catalane si mescolano, così come le lingue, in una danza di litanie e rimandi), ma soprattutto preternaturale. Qui incontriamo difatti poesie pregne di parole e di immagini che dimorano ai confini di se stesse, a circoscrivere -senza recinti- un’esperienza tanto liminare e asintotica quanto profondamente articolata: spazio e tempo sono soltanto due dimensioni di un amplissimo multiverso esistenziale che le racchiude entrambe, che le rende un’unica ferita. In questo caso il pretesto viene dato dai luoghi dell’origine e da quelli di (apparente) destinazione, in un compendio deflagrante che brucia le immagini per rischiarare, ancora una volta, le radici di sé. E tutto questo, leggendo le mappe di Bux (qui ne riportiamo un lampante esempio), lo si percepisce chiaramente.

 *dall’Enciclopedia Treccani online

Roberto Nespola


Tre momenti dal libro

 

 

Echi dal Celone

(Torrente foggiano)

 

Celone, ti ascolto. Sai, noi umani

abbiamo bisogno di teorie.

I nostri muscoli sono muffe,

cadono a pezzi se reagiscono,

poi cedono, di fronte all’universo.

È una creatività del male, fissa

sempre un dominio più alto.

Le pose del mondo invece a caso

si rimpiazzano fresche, con gioia.

Non come noi, che in cerca

del diverso non mutiamo.

Sapessi spiegarti per cosa davvero

si ricresce, ti direi che è per sparire,

e forse è così. Staccata, la realtà

mette in ordine senza il sublime.

Cambia percezione, non si raggiunge

di sua volontà, fa maschera del naturale.

L’essere umano camuffato in questa

disciplina, compra e spende senza

mitezza. Diventa finta attività. Invece

Tu, che scorri, grande invisibilmente,

sai che la forza non è nel raggiungersi.

E domini la terra, poiché fatto di quella.

Il tuo controllo è nel divino sottrarsi,

Celone, questa è l’azione. Chi custodisce

pietre per secoli, lo rimuove. Ma l’uomo

freddo calcolo vive, poi muore contrario.

 

 

Dialoghi con Riu

(Dal delta dell’Ebro)

 

 I

 

Ascolta, Riu, è come senti. Al mondo

fischia tutto. Questo dice chi è sotto.

E le chiazze della mente come spirali

si concentrano in più punti, confondendo.

Ma al di sopra un pensiero ricresce

tra le fiamme: è l’unità. Ecco allora

i cannolicchi avvolti nelle sabbie

insistono, investiti dal colore

del fondale. Vivono la polpa,

la indugiano perfettamente

come ostriche, ferendosi

per dare perle, a schiudere il foro

marino. Da un altro buco rientra

invece il calamaro, con la seppia

al buio, imitando l’aragosta, vibra

della migrazione salina. Così ascolta

il mare, pieno di solchi. Di onde interne

che si fondono in trasporti. Creano nuove

luci. Per questo si concentra tutto in basso.

Dove esseri più veri popolano, splendono

sbiaditi, vedono oltre il dono. Sono occhi

rapiti alla corrente. Sono falde onnipresenti.

Pensa, Riu, tutto questo da solo porta

al principio. E per i fiumi è lo stesso.

Solo l’uomo vi annega, in cerca del sibilo.

 

 

II

 

Vedi, Riu, il peschereccio

è sdraiato sul mare. In bilico,

con la fune a torcicollo. Siamo

chiusi come quello. Dalla luce

dell’acqua filtra una murena,

muovendosi fa venire fitte

alla visione. C’è odore

di cancrena, arriva dal rivolo

di un rovo spento. Passiamo

ore al mattino, negli occhi,

diradando sulla battigia

come vuoti, alghe fetali.

Tu non sai di essere finito

e io non so la fine come arrivi,

se da un profondo mal di schiena

o da un sorriso avvolto nel piombo.

So che farà male, che sarà come

fumarsi una stagnola, tradendo gli altri

cresciuti a pasticche. Dentro il mare

barcheggia il rifiuto, la storia svanita

e altri stupidi esseri facendosi a gara,

ma non si salverà il porto, solo una riva.

Riu, tutta questa fatica, lo sguardo

incagliato alle navi, è per una sponda.

Per una sponda morta, che si erode.

 

 

 


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