Uno sguardo che brucia di radici, le “Mappe senza una terra” (RPlibri, 2023) di Antonio Bux
Attraverso un articolarsi di risonanze (in un presunto vuoto) Bux, in questa sua nuova opera (che è nella dozzina dei candidati al premio Strega poesia 2024) trasforma lo spazio in tempo e dunque il luogo in confronto. Tempo non tanto inteso come ricordo (o premonizione o contemplazione) quanto come esperire: una Erlebnis, un’esperienza vivente, intesa -con Dilthey- come “un rapporto di ‘empatia’ fra l’esperienza vissuta dal singolo individuo e quella vissuta dai suoi simili in altre epoche, anche remote”*, come un condensarsi caleidoscopico di vissuti che il poeta capta ed intuisce con il suo sguardo polimorfo e visionario, paranoico (nel senso di Dalì) e allucinato. Così come lo spazio, e dunque il luogo, viene auscultato e indagato più dalla soglia del cuore che da quella dello sguardo. Potrebbe sembrare l’inverso di ciò che accade nel Parsifal di Wagner, cioè nella musica, in cui il tempo si fa spazio (“Du siehst, mein Sohn, zum Raum wird hier die Zeit”), forse perché in Bux vi è piuttosto un altro tipo di musica, che è quella dell’inacustico, quella sottesa alla vibrazione del divenire che innerva tutte le cose e che ce le rende -al contempo- familiari e aliene: la musica dell’infrasuono e dell’ultrasuono, un qualcosa che si pone fuori della nostra piena coscienza, eppure il nodo è proprio la fusione dello spazio e del tempo, quell’incanto (o fattura?) che la poesia riesce a mettere allo scoperto – non importa cosa viene prima e cosa dopo, se il tempo o lo spazio o se i luoghi o lo spirito. Ed è così che il luogo diventa il concerto di un’esperienza interiore, l’esperienza di uno spirito in perenne lotta tra il risorgere e il dissipare. Giacché detta esperienza, difatti, in questo libro è carne che si fa paesaggio, verba caro, orizzonte esistenziale; un bruciare di radici (intendendo il genitivo come oggettivo). I luoghi oggetto di questi versi sono, allora, infinita cassa di risonanza; una modalità per cui il reale e l’immaginario si compenetrano; sono modi diversi di introiettare la realtà proteiforme e di pensarla come frattura, non solo geografica (le radici pugliesi e quelle catalane si mescolano, così come le lingue, in una danza di litanie e rimandi), ma soprattutto preternaturale. Qui incontriamo difatti poesie pregne di parole e di immagini che dimorano ai confini di se stesse, a circoscrivere -senza recinti- un’esperienza tanto liminare e asintotica quanto profondamente articolata: spazio e tempo sono soltanto due dimensioni di un amplissimo multiverso esistenziale che le racchiude entrambe, che le rende un’unica ferita. In questo caso il pretesto viene dato dai luoghi dell’origine e da quelli di (apparente) destinazione, in un compendio deflagrante che brucia le immagini per rischiarare, ancora una volta, le radici di sé. E tutto questo, leggendo le mappe di Bux (qui ne riportiamo un lampante esempio), lo si percepisce chiaramente.
Roberto Nespola
Tre
momenti dal libro
Echi dal Celone
(Torrente
foggiano)
Celone, ti ascolto. Sai, noi umani
abbiamo bisogno di teorie.
I nostri muscoli sono muffe,
cadono a pezzi se reagiscono,
poi cedono, di fronte all’universo.
È una creatività del male, fissa
sempre un dominio più alto.
Le pose del mondo invece a caso
si rimpiazzano fresche, con gioia.
Non come noi, che in cerca
del diverso non mutiamo.
Sapessi spiegarti per cosa davvero
si ricresce, ti direi che è per sparire,
e forse è così. Staccata, la realtà
mette in ordine senza il sublime.
Cambia percezione, non si raggiunge
di sua volontà, fa maschera del naturale.
L’essere umano camuffato in questa
disciplina, compra e spende senza
mitezza. Diventa finta attività. Invece
Tu, che scorri, grande invisibilmente,
sai che la forza non è nel raggiungersi.
E domini la terra, poiché fatto di quella.
Il tuo controllo è nel divino sottrarsi,
Celone, questa è l’azione. Chi custodisce
pietre per secoli, lo rimuove. Ma l’uomo
freddo calcolo vive, poi muore contrario.
Dialoghi con Riu
(Dal
delta dell’Ebro)
Ascolta, Riu, è come senti. Al mondo
fischia tutto. Questo dice chi è sotto.
E le chiazze della mente come spirali
si concentrano in più punti, confondendo.
Ma al di sopra un pensiero ricresce
tra le fiamme: è l’unità. Ecco allora
i cannolicchi avvolti nelle sabbie
insistono, investiti dal colore
del fondale. Vivono la polpa,
la indugiano perfettamente
come ostriche, ferendosi
per dare perle, a schiudere il foro
marino. Da un altro buco rientra
invece il calamaro, con la seppia
al buio, imitando l’aragosta, vibra
della migrazione salina. Così ascolta
il mare, pieno di solchi. Di onde interne
che si fondono in trasporti. Creano nuove
luci. Per questo si concentra tutto in basso.
Dove esseri più veri popolano, splendono
sbiaditi, vedono oltre il dono. Sono occhi
rapiti alla corrente. Sono falde onnipresenti.
Pensa, Riu, tutto questo da solo porta
al principio. E per i fiumi è lo stesso.
Solo l’uomo vi annega, in cerca del sibilo.
II
Vedi, Riu, il peschereccio
è sdraiato sul mare. In bilico,
con la fune a torcicollo. Siamo
chiusi come quello. Dalla luce
dell’acqua filtra una murena,
muovendosi fa venire fitte
alla visione. C’è odore
di cancrena, arriva dal rivolo
di un rovo spento. Passiamo
ore al mattino, negli occhi,
diradando sulla battigia
come vuoti, alghe fetali.
Tu non sai di essere finito
e io non so la fine come arrivi,
se da un profondo mal di schiena
o da un sorriso avvolto nel piombo.
So che farà male, che sarà come
fumarsi una stagnola, tradendo gli altri
cresciuti a pasticche. Dentro il mare
barcheggia il rifiuto, la storia svanita
e altri stupidi esseri facendosi a gara,
ma non si salverà il porto, solo una riva.
Riu, tutta questa fatica, lo sguardo
incagliato alle navi, è per una sponda.
Per una sponda morta, che si erode.
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